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giovedì 31 maggio 2018

Cenni sull'utilizzo delle mandorle nei secoli


 PRENDENDOSI A SEGUIRE I DETTAMI DEL GRANDE ASTRONOMO APICIO nell'antica Roma piuttosto che quelli della ormai superata vecchia tradizione alimentare strutturata sulle RICETTE GASTRONOMICHE DI CATONE "IL CENSORE" TEORICAMENTE REDATTE PER LA FAMILIA DELLA VILLA RUSTICA MA IN EFFETTI FORMULATE ANCHE COME ESPRESSIONE IDEALE DI VITA FRUGALE D'UNA PRISCA E GUERRIERA CIVILTA' - specie tra i ceti benestanti (peraltro influenzati pure dalla penetrazione culturale greca, cioè di una civiltà estremamente raffinata) comparvero cibi sempre più pregiati ed elaborati in cui e specie nei dolciumi o bellaria non mancava certo, come qui si vede, un uso elaborato e sapiente delle MANDORLE


 Garzoni nella sua Piazza di tutte le Professioni del Mondo =
LEGGI QUI IN PARTICOLARE TESTO DIGITALIZZATO DE
DE' FORNARI, O' PANATIERI, O' CONFERTINARI, ZAMBELLARI, OFFELARI, & CIALDONARI, DISC. CXXXIII

[in merito ai FACITORI DI DOLCIUMI vedi qui ZAMBELLARI e OFFELARI ed ancora i CIALDONARI creatori fra l'altro del CHONO FATTO D'UVA PASSA, & AMANDOLE (per espressa indicazione dell'autore ascritti a RICETTE PROPRIE DEGLI ANTICHI, INTENDENDOSI PER ANTICHI. COME SI LEGGE DA RIGA VI DAL BASSO, PRINCIPALMENTE GRECI E POI ROMANI ) = visualizza poi anche, per quanto scrive l'autore, le PENE COMMINABILI A FORNAI FURFANTI (a titolo integrativo e con molta cautela sembrano esservi convergenze sostanziali tra ciò che il Garzoni chiama Chono e qualche alimento prossimo al "pangiallo", meglio noto come "pangiallo romano" un dolce, citato anche da Apicio, che ha la sua origine nell'antica Roma e più precisamente nell'età imperiale. Era, infatti, un'usanza di quei tempi distribuire questi dolci dorati, durante la festa del solstizio d'inverno, in modo da favorire il ritorno del sole. Il tipico "pangiallo romano", ha subito numerose trasformazioni durante i secoli a causa dell'espansione dei confini territoriali e dell'incremento nella comunicazione tra le varie regioni italiane. Tradizionalmente il pangiallo veniva ottenuto tramite l'impasto di frutta secca, miele e cedro candito, il quale veniva in seguito sottoposto a cottura e ricoperto da uno strato di pastella d'uovo. Fino a tempi molto recenti nella preparazione del pangiallo le massaie romane mettevano i noccioli della frutta estiva - prugne e albicocche - opportunamente essiccati e conservati, in luogo delle costose mandorle e nocciole, che avrebbero però dovuto costituire l'elemento portante)].

... molti dei prodotti erano ritenuti in campo fitoterapico e nel contesto della tradizione popolare come forme più preservative che medicamentose contro il contagio pestilenziale (clicca e vedi) = compreso il vino, componente base di tanti medicamenti pressoché tutti i prodotti qui citati entravano infatti nel campo, pressoché infinito quanto inefficace, e trattato in tanti libri dei rimedi proposti contro la peste

Una significativa proprietà medicinale era attribuita anche alle mandorle o più precisamente all'olio di mandorle: vedi qui per esempio come col il contributo anche dell'olio di mandorle dolci sarebbero stati curati un uomo ed una donna colpiti dalla sifilide (o "infranciosati" come al tempo anche si diceva) secondo quanto scrisse nel suo Fulmine de' Medici Putatitij rationali di zefiriele Tomaso Bovio Nobile Veronese, interlocutore Marsiglia, Zefiriele, Filologo (vedi qui per individuare anche altri esempi tutte le opere digitalizzate di Zefiriele Tomaso Bovio (1521-1609) medico empirico, alchimista e cabalista veronese, anche attivo tra Genova - Savona - Ponente Ligure. .
In merito a ciò risulta utile qui proporre un particolare testo, che essendo del XIX secolo dimostra quante credenze fossero destinate a sopravvivere. il testo in questione e qui multimedializzato porta un titolo emblematico = Dell'Olio preservativo sicuro e Rimedio contro la Peste e della causa della Peste, se di natura animale: lettera del Cons. A. A. Frari al Cons. Pezzoni a Costantinopoli, per Gio: Cecchini, Venezia, 1847 (la citazione dell'olio di mandorle rimanda a terapie antiche, specie in un libro come questo di metà 1800 = per esempio nel precedente Manoscritto Wenzel qui digitalizzato il dimensionamento delle proprietà farmacologiche dell'olio di mandorle che qui, pur trattandosi di malattie e terapie importanti, risulta ristretto ad un campo quasi solo estetico in merito alla caduta dei capelli)] ...

da Cultura-Barocca


Il poeta di "Addio al Giardino di Boboli"

San Biagio della Cima (IM)
GIUSEPPE LUIGI BIAMONTI, illustre classicista, docente, tragediografo e poeta vissuto a cavallo tra '700 (peraltro quasi omonimo del moderno illustre concittadino Francesco Biamonti) di San Biagio della Cima (borgo ligure al centro di un'area incredibilmente percorsa da tensioni culturali, spirituali ed intellettuali) nella PARTE FINALE della sua ODE un tempo giustamente famosa (ADDIO AL GIARDINO DI BOBOLI) in qualche modo influenzò UGO FOSCOLO (PERALTRO BUON CONOSCITORE DELLE LIGURI CONTRADE) che nel suo capolavoro, il carme neoclassico DEI SEPOLCRI fece dell'UPUPA un VOLATILE ORRIBILE E LUGUBRO, FAMIGLIO DELLE FORZE DEL MALE tragico frequentatore dei CIMITERI E DELLE ROVINE che, con una natura selvaggia, parevano caratterizzare queste CONTRADE su cui ad onta della GIUSTA FAMA DI SPLENDORE NATURALISTICO E SERENITA' AMBIENTALE FORTUNATAMENTE ESORCIZZATA DALLA ESPERIENZA DEL "GRAND TOUR" A PARTIRE DAL XIX SECOLO data anche la peculiarità dell'AREALE SOSPESO TRA FRANCIA E ITALIA e così pure dall'urto atavico tra RELITTI DI PAGANESIMO E RICONSACRAZIONI CRISTIANE non mancavano connessioni a manfestazioni di STREGONERIA.

GIUSEPPE LUIGI BIAMONTI fu all'epoca una vera e propria celebrità ( tra le altre cose fu "maestro di greco antico di Vincenzo Monti"), anche se oggi nella profluvie di nomi e tendenze è abbastanza dimenticato. Alla sua opera un altro dimenticato letterato genovese" - come altri qui proposti - all'epoca illustre qual fu Ambrogio Balbi in questa ormai rara ma preziosa silloge "Versi scelti de' Poeti Liguri viventi nell'anno 1789" (scorri gli indici moderni) dedicò questa importante sezione, che al pari di tutta l'opera del Balbi merita comunque un recupero anche per riscoprire i tanti poeti che fiorivano viventi in Liguria all'epoca in cui si avvicinavano quei "Nuovi Tempi Napoleonici" nel cui contesto ebbe parte non irrilevante Ugo Foscolo. 

Ne Il Raccoglitore ossia Archivj di Geografia, di Viagi e di Filosofia, di Economia, politica, di Istoria, di Eloquenza, di Poesia, di Critica, di Archeologia, di Novelle, di Belle Arti, di Teatri e Feste, di Bibliografie e di Miscellanee, Volume XXIV, Milano, Dalla Società Tipografica de' Classici Italiani, 1824, il compilatore ovvero il prolifico Davide Bertolotti scrisse queste note a guisa di necrologio e di accompagnamento alla proposizione dell' Addio al Giardino di Boboli del Biamonti reputato da moltissimi l'opera migliore del Biamonti ma ormai quasi introvabile ignorando il Bertolotti che la stessa come qui si vede era stata proposta da Ambrogio Balbi nella sua opera appena sopra citata = a tutto questo il Bertolotti riporta il testo della lapide realizzata dal Borda a celebrazione del Biamonti ove si registra un'imprecisione, che già il Bertolotti commise ad inizio della sua nota, facendo il letterato nativo di Ventimiglia (IM) e non di San Biagio della Cima (IM).

da Cultura-Barocca

mercoledì 30 maggio 2018

Rifornirsi d'acqua nell'antichità e nel Medio Evo

Istanbul, Cisterna Basilica - Fonte: Wikipedia
I primi dati di fornitura organizzata dell'acqua risalgono a tempi remotissimi.
Nella prima età del bronzo, le sorgenti che rifornivano le comunità dell'Europa erano spesso racchiuse in un rivestimento di legno.
Talvolta si raccoglieva l'acqua piovana e si scavavano cisterne in strati di argilla impermeabile, rivestendoli poi con una struttura di legno.
Oltre a scavarle nella roccia, i Greci e i Romani costruivano le loro cisterne in mattoni o cemento con volte a botte e pilastri, aggiungendovi spesso vasche più piccole di decantazione.
Ai tempi ellenistici e durante l'Impero Romano le grandi città, come Alessandria e Bisanzio, costruirono enormi cisterne.
A Bisanzio la più grande misurava 141x73 metri e aveva 420 colonne.
Ancor oggi le grandiose cisterne di Valente (364-78) e di Giustiniano (527-65) riforniscono d'acqua Istanbul.
Per raccogliere, accumulare e conservare l'acqua delle precipitazioni atmosferiche, furono realizzate in tutte le regioni e in tutti i periodi dell'antichità opere importanti (cisterne teatrali, ipogee, ecc.), che però sono state messe in ombra dalle successive costruzioni di grandi acquedotti.
Né è conferma il fatto che fino a oggi non è stato portato a termine nessun restauro sistematico delle antiche cisterne.
Questa lacuna di conoscenza e di impegno nel campo specifico delle cisterne per cui non ci si rende conto dell'effettivo utilizzo, molto diffuso nell'antichità, dell'acqua piovana, è dovuta a una causa precisa: l'unica funzione delle cisterne era quella della raccolta e della riserva sotterranea dell'acqua e, di conseguenza, non furono stabilite norme particolari relative al loro aspetto esteriore.
Le forme delle cisterne potevano essere infatti molto diverse; la gamma delle varianti ha più interesse storico che estetico.
"Benché espressioni come "cisterne teatrali", limitate a situazioni particolari, o "cisterne navali", inducano a supporre che le cisterne avessero più funzioni, le cisterne vere e proprie servivano soltanto alla raccolta dell'acqua. Dal punto di vista della tecnica idraulica, tutti i bacini di raccolta posti al termine di una conduttura vanno distinti dalle cisterne e sono in realtà dei semplici serbatoi, come ad esempio la cosiddetta Piscina Mirabilis o i famosi serbatoi d'acqua di Costantinopoli, che nonostante le loro dimensioni vengono sempre qualificati come cisterne" (R. T. Kastenbein, 1990).
Gli autori antichi sono concordi nel considerare buona la qualità dell'acqua piovana. All'acqua "mandata da Zeus" si attribuivano infatti varie proprietà benefiche, compresa quella di giovare alla salute.
La buona qualità dell'acqua di una cisterna, d'altro canto, dipendeva anche dalla cura dell'impianto; se poi l'acqua di una cisterna non era solo per gli usi comuni, ma anche per l'alimentazione, si consigliava di bollirla.
Secondo Aristotele, una città ben progettata deve avere: "specialmente una naturale abbondanza di acque e di fonti e, in caso contrario, vi si deve far fronte predisponendo serbatoi per l'acqua piovana, capienti e numerosi".
Benché oggi le cisterne richiamino più l'idea dell'acqua d'uso comune che di quella potabile, specialmente perché si tratta di acqua ferma, nell'antichità l'acqua delle cisterne veniva impiegata anche per bere.
Questo accadeva soprattutto quando ancora mancavano i grandi acquedotti, e cioè in qualche grande città prima della fine del VI secolo a.C., in numerose città fino all'inizio dell'età imperiale e in molte altre località per l'intera storia della città.
Ciò poteva accadere inoltre in periodi di guerra o di altre contingenze.
Conformemente alla raccomandazione di Aristotele, le cisterne sulla rocca di Pergamo (attuale Bergama in Turchia), ad esempio, dovevano essere sorvegliate secondo le ordinanze con grande attenzione, anche quando veniva garantito un soddisfacente approvvigionamento idrico attraverso le tubazioni.
In periodi normali, tutte le fattorie, tutti i poderi, tutti gli allevamenti di bestiame, tutte le ville dovevano disporre di una o più cisterne, per non lasciare disperdere le precipitazioni atmosferiche che cadevano in quantità diverse a seconda del periodo e del luogo, e che si sarebbero rivelate preziose nei periodi di siccità. Su questo principio di compensazione tra i periodi di grande abbondanza e quelli di siccità si regolavano soprattutto le isole prive di sorgenti, prime fra tutte quelle di origine vulcanica come Tera/Santorino, e molte altre delle Cicladi.
Ventotene col suo complesso sistema di captazione mediante cisterne rappresenta un significativo modello di circolazione delle acque che collega tutti gli insediamenti principali dell’isola portando l’acqua alla fine del percorso in una piscina con annessa peschiera localizzata nel porto.
Tutto il sistema di captazione e di accumulo tramite cisterne contribuiva a rendere l’isola autonoma dal punto di vista idrico.
Delo, notoriamente povera di sorgenti, presenta quindi numerose cisterne, e così Nasso, che fino all'inizio del nostro secolo ha vissuto esclusivamente di acqua di cisterne.
Anche alcune città di terraferma, dove la falda freatica era troppo profonda per essere raggiunta da pozzi, come ad esempio la città mineraria di Laurio in Attica (Regione della Grecia) o alcune piccole città siciliane, si rifornivano soltanto di acqua di cisterne.
Per gli abitanti delle zone aride dell'Africa settentrionale, che una sola volta all'anno godevano di un periodo di pioggia breve ma abbondante, l'acqua piovana era un bene così prezioso che essi costruirono grandi terrazze lastricate per raccoglierla al meglio.
Il metodo più semplice per raccogliere l'acqua piovana era quello di sfruttare i tetti delle case: una superficie modesta, ma sufficiente con un pratico sistema di raccolta in grandi pithoi come a Olinto (Regione Calcidica della Grecia) o a Priene (in Turchia).
La pianta delle case signorili greche e romane, con i due cortili interni, (atrio e peristilio), era straordinariamente adatta alla raccolta dell'acqua piovana.
Ci si può quindi domandare se il tipo comune di casa sviluppato dai Greci e dai Romani non fosse proprio conseguenza del largo bisogno di acqua piovana.
Dai tetti relativamente piatti e pendenti verso il cortile interno (compluvium), l'acqua piovana fluiva, direttamente oppure attraverso grondaie e doccioni, in una vasca al centro, del cortile stesso, ossia nell'impluvium.
Da qui l'acqua scorreva in cisterne sotterranee, per depurarsi in bacini di sedimentazione.
Parallelamente al costante miglioramento del rifornimento idrico grazie alla costruzione di condutture, aumentò anche, in generale, il numero delle cisterne private.
Questo accadeva soprattutto per la volontà della gente di essere indipendente evitando di recarsi ogni volta ai punti pubblici di distribuzione.
La maggior quantità di acqua piovana veniva raccolta sui tetti: si pensi, oltre alle case private, anche alle sedi di lavoro, agli edifici pubblici di ogni genere o alle superfici di copertura dei templi, talvolta gigantesche, che spesso erano collegate con cisterne. I grandi edifici, con cisterne di raccolta per singole zone della città, oppure costruzioni particolari, come teatri, che si prestavano ottimamente alla raccolta dell'acqua piovana, erano collegati con l'imboccatura delle cisterne mediante grondaie, tubature in terracotta o canalette.
Le cisterne poste in superficie, erano piuttosto infrequenti, perché troppo esposte all'azione del calore.
In alcune località, come a Pompei, c'erano invece delle cisterne sopraelevate, da non confondere con gli impianti di raccolta idrica con cisterne sotterranee.
Questi contenitori sopraelevati assolvevano a una doppia funzione: oltre a immagazzinare acqua dai tetti, posti ancora più in alto, servivano contemporaneamente all'immediata distribuzione.
Una via di mezzo tra le cisterne di superficie e quelle sotterranee è rappresentata dalle camere di riserva scavate nella roccia, come le cisterne in pietra presso il tempio di Apollo Maleatas vicino a Epidauro (nel Peloponneso in Grecia), risalente all'età imperiale.
Normalmente si preferiva immagazzinare l'acqua piovana in impianti sotterranei (lacus, cisterna), che erano protetti dal calore, dalla sporcizia e da sgraditi agenti esterni.
Per conservare l'acqua fresca e pulita, le cisterne greche e romane più antiche venivano scavate nel terreno con il fondo a forma di pera o di bottiglia, e avevano soltanto una piccola apertura verso l'alto.
Già nell'età cretese-micenea, le cisterne interrate vennero rivestite di intonaco, per ridurre e più tardi per bloccare completamente le perdite per drenaggio.
Molte cisterne arcaiche del Pireo vennero costruite, in un primo momento, a forma di pera e, nel corso del tempo, furono notevolmente ampliate con camere sotterranee e, in alcuni casi, collegate l'una all'altra mediante gallerie praticabili.
Queste costruzioni con gallerie, tipiche di Atene, ritornano nell'Alessandria ellenistica, dove però non venivano sfruttate per l'acqua piovana, bensì per l'acqua portata da un canale del Nilo.
Le cisterne sotterranee non murate non sono legate a particolari periodi storici, ma si presentano in ogni secolo dell'antichità, sulla rocca di Pergamo (profondità media di 7-9 m, capacità 50-70 Mc) come sull'acropoli della città di Samo, dove un vecchio pozzo venne sostituito con una cisterna originariamente piccola, più tardi ampliata con alcune camere laterali.
Nell'età arcaica non sono documentate cisterne completamente murate, e nell'età classica sono una rarità: nella colonia milesia di Olbia nel Ponto c'era invece una cisterna con una classica muratura a conci, che poteva contenere circa 22 Mc di acqua piovana.
Nel corso dell'età ellenistica e repubblicana, la capacità media della cisterna aumenta sensibilmente e, in seguito all'impiego della pietra da taglio come materiale edile, vengono preferite le piante rettangolari a quelle rotonde, e ci si preoccupa sempre più di mantenere pulita l'acqua delle cisterne.
Il criterio sperimentale fissato dal Palladio, secondo cui una cisterna deve essere più lunga che larga, veniva rispettato ad esempio nella Perachora ellenistica.
Si trattava ancora di una cisterna a navata unica: i piloni mediani riducevano solamente la campata delle travi in pietra, che sostenevano la copertura orizzontale della cisterna.
Se in età tarda le cisterne venivano impiegate prevalentemente per l'acqua d'uso comune, all'inizio, invece delle camere comunicanti separate da filtri, doveva essere stato realizzato qualche sistema sconosciuto di purificazione soprattutto per l'acqua potabile.
Le cisterne più antiche, che non possedevano ancora nessun dispositivo di depurazione, furono dotate in seguito, come la cisterna di Dictinna a Creta, di un bacino di sedimentazione.
Dall'età ellenistica in poi si moltiplicarono le strutture edili e le tecniche di muratura. In particolare, la tecnica degli archi a cunei si dimostrò molto promettente per la costruzione dei ponti d'acquedotto e delle cisterne.
La cisterna di Delo, datata al III secolo a.C., che raccoglieva l'acqua dalla cavea del teatro, si distingue, nella sua epoca, per le dimensioni (circa 200 mq di superficie di base) e per gli otto archi in granito, collocati a regola d'arte, che sorreggono una volta a botte.
Nel periodo successivo, ebbe grande importanza l'introduzione della malta e della muratura a gettata, la tecnica di costruzione in mattoni e il continuo miglioramento della tecnica degli archi anche nelle cisterne.
Tutte queste tecniche edilizie romane sono presenti negli impianti di deposito sotterranei.
Il sistema di camere con volta a botte e a crociera viene realizzato anche con sei o sette locali adiacenti o con combinazioni di locali più grandi e più piccoli, più alti e più bassi, collegati l'uno all'altro.
Vengono costruite perfino cisterne a due piani (Leptis Magna).
Soltanto alcune cisterne grezze, prive della muratura in malta, non avevano intonaco.
In genere le pareti delle cisterne venivano intonacate con opus signinum, mentre il suolo veniva rivestito con pavimentum testaceum (ammattonato), per smussarne le asperità.
Alcuni o molti strati di intonaco o di pavimentazione in mattoni testimoniano un uso più o meno prolungato della cisterna.
L'intonaco impermeabile, che veniva applicato sulle superfici ruvide, come in diversi casi a Delo, caratterizzata da rocce scistose, necessitava in particolar modo di manutenzione.
L'acqua piovana veniva attinta dalle imboccature chiudibili delle cisterne nello stesso modo e utilizzando gli stessi mezzi che servivano per attingere l'acqua dei pozzi.
Nell'antichità, il metodo del prelievo rappresenta un elemento che collega molti e diversi impianti di approvvigionamento d'acqua.
I medici e gli ingegneri antichi insistevano concordemente sulla necessità di avere un'acqua pura.
Galeno, Vitruvio e altri denunciarono l'uso del piombo per i rivestimenti delle cisterne o per fare tubi, ma nonostante alcune precauzioni sebbene l'incrostazione prodotta dal carbonato di calcio e di piombo sulla superficie interna dei tubi ne riducesse il pericolo continuarono, sorprendentemente, a manifestarsi casi di avvelenamento da piombo sì da far ipotizzare qualche altra indecifrabile ragione del malessere.
Vitruvio raccomanda i seguenti metodi per provare la purezza dell'acqua: "l'acqua, spruzzata su un recipiente di bronzo corinzio (una lega di oro-argento-rame) o su qualsiasi altro bronzo buono, non dovrebbe lasciare traccia. Se si fa bollire dell'acqua in un recipiente di rame e dopo averla fatta riposare la si versa, essa sarà soddisfacente se non lascerà tracce di sabbia o di fango sul fondo del recipiente di rame. Inoltre, se i legumi bolliti nel recipiente cuociono presto, vuol dire che l'acqua è buona".
Diversi testi antichi riferiscono che certe acque "possono sopportare un po' di vino"; ed è possibile dedurre che, mescolando l'acqua a goccia a goccia con un vino ben colorato, i Romani valutassero il tenore di calce della loro acqua.
Gli antichi consigli per la depurazione dell'acqua vanno dalla semplice esposizione al sole, all'aria e alla filtrazione.
Erodoto segnala che l'acqua del Karkheh (in Iran, il nome originario del fiume era Choaspes), che scorre nei pressi di Susa, veniva bollita e conservata in caraffe d'argento per i re persiani.
Sono stati rinvenuti filtri porosi di tufo, e la filtrazione attraverso la lana o il lino ritorto era ben nota.
Sulla depurazione dell'acqua, Ateneo di Attila scrisse un'opera (50 d.C. circa) dove si parla della filtrazione.
Il filtraggio attraverso strati di sabbia è anche consigliato da Vitruvio.
Per la depurazione dell'acqua gli antichi autori consigliano l'aggiunta di varie sostanze, tra cui la più comune e la più efficace era il vino.
Le coperture dei tetti non dovevano essere di materiale organico (legno) né di lastre di piombo o contenenti comunque piombo.
Da preferirsi erano i tetti in laterizi o in lastre di lavagna.
Tali coperture non dovevano essere comunque a livello inferiore a quelle di contigue abitazioni, dalle quali potevano essere gettate sostanze di rifiuto, né dovevano essere accessibili all'uomo o agli animali.
Le dimensioni delle superfici di raccolta e delle cisterne dovevano essere calcolate in funzione delle necessità.
Se si trattava di località piovose si calcolavano in genere dimensioni tali da sopperire alle necessità di un bimestre, mentre se si trattava di località con piogge scarse ci si riferiva ad almeno un quadrimestre.
Per le cisterne si aumentava del 20% la quantità di acqua calcolata necessaria, al bimestre o al quadrimestre, come quota riservata alla sedimentazione delle sostanze sospese.
Le cisterne dovevano essere installate lontano da qualsiasi fonte di inquinamento (almeno 10 m da pozzi neri e 20 m da depositi di letame); dovevano essere possibilmente interrate per favorire la costante temperatura dell'acqua; non dovevano ricevere luce, altrimenti veniva favorita la formazione di alghe; dovevano avere un'apertura o botola di ispezione, ben protetta dall'eventuale ingresso di animali e contornata da una platea impermeabile con inclinazione verso l'esterno al fine di impedirvi l'infiltrazione di acqua caduta sul suolo circostante.
Infine la loro forma doveva essere preferibilmente a fondo semisferico per favorire la sedimentazione delle sostanze sospese, e la muratura doveva essere rivestita interamente con materiale assolutamente impermeabile (il rivestimento era di solito in malta di cocciopesto ed uno strato finale di olio di cocciopesto). Il sistema di attingimento era dall'alto, attraverso la canna del pozzo. Era inoltre opportuno periodicamente svuotare la cisterna e ripulirla.
Nella domus delle città di provincia troviamo l'essenziale dell'architettura civile romana.
Nelle case più arcaiche l'atrium aveva solo una stretta apertura che fungeva da camino e da lucernaio a un tempo.
Successivamente l'apertura diventò un vero e proprio pozzo di luce, il compluvium, al quale doveva necessariamente corrispondere un bacino a terra, l'impluvium, in cui confluiva l'acqua piovana.
Fu probabilmente a partire dal VI secolo a.C., che le case si dotarono di tali cisterne.
Da qui, tramite un orifizio di presa, la cui ghiera diventerà in seguito un elemento decorativo, l'acqua fluiva nella cisterna sottostante.
Anche gli edifici pubblici (terme) furono dotati di adeguate cisterne.
La più grande fu quella riservata alle terme del Foro, costruite nell'80 a.C., con una lunghezza di 15 metri, una larghezza di 5 e un'altezza di 9; da questa cisterna una macchina elevatrice travasava l'acqua nelle piscine delle sezioni maschile e femminile dell'impianto termale.
Le cisterne destinate a raccogliere l'acqua piovana, anche se innumerevoli, non ci hanno lasciato, se non raramente, la possibilità di rilevare esattamente il loro sistema di alimentazione.
Gli architetti, sempre attenti nel disporre i piani dei tetti inclinati verso l'interno delle case, applicavano sistematicamente il principio del compluvium.
L'impluvium, a parte il suo valore ornamentale, serviva ad una prima decantazione delle acque, che abbandonavano sul fondo di questo bacino le impurità più grosse che avevano raccolto sui tetti.
Nel peristilio, un canaletto, periferico di pietra o di mattoni dotato di pendenza, conduceva l'acqua a una vaschetta di decantazione, nel fondo della quale, si apriva il condotto per la cisterna.
Il prelievo dell'acqua dalla cisterna avveniva attraverso una sorta di pozzo di presa aperto nell'atrium, o talvolta nel peristilio, raramente nella cucina, la cui vera, detta puteal, era un cilindro di marmo o di terracotta, spesso decorato.
Una stagione eccessivamente piovosa poteva provocare la fuoriuscita dell'acqua dalla cisterna; si predispose allora un condotto di troppopieno posto a un livello inferiore a quello dell'alimentazione.
A Pompei, città sprovvista di fognature urbane, questo condotto portava l'acqua in eccesso alla strada, passando sotto i marciapiedi.
Primo esempio significativo di riuso dell’acqua a Pompei si ritrova nella Casa del Poeta tragico dove l’acqua della cucina portata da un tubo di piombo veniva utilizzata come sciacquone nella latrina.
Le dimensioni delle cisterne erano assai variabili in funzione della loro destinazione: nelle case private la cavità, accuratamente rivestita di calce e di cocciopesto, poteva limitarsi a 2 mq, mentre, se si trattava di un edificio termale, doveva contenere decine di migliaia di litri d'acqua.
La villa romana di Russi costituisce una delle ville rustiche più esemplificative e meglio conservate dell'Italia Settentrionale.
Presenta una estensione di almeno 8.000 metri quadrati, un impianto termale e 3 cisterne per la raccolta dell'acqua.
Sul lato est della villa c'è un ambiente scoperto in cui si usava molta acqua, come si può desumere dalle fognature e da un pozzo; particolarmente interessante risulta una vasca sopraelevata, pavimentata in mosaico a tessere appuntite e collegata ad una vaschetta più bassa, con un incavo per la raccolta dei liquidi: probabilmente era destinata alla lavorazione del vino.
L'ingresso principale era a sud del complesso in un altro cortile, od aia, nel quale sono stati scavati solo alcuni ambienti sul lato ovest, una probabile latrina ed una cisterna per acqua.
L'impianto termale serviva un ambiente , con pavimento in marmo e mosaico e con una scala che permetteva di accedere ad altre stanze sopraelevate; vi sono poi una fognatura con pozzetto in marmo traforato, due vasche in mosaico per il bagno, di cui una semicircolare, e altri ambienti con resti di intonaci parietali.
Complicati sistemi di rifornimento idrico furono creati in epoche sbalorditivamente remote.
Nel monastero di Christchurch, a Canterbury, si installò un impianto idraulico completo nel 1150.
Vicino alla sorgente c'era un serbatoio principale, in forma di torre rotonda, dalla quale si dipartiva un tubo sotterraneo di piombo che passava attraverso cinque cisterne di decantazione oblunghe, ciascuna munita di suspirail o apertura per controllare la pressione; di qui, il tubo passava sotto le mura della città ed entrava nel territorio del monastero.
Raggiungeva quindi un lavabo, dove alimentava un serbatoio collocato su un pilastro per creare una centrale di distribuzione.
Da questa si dipartivano due tubi: uno andava al refettorio, al retrocucina e alla cucina; l'altro andava al forno, alla distilleria e alla sala degli ospiti, e infine a un altro lavabo vicino all'infermeria.
Nei lavabi, sottili rivoli d'acqua si riversavano ininterrottamente nelle vaschette.
Altre diramazioni alimentavano il bagno e una cisterna che serviva agli abitanti del luogo.
L'acqua in eccedenza si raccoglieva in una vasca di pietra per i pesci, e di lì passava a una cisterna accanto alla cella del priore e quindi alla "vasca" del priore, dove arrivavano anche l'acqua in eccedenza del bagno e l'acqua piovana dei tetti, in modo da formare un energico flusso purificatore che correva attraverso lo scarico principale sotto le latrine o "retrodormitori".
Inoltre, esisteva una riserva d'emergenza: nel cortile dell'infermeria c'era un pozzo, e accanto a questo una colonna cava collegata al condotto principale, nel quale si poteva così immettere l'acqua del pozzo in modo che l'erogazione non venisse sospesa nei tempi di siccità.
Brevi diramazioni, chiamate purgatoria, servivano per lavare periodicamente le tubazioni.
L'efficienza di questo sistema idraulico può spiegare come mai il monastero rimase immune dalla peste nera nel 1349.
Il tracciato dell'impianto idraulico della Certosa di Londra è indicato dalla "Watercourse Parchment", la "pergamena del corso d'acqua", esposta nella sala-archivio della Certosa stessa.
Nel 1430, un certo John Feriby e sua moglie Margery, concessero al priore e al convento una fountain (sorgente d'acqua) e un tratto di terreno attraverso Irlington per installarvi una conduttura sotterranea.
Dalla sorgente, l'acqua passava in un tubo di piombo e in un canale di pietra, con suspirails come a Canterbury. Da una torre-cisterna nel chiostro principale si dipartivano diramazioni per portare l'acqua al lavabo, alla lavanderia, al caseificio e alla distilleria.
Poiché il certosino viveva quasi isolato, cucinandosi i pasti da sé e coltivando un orticello personale, ogni cella aveva la propria provvista d'acqua.
L'abbazia di Praglia, situata ai piedi del Monte Lonzina nei Colli Euganei (Padova), è dotata di 4 chiostri.
Il chiostro doppio che risale al 1490, ha un pozzo ancora funzionante per l'approvvigionamento idrico.
Il chiostro pensile, che risulta sicuramente il più interessante, risale al 1495, come è attestato da una iscrizione posta sull'architrave del pozzo, attribuito all'architetto Tullio Lombardo.
Esso è ubicato nella stessa posizione del chiostro medievale, di cui ricalca all'incirca la geometria, il pavimento è lastricato con ottima trachite con andamento leggermente convesso, per favorire la raccolta dell'acqua piovana nella sottostante grande cisterna (magnifico spazio funzionale ricavato nella roccia del monte Lonzina e costruito con pilastri e volte).
L'acqua raccolta dai tetti, veniva filtrata attraverso uno strato di sabbia fine, per poi essere prelevata dal pozzo.
Il chiostro botanico risale al 1490 ed è dotato di una fontana, alimentata dalla sorgente del monte Lonzina.
Infine, il chiostro rustico del 1550, sistemato dalla parte del monte Lonzina, serviva come spazio di fattoria.
Il Santuario di S. Maria delle Grazie di Covignano (Rimini), conserva ancora a lato della chiesa, un classico chiostro francescano di stile cinquecentesco.
Rifatto dopo la distruzione bellica, presenta al centro il tradizionale pozzo conventuale con cisterna sotterranea.
Infatti ad una profondità di circa 5 metri, si trova la cisterna dotata di un filtro a carboni, che serviva a captare e depurare le acque raccolte dai tetti.
Nelle fortezze medievali erette per far fronte agli assedi prolungati, il pozzo era un elemento di prima necessità, non solo nella cerchia dei bastioni difensivi, ma all'interno dell'ultimo rifugio, il "mastio" vero e proprio.
Spesso i castelli sorgevano in posizioni elevate e l'approvvigionamento d'acqua era assicurato da cisterne, alla maniera di quanto era stato fatto in ambito greco e romano che raccoglievano la pioggia.
Le superfici di raccolta erano: la corte, i tetti o le terrazze delle torri degli edifici e persino i cammini di ronda.
Usualmente l'acqua veniva filtrata prima di essere ammessa in cisterna con filtro a ghiaia e sabbia.
Nella fortezza normanna, il cannone del pozzo veniva elevato a volte fino al primo piano e anche più su, come protezione accessoria contro gli assedianti, se avessero invaso il pianterreno.
L'acqua si poteva attingere a qualsiasi piano.
A Newcastle, il pozzo si trova in una torre d'angolo del mastio e a entrambi i lati della fonte principale vi sono vaschette o nicchie nelle pareti con tubi e condotti che alimentano le altre parti del forte.
Dalla fine del secolo tredicesimo i masti non si costruirono più, e il pozzo venne situato nella corte centrale, o in una torre speciale come a Carnarvon, dove l'acqua veniva distribuita da una cisterna rivestita di piombo per mezzo di canali di pietra.
Nella Rocca dei Conti Guidi a Modigliana (915 - 1376, Forlì), dove si ritrova un peculiare esempio di tonacatura impermeabile, scavi archeologici hanno portato alla luce un sorprendente impianto di captazione, filtraggio e contenimento dell’acqua piovana.
La superficie interna delle tre cupole sovrapposte e del cilindro che le contiene sono tonacate con uno spesso strato di malta di cocciopesto e rifinite di uno stucco oleoso ancor di cocciopesto.
Questa tecnica, che ricorda le affascinanti rifiniture "sagramate", tipiche di quell’area, non si avvale dell’opera marmorata superficiale. Ciò non toglie che il manufatto non sia stato, a suo tempo, trattato adeguatamente per ottenere che diventasse impenetrabile all’acqua.
Di fatto, un intonaco di cocciopesto, anche se ben battuto ed assodato, ha una porosità superiore a qualsiasi altra crosta marmorata.
Ragione per cui questi manufatti sono molto più avidi d’olio di quanto non lo siano i comuni intonaci di calce e sabbia: anzi, queste materie sembrano non saziarsi mai, ed assorbono l’olio sino a farlo penetrare nelle loro più profonde ed intime vacuità, conferendo allo strato di rifinitura, una volta essiccata, uno straordinario potere di contenimento dei liquidi.
E’ poi riconosciuto, che gli intonaci di calce e cocciopesto, per la loro composizione chimica e la loro struttura, garantiscono le qualità organolettiche dell’acqua.

da Cultura-Barocca

martedì 29 maggio 2018

Il pellegrinaggio a La Mecca

 
Si può dire che il pellegrinaggio a La Mecca sia nato insieme alla religione dell'ISLAM (ISLAM ="ABBANDONO, SOTTOMISSIONE, FEDE A DIO" in arabo ALLAH) di MAOMETTO I: i SEGUACI di MAOMETTO e quindi dell'ISLAM sono poi detti nel codice latino di comunicazione MUSULMANI per adattamento del termine persiano MUSLIMAN a sua volta derivato dall'arabo MUSLIN nel senso di "ADERENTE ALL'ISLAM" (vedi BATTAGLIA, XI, sotto voce, etimologia.
Per il paganesimo sincretistico dell'Arabia del VI-VII secolo d.C. La Mecca era già città santa e ritenuta uno dei centri in cui era vissuto Abramo.
Come spesso accade per ogni fenomeno religioso che, all'origine, deve sovrapporsi a un sistema sociale per poterlo rifondare, la predicazione di Maometto trasformò la consuetudine di un viaggio alla fiera annuale della città, essenzialmente motivato da scopi commerciali, in un dovere religioso per i membri della comunità di fedeli dell'ultima religione sorta dal monoteismo semitico: un dovere che lo stesso Profeta espletò due volte nella sua vita.
L'espansione islamica guidata dai primi quattro califfi (632-661) e, in seguito, dalla dinastia omayyade unificò un territorio che si estendeva, alla fine dell'VIII secolo, dalla Spagna alle frontiere orientali dell'Iran ove si ponevano i presupposti storici dell'avanzata dei Turchi e dell'espansionismo dei Mongoli.
All'interno di questo vasto territorio, destinato, in seguito, a espandersi ulteriormente verso oriente e a sud del Sahara, i processi di arabizzazione e di islamizzazione non procedettero in maniera omogenea, nè peraltro, come ormai ènoto, si verificò una conversione a tappeto di tutte le popolazioni dell' ecumene islamica. Tuttavia, le fonti di cui disponiamo per la storia del pellegrinaggio a La Mecca vedono proprio in quest' epoca ancora instabile l'inizio del pellegrinaggio anche da parte di musulmani non arabi: dalla fine deli' VIII secolo, infatti, le prime carovane di pellegrini di differente etnia, lingua e provenienza geografica cominciarono a giungere a La Mecca per rendere testimonianza della propria fede.
Oggi come allora, i gesti simbolici che ogni pellegrino compie, a imitazione del pellegrinaggio intrapreso da Maometto poco pnma di morire, sono regolati in maniera ineludibile.
Ciò che a un osservatore distaccato potrebbe sembrare una serie di azioni fredde e impersonali, è invece la manifestazione di una ritualità fortemente connotata dall'importanza della gestualità, compiuta entro un tempo e uno spazio ben definiti.
Questa concezione 'attiva' della preghiera, regolata da condizioni precise che in un certo senso convalidano l'accesso umano alla dimensione del sacro e del divino, è peraltro fondamentale nella religiosità semitica, cui l'Islam appartiene; non essendovi alcuna mediazione fra Dio e l'essere umano, ogni credente è al tempo stesso l'officiante della propria liturgia.
Il gesto rituale enfatizza dunque la misura di un tempo sacro distinto e differenziato dal tempo profano.
Il vissuto religioso di un credente musulmano si pone, quando diviene pellegrino, così come quando prega, entro un doppio livello di manifestazione e di interiorizzazione.
Al gesto esteriore che sancisce, nello spazio e nel tempo, l'avvenuto contatto con la dimensione del divino corrisponde un profondo atto di introspezione, che può essere anche vero e proprio percorso intellettuale, come nel caso dei grandi mistici musulmani.
Il pellegrinaggio è sempre, indipendentemente dalle risorse cultura li individuali, un atto, o quanto meno un desiderio, di rinascita spirituale, dal quale si ritorna, o si spera di tornare, inevitabilmente diversi.
'Credere' inteso come atto della ragione e, al di là degli obblighi devozionali di cui parlano i catechismi, senz' altro l'invito più suadente che il Corano rivolge a chi vede in esso la parola di Dio.
Vi è dunque un'imperscrutabile presa di coscienza, espressa dal concetto religioso di niyya (intenzione), cui intimamente è chiamato in prima istanza chiunque decida- ed è un dovere religioso, se si è benestanti e in buona salute - di partire per condividere con quella moltitudine, che da secoli arriva a La Mecca, un modello simbolico di imitazione del Profeta.
Data questa scansione nel sentire religioso dei musulmani fra tempo del sacro e tempo del profano, a cui corrisponde un riscontro in armonia col tempo astronomico, scandito dalle lunazioni, il pellegrinaggio ha un suo tempo peculiare ail 'interno del calendario islamico.
Si distingue infatti un piccolo pellegrinaggio a La Mecca ('amra), che si può compiere in qualsiasi periodo dell' anno, dal pellegrinaggio vero e proprio ( hagg ).
I riti del pellegrinaggio si susseguono così: dal primo giorno di sawwal (decimo mese del calendario lunare) all 'ottavo di du 'l-higga (dodicesima luna che chiude l'anno musulmano) si compie un'abluzione completa e si indossa l'abito rituale, costituito da due teli di stoffa senza cuciture da annodarsi intorno al corpo.
L'abluzione e la vestizione rituale rappresentano un momento di purificazione e di ritorno a una condizione originaria di assoluta eguaglianza fra tutti gli esseri umani.
Si compie poi la circumambulazione intorno alla Ka'ba, il cubo al centro della grande moschea de La Mecca dove si conserva un meteorite, la Pietra Nera, portato secondo la tradizione religiosa musulmana dall'arcangelo Gabriele.
Le cerimonie all'interno della zona sacra intorno alla moschea de La Mecca si concludono con una processione tra le due colline di Safa e di Marwa.
Esse costituiscono la parte fondamentale dei riti della 'umra, e il preludio al hagg, il pellegrinaggio maggiore, che ha invece come teatro anche il deserto che si estende a est della città sacra.
I riti del hagg seguono questo calendario: 1'8 di du 'l higga, il 'giorno dell'abbeverata', si parte per la pianura desertica di Arafat, a circa 25 chilometri a sud-est de La Mecca.
Il 9, 'giorno di Arafat', i pellegrini sostano in preghiera e in raccoglimento; al tramonto, tornando verso La Mecca, si fermano nella valle della Muzdalifa per raccogliere i ciottoli che serviranno a compiere il rito della lapidazione di Satana.
Questo avviene il giorno successivo, nella vallata di Mina, dove i pellegrnu lanciano sette ciottoli contro tre steli che rappresentano appunto Satana.
Nello stesso giorno chi vuole può radersi i capelli, o limitarsi al taglio di una ciocca, portando così a compimento quel ritorno simbolico a una purezza primigenia iniziato con 1' abluzione e 1' abito rituale.
Da questo momento, seppure gradualmente, il fedele inizia a sospendere le regole della purezza rituale.
Chi vuole - i meno abbienti ne sono dispensati - può acquistare un animale da sacrificare per commemorare Abramo.
E' questa l'unica infrazione, lecita proprio perché sancita dal rituale, a una disciplina di tutela ambientale che, fin dalla nascita dell' Islam, non tollera il minimo atto di violenza entro lo spazio sacro del pellegrinaggio: fra l'altro, secondo una tradizione pronunciata dal Profeta, è proibito non solo uccidere animali (eccetto gli insetti), ma anche tagliare la vegetazione, o addirittura cacciare da una zona ombreggiata un animale per mettersi al suo posto.
Si parte poi per La Mecca, dove altri giri intorno alla Ka'ba consacrano il rientro del fedele alla vita profana.
Alla sera si ritorna a Mina, dove si pernotta.
L' 11, 'giorno del disseccamento', la carne degli animali sacrificati si lascia asciugare al sole, prima di essere consegnata a organizzazioni umanitarie che la distribuiranno in beneficenza.
Vi è una nuova lapidazione di Satana, sempre con sette ciottoli.
Il 12 è l'ultimo giorno a Mina per coloro che ancora non sono rientrati a La Mecca.
Nellà citta sacra, il giro di addio intorno alla Ka'ba conclude il pellegrinaggio.
La Mecca ha rappresentato, per i quindici secoli della storia dell'Islam, il polo magnetico di un'esperienza religiosa che ha unito milioni di coscienze al di là della diversità di etnie, delle differenze sociali, dell' eterogeneità degli ambienti geopolitici che formano l'ampio tessuto del mondo arabo-islamico.
Nonostante le numerose guerre, gli scismi, e soprattutto la dispersività delle enormi distanze - dal Marocco all'Indonesia, dall'Africa subsahariana alle repubbliche asiatiche della ex Unione Sovietica- La Mecca ha sempre assolto il ruolo di punto focale della comunità dei credenti musulmani.
Il forte senso dell' orizzontalità - spaziale e temporale - che domina il dispiegarsi della parola coranica sembra materializzarsi nella fissazione di un punto terrestre verso cui la spiritualità e la devozione religiosa possano convergere.
"Dovunque slate" - è scritto nel Corano (II, 150) - "rivolgetevi verso quella direzione, a che la gente non trovi pretesti contro di voi".
La direzione, la qibla verso cui ogni credente orienta la propria preghiera, è quella della Ka'ba, eretta da Abramo secondo la storia sacra dell' Islam, e descritta nel Corano come "il primo tempio che sia stato fondato per gli uomini" (III, 96).
Altrove, nel Corano, è Dio stesso che invita il Profeta a dare un senso spaziale alla sua preghiera: "Vediamo che tu volgi lo sguardo verso il cielo, ma ti daremo una qibla che ti piacerà: volgi dunque il volto verso il Tempio Sacro" (II, 144).
Da un punto vista storico e sociologico, nel corso dei secoli il pellegrinaggio a La Mecca è stato ed è uno dei capitoli più importanti della storia delle comunicazioni umane.
Si tratta certamente di una complessa rete di comunicazioni, attive a più livelli.
Se guardiamo alla base di questo fenomeno, il pellegrinaggio è da secoli un'occasione unica, per i fedeli, per affermare la propria fede e per trasmettere tale esperienza.
Per cogliere l'importanza di questo aspetto, e la sua incidenza sulla storia culturale, si considerino le due più importanti fonti medievali sul pellegrinaggio musulmano: l'andaluso Ibn Gubayr (XII secolo) e il magrebino Ibn Battuta (XIV secolo).
I diari di viaggio di questi grandi viaggiatori, in parte all 'origine di un particolare genere letterario centrato appunto sul pellegrinaggio, sono testi preziosissimi non solo perché consentono di ricostruire le condizioni di vita quotidiana e di viaggio nel Medioevo arabo-islamico, ma anche perché teatro storico globale è tutto il Mediterraneo.
Il pellegrinaggio musulmano si inserisce così in un tessuto di traffici e di comunicazioni ben più vasto di quanto certa storiografia passata ci abbia insegnato a scuola.
Un pellegrino musulmano proveniente dall'Andalusia, come appunto fu il caso di Ibn Gubayr, poteva trovare ovvio imbarcarsi a Ceuta, in Marocco, su una nave genovese per recarsi fino ad Alessandria d'Egitto.
Infatti, la scelta di Ibn Gubayr di ricorrere a imbarcazioni italiane (siamo nel 1183, quindi in piena epoca crociata) era sicuramente dettata dalla supremazia delle flotte cristiane nel Mediterraneo e dal conseguente minor pericolo di attacchi dei pirati.
Questa abitudine fu mantenuta per diversi secoli: pellegrini algerini, tunisini e libici spesso viaggiavano su navi inglesi o francesi fino ad Alessandria, e da lì giungevano al Cairo, dove si univano alle carovane appositamente organizzate per il pellegiinaggio.
Dall'alto Egitto, poi, sarebbero giunti fino a La Mecca.
Come si può intuire, la storia dei pellegrinaggio alla città santa dell' Islam è profondamente intrecciata alla storia delle grandi rotte commerciali che univano l'immenso territorio islamico.
Quello seguito da Ibn Gubayr è rimasto per secoli il tradizionale itinerario da ovest.
Le fonti relative al medioevo e all ' età moderna spesso documentano un percorso alternativo, scelto dai pellegrini delle province occidentali per ragioni di sicurezza, che li portava a deviare dal Cairo verso oriente, viaggiando dalla Siria fino a Baghdad, da dove partiva l'altra grande carovana verso La Mecca.
Oggi le condizioni di viaggio sono naturalmente meno gravose; al posto delle carovane che si muovevano lungo i principali assi di comunicazione, le moderne compagnie di viaggio includono sempre voli speciali per i pellegrini.
Tuttavia, anche la via di terra continua a essere praticata per ragioni economiche.
Ciò che nel tempo forse è rimasto invariato è l'mprevedibile stupore che accompagna l'emozione, da parte di chi giunge alla Ka'ba, nel trovarsi improvvisamente di fronte a tutti i possibili colori del genere umano.
E ancora Ibn Gubayr a testimoniare, otto secoli fa, l' assoluta plurietnicità dell'Islam, descrivendo in termini che noi oggi chiameremmo di mondialità una moltitudine in cui l'unico senso dell'ordine era dato dal muoversi in gruppo delle differenti razze e provenienze.
E' uno stupore che si riscontra in ogni resoconto di viaggio a La Mecca: identica emozione ha provato, per esempio, un altro grande viaggiatore musulmano, il diplomatico ottomano Evliya Celebi, che nel 1672 documentava la sensazione di ecumenismo procurata dalla fusione di razze e di lingue in una moltitudine compatta.
Nella geografia religiosa dell' Islam, il pellegrinaggio a La Mecca è certamente il più importante, ma la Ka'ba non è l'unica meta intorno alla quale si èfocalizzata una culture del viaggio a carattere spirituale.
A1 secondo posto per importanza è Gerusalemme, da cui Maometto partì per il suo viaggio mistico fino al Cielo, considerata dall' Islam città santa al pari dell'braismo e del cristianesimo.
Di fatto, tutte le regioni del mondo islarnico rivendicano, inoltre, una trama di pellegrinaggi locali, legati essenzialmente alle tombe di personaggi verso cui converge la devozione popolare, e caratterizzati da un'affluenza di fedeli in certi casi paragonabile al hagg alla Ka'ba.
E il caso delle cerimonie annuali intorno alla tomba di Sidi Ahmad al-Badawi a Tanta, nel delta del Nilo.
Di grande importanza per gli sciiti sono le visite alle tombe degli imam 'A1i e Husayn, nelle città sante di al-Nagaf e Karbala' in Iraq, e dell ' imam 'A1ì al-Rida a Qumm, in Iran.
Nel Magreb, regione del mondo musulmano la cui religiosità è caratterizzata dal culto dei santi, il circuito dei pellegnnaggi è particolarmente fitto; in Marocco, èfrequente il caso di pellegnnaggi di ebrei e di musulmani alle tombe di personaggi venerati dai fedeli di entrambe le religioni.
Fonte: Wikipedia

da Cultura-Barocca

lunedì 28 maggio 2018

Sulla Chiesa Cattolica e gli Ebrei

Alcuni LIBRI del '500 come questo PREZIOSO VOLUME, opera del Padre Crucifero LUIGI CONTARINI registravano diverse tra le ACCUSE MOSSE AGLI EBREI dall'ambiente cattolico, accuse destinate a venir replicate attraverso i secoli sin alla soglia della RIVOLUZIONE FRANCESE. 
Tale inasprimento venne progressivamente incentivandosi in particolare dopo l'esplosione della RIFORMA LUTERANA, l'irrigidimento della CHIESA ROMANA, il potenziamento del SANTO UFFICIO DELL'INQUISIZIONE e la CACCIA AI REI DI ERESIA, comunque l'essenza degli interventi antiebraici della Chiesa Romana si può anche esaminare analizzando, nel tempo, i
CANONI CONCILIARI E LE BOLLE PAPALI PROMULGATE AVVERSO GLI EBREI. Gli EBREI finirono per venire ascritti al novero degli ERETICI e diventarono soggetti di INVESTIGAZIONE COERCITIVA in funzione di una SEQUELA DI ACCUSE MOSSE NEI LORO CONFRONTI tra cui quella di AVERE DATO IL VIA ALLE PERSECUZIONI CONTRO I CRISTIANI: dalla lettura del testo sembrerebbe che tutte le DODICI PERSECUZIONI venissero attribuite agli EBREI ma in effetti l'autore, sulla scia di una tradizione a lui coeva, intitola male il suo testo.
Leggendolo si intende che dalla II alla XII le PERSECUZIONI vennero condotte dagli IMPERATORI ROMANI ma che comunque la loro inaugurazione (cioè la PRIMA INQUISIZIONE fu originata dagli EBREI).
Nel libro, che ebbe grande autorità nel tardo '500 e in tutto il '600 si legge infatti:
La prima [persecuzione] fu la GIUDAICA sotto Herode Ascalonita e sotto Herode Tetrarca Re.
Furono uccisi gli Innocenti sotto Herode Ascalonita.
Herode Tetrarca fece decapitare S. Giovanni Battista il cui corpo fu bruciato al tempo di Giuliano apostata da Pagani.
Successe poi la Sinagoga de Giudei, li quali lapidarono S. Stefano primo Martire il cui corpo è in Vinegia, nella chiesa di S. Georgio, trasportato da Costantinopoli da Pietro Abbate di detto luoco, altri dicono esser in Roma, in San Lorenzo.
Giacomo Apostolo, fratello di Giovanni, fu decapitato, il suo corpo è in Galitia, nella città di Compostella.
Andrea Apostolo fu posto in Croce sotto Egea proconsolo, in Scitia: il suo corpo è in Amalfi presso Napoli.
Tomaso Apostolo fu in India passato con le lanze.
Bartolomeo Apostolo in Armenia fu scorticato ne la città di Abano: il suo corpo è in Roma, trasportato da Benevento nel 808 da Ottone Secondo Imperatore.
Tadeo Apostolo fu martirizzato in Ponto interiore: il suo corpo è in Roma nella Chiesa di San Pietro.
Nathia Apostolo fu in Giudea lapidato e con una scure fracassatogli il capo, il suo corpo è in Roma in Santa Maria Maggiore.
Giacomo Giusto, fratello del Signore, figlio di Maria Cleofa, fu precipitato dal pinnacolo del tempio e poi lapidato et con le pertiche fracassato ed era l'anno 7 di Nerone, il suo corpo è in Roma in Santissimi Apostoli.
Matteo Apostolo e Evangelista fu in Ethiopia, mentre celebrava la messa, fatto ammazzare da Hirtaco, re d'Ethiopia; il suo corpo dicono esser in Salerno.
Filippo Apostolo fu un Scithia crucifisso e lapidato: il suo corpo è in Roma in SS.PP.
Barnaba Apostolo fu in Cipro legato ad un arbore et bruciato vivo.
Marco Evangelista in Alessandria con una fune alla gola strascinato per luoghi salvatici e sassosi e smembrato finì sua vita ed era l'anno ottavo dell'Imperio di Nerone; fu poi il suo corpo trasportato in Vinegia nella chiesa di S. Marco protetor de Venetiani ne gli anni di Christo 829.
Parmena, Procoro, Nicanore, Timone e Cleofa furono nell'istessi tempi martirizzati
Sulla scia di questa pubblicistica antisemita gli EBREI furono accostati agli IDOLATRI come corresponsabili delle PERSECUZIONI e, in molti casi, finirono per essere perseguiti come ERETICI
La posizione della CHIESA ROMANA verso gli EBREI attraversò, dunque,  momenti spesso antitetici che procedono dalla tolleranza alla persecuzione.
 
La base ideologica del primo approccio della CHIESA CATTOLICA ROMANA a riguardo degli EBREI procede inevitabilmente dalla consultazione del CANONE VIII del Concilio Niceno II (787), che gettava ombre sulla sincerità degli Ebrei convertiti sin all'analisi delle DECISIONI LXVII - LXX del Concilio Lateranense IV del 1215 per giungere ad una fondamentale SARCINA contenuta nei lavori (Bolla di unione dei copti) della Sessione XI (4 febbraio 1442) del Concilio di Basilea, Ferrara, Firenze, Roma del 1431-1445.
In particolare poi a ritmi alterni -e quasi soprattutto in chiave erudita e letteraria- continuava ad essere culturalmente alimentata una primigenia tradizione antisemita che da un lato accusava gli EBREI di esser stati dapprima rei di DEICIDIO e di aver susseguentemente dato il via alle PERSECUZIONI CONTRO I CRISTIANI.
La massa della specifica letteratura ecclesiastica e quindi della canonistica in merito alle RELAZIONI TRA CRISTIANI ED EBREI è però sostanzialmente costituita dalla promulgazione di BOLLE PAPALI la cui attenta disanima rende possibile visualizzare le fluttuazioni, attraverso i secoli, della postazione ufficiale dei massimi vertici della cristianità nei riguardi della QUESTIONE EBRAICA.

INDICE DELLE PRINCIPALI BOLLE DAL XII AL XVI SECOLO

Sicut Judaeis, di Callisto II, verso il 1120
Si tratta di una Bolla di protezione per gli Ebrei che hanno sofferto per mano dei partecipanti alla prima crociata (1095-96) e sono stati aggrediti dai loro vicini Cristiani.
É vietato ucciderli, usare violenza per convertirli, molestare loro e le loro sinagoghe.
La bolla è impostata su modello di una lettera che cominciava con la stessa frase, spedita al Vescovo di Palermo da Papa Gregorio I nel 598 e che contrastava l’uso della violenza come metodo di conversione da intere molto spesso quale conversione coatta.
Le formulazioni di Callisto sono ripetute da molti dei Papi dal XII al XV sc.
Spesso aggiungevano riferimenti a problemi attuali nel loro tempo.
Molti di essi condannano l’accusa (anche per via di delazione segreta) di omicidio rituale.
Post Miserabile, di Innocenzo III, nel 1189
E’ indirizzata ai prelati d’Europa e tratta della necessità di un altro tentativo di crociata.
Tra i privilegi accordati a coloro che prenderanno parte alla crociata vi è la protezione delle loro proprietà mentre sono fuori, inclusa la sospensione del pagamento e degli interessi sui loro debiti agli Ebrei.
La formula nella quale tale sospensione è espressa divenne regola nella chiamate alle crociate successive.
Etsi non displaceat, di Innocenzo, nel 1205
E’ una lista indirizzata al re di Francia contro di Ebrei accusati (traendo spunto anche da delazioni segrete) di: usura, bestemmia, arroganza, arruolamento di schiavi Cristiani e altro.
Il re è sollecitato a porre fine a tali malvagità.
Le stesse "malvagità" continuano ad essere menzionate da vari Papi per secoli e ad essere completamente ignorate da altri.
In generali concilio, di Onorio III, 1218
Diretta all’Arcivescovo di Toledo, chiede l’applicazione della DECISIONE LXVIII del IV CONCILIO LATERANENSE [vedi anche gli altri capitoli concernenti i Giudei] per cui gli Ebrei dovevano indossare vestiti [o peculiari SEGNI DISTINTIVI] che li distinguessero dai Cristiani e pagare la decima alle chiese locali.
Entrambe le richieste saranno frequentemente ripetute dai Papi successivi.
Etsi Judaerum, di Gregorio IX, 1233
Diretta ai Prelati di Francia, esorta a prevenire attacchi agli Ebrei, generalmente motivati da avidità.
Questo concetto sarà ripetuto da più papi nel XIV e XV secolo.
Si vera sunt, di Gregorio IX, 1239
Diretta ai re e ai Prelati di Francia e Spagna, ordina la confisca e l’ispezione del Talmud e di tutti gli altri libri Ebraici sospettati di bestemmie contro Cristo e la Cristianità.
La distruzione di libri Ebrei sarà imposta a più riprese dal XIII al XVI sc.
Lachrymabilem Judaeorum, di Innocenzo IV, 1247
Diretta ai Prelati di Germania in risposta a suppliche di Ebrei, esorta a porre fine ad assassini e persecuzioni razziali provocati da accuse di omicidi rituali.
Diversi altri Papi ripeterono tale esortazione.
Turbato corde, di Clemente IV, 1267
Indirizzata agli Inquisitori di eresia, esprime costernazione circa la diceria che gli Ebrei stessero tentando di indurre i Cristiani (possibilmente convertiti dall’ebraismo) a passare allo loro religione.
Le accuse di queste attività giudaizzanti sono frequentemente ripetute dai Pontefici successivi
Vineam Soreth, di Nicola III, 1278
Indirizzata ai Francescani in Austria e in Lombardia ordina di scegliere uomini preparati a predicare il Cristianesimo agli Ebrei.
Alle leggi secolari è richiesto di non interferire con i predicatori.
Da allora sarà fatto frequente riferimento a tale metodo di missione presso gli Ebrei.
Quamvis perfidiam, di Clemente VI, 1348
Indirizzata a vari prelati, sollecita la protezione degli Ebrei contro le accuse anche per delazione segreta che siano responsabili della peste nera mediante, secondo radicate convinzioni popolari che confusero spesso eventi criminosi con figurazioni diaboliche e apocalittiche (che non escludevano l'equazione untore = ebreo), addirittura l’avvelenamento dei pozzi.
E’ una istanza di specifica applicazione di protezione contro le minacce alla vita degli Ebrei.
Etsi doctoribus gentium, di Benedetto XIII antipapa (Pietro di luna), 1415
Una traccia per la conduzione della politica della Chiesa, una delle più complete collezioni di leggi antigiudaiche.
Benché emanato da un Papa non legittimo, serve come traccia a Pontefici successivi.
Numquam dubitavimus, di Sisto IV, 1482
Autorizza Ferdinando di Aragona a nominare Inquisitori per estirpare eresie e ostacolare le pratiche Ebraiche tra quelli che si erano convertiti al Cristianesimo.
Cum nimis absurdum, di Paolo IV, 1555
Bolla nello spirito dell’antipapa Benedetto XIII.
Istituisce il Ghetto a Roma, limita le attività economiche Ebraiche, proibisce più di una sinagoga in una città e vieta contatti fra Ebrei e Cristiani ed in tanta sua intrensigenza acquisisce vigore, dato anche che secondo una prima versione l'evento sarebbe accaduto per la prima volta a Roma nel 1556, il credito dato dal Pontefice romano alla perpetrazione nella sua città di un OMICIDIO RITUALE.
Il pur documentato autore del Saggio critico donde si è estrapolata questa notazione storica riversa molte critiche a Paolo IV ed in effetti Ppapa Carafa non si segnala mai per pietà e lungimiranza nella sua intransigente difesa della Chiesa Romana.
Per rigore storico tuttavia bisogna pur sempre rammentare che questo Pontefice romano finisce col trovarsi a fronte di incredibili problemi epocali che esasperano al fanatismo gli animi più accesi: la Chiesa Cattolica risulta infatti squassata dall'urto tra RIFORMA PROTESTANTE, CONTRORIFORMA, una REVIVISCENZA della STREGONERIA e che sostanzialmente tutti questi eventi procedono in parallelo con CATACLISMI DEGNI della GIOVANNEA APOCALISSE come la PESTE NERA e con il riproporsi, anche per effetto delle SCOPERTE GEOGRAFICHE, di nuovi dati su una presunta CULTURA DEL SANGUE e sull'esistenza delle ancora misconosciute CIVILTA' AMERINDIANE fondanti la loro religione pagana sul tema dell'OMICIDIO RITUALE e destinate ad un GENOCIDIO perpetrato per interessi colonialistici dei Paesi europei ma comunque ideologicamente postulato sulla base di una inevitabile lotta contro tale "satanica" deviazione religiosa
Hebraeorum gens, di Pio V, 1569
Accusa (valendosi di prove fondate su denunce per delazione segreta) gli Ebrei di molti reati incluse pratiche magiche spesso collegate alla loro pratica della "Cabala" ma anche alle loro ricerche mediche miranti anche ad approfondire vieppiù, per potenziare gli interessi di alchimia disciplina da sempre sospetta alla Chiesa, la conoscenza della natura e in particolare delle proprietà medicamentose e non delle erbe officinali.
Ordina quindi l’espulsione di costoro da tutto il territorio papale, eccetto Roma e Ancona.
Sancta mater Ecclesia, di Gregorio XIII, 1584
Confermando il precedente Vices eius nos del 1577, ordina agli Ebrei di Roma di mandare 100 uomini e 50 donne ogni sabato pomeriggio ad ascoltare le prediche conversioniste nella chiesa prospiciente il Ghetto.
Christiana pietas, di Sisto V, 1586
Solleva gli Ebrei da molte oppressive restrizioni economiche e sociali imposte loro da Paolo IV e Pio V.
Gli Ebrei godranno di ciò per pochi anni, perché nel 1593 Clemente VIII ripristinerà molte leggi precedenti che resteranno in vigore fino al XIX secolo.
Ancora in questo TESTO SETTECENTESCO (tomo I, p.4) Antonio Valsecchi sviluppa la visione antiebraica della CHIESA ROMANA scrivendo:
""Ciò che però conoscer non vollero questi sciagurati, cui era troppo odiosa luce.
Quella Religione i di cui avanzamenti impedir non avea potuto la spada, di oscurare si argomentarono colle frodi e colla penna.
Primi gli EBREI dopo l'empietà orrenda usata contro di Cristo " [DEICIDIO - UCCISIONE DI DIO].
" e i di Lui Discepoli e dopo anche aver veduto il castigo del Cielo eseguito sulla loro Nazione dalla spada di Tito, si lusingarono di far rivivere il culto lor riprovato col rialzamento della Città" [Gerusalemme] "e del tempio mercè la possanza di un Apostata Imperadore [Giuliano l'Apostata].
Ed egli in fatti all'ardita impresa si accinse anche pel genio malvagio di smentire gli Oracoli de' Profeti e le predizioni di Cristo che prenunziata ne aveano una irreparabile rovina.
Ma che può la possanza e la frode terrena contro a' voleri di Dio?
Era distrutto quel tempio in cui solo eseguir si potea il culto dell'antica alleanza per dar luogo alla Religion del Vangelo: non dovea dunque quello più sorgere, perché dovea questa regnare.
Giuliano col far iscavare i fondamenti della distrutta Città, compie, nol sapendo, l'Oracolo del Salvatore che rimasta non sarebbevi pietra sopra pietra": ed il tremuto e gli orrendi globi di fuoco usciti replicatamente dalle fosse per quel nuovo lavoro aperte e lanciatisi con alto spavento e strge sovra degli operaj, avviliscono il furore di Cesare e deludono le speranze dell'imperversata Nazione" [ebraica] " che dispersa ed errante per ogni piaggia mostra in se stessa i segnali del suo castigo ed insieme il trionfo della nostra credenza".
Contro queste POSTULAZIONI valgono ora vigorosamente le revisioni della CHIESA MODERNA con la conciliaristica DICHIARAZIONE "NOSTRA AETATE" del 28 ottobre 1965: specificatamente il PARAGRAFO IV



domenica 27 maggio 2018

Lo sport nell'antichità

Nell’antichità lo sport fu quasi sempre legato ad attività religiose o magiche in cui la componente estetica e la spettacolarità prevalevano sugli aspetti più propriamente agonistici; quasi sempre attraverso lo sport si è voluto dare un saggio della propria forza e abilità nel combattimento (quindi nella guerra) facendone un mezzo per dimostrare la superiorità delle classi dominanti.
Il primo popolo che iniziò la costruzione di città furono i Sumeri (3500 a. C.) che imposero il proprio dominio su alcuni villaggi di agricoltori tra i fiumi Tigri ed Eufrate.
Essi, grazie alla particolare ricchezza del territorio della Mesopotamia e al fiorente commercio con India e con Egitto, raggiunsero presto una situazione di ricchezza senza precedenti che attrasse le numerose tribù nomadi che gravitavano nella zona e che crearono nella popolazione esigenza di difendersi.
Per conservare il proprio potere i Sumeri costituirono adeguate istituzioni politiche, religiose e militari, inasprirono la disciplina sociale e sottomisero numerosi schiavi; in generale tutta arte pubblica mesopotamica era tesa a dimostrare al mondo le capacità e la forza della classe dominante e intimidire così i potenziali nemici.
Anche lo sport risentì di questa situazione di instabilità e dell’esigenza di difendersi da un pericolo sempre incombente.
Infatti le testimonianze giunte fino a noi dimostrano che le discipline praticate furono improntate unicamente a scopi militari o paramilitari: la lotta, il nuoto e le gare equestri erano attività che, se svolte con maestria, potevano tornare assai utili in guerra.
Inoltre la pratica sportiva era appannaggio pressoché esclusivo delle classi dominanti ed assolveva ad una triplice funzione: mantenere la forma fisica, nonostante la condizione sociale permettesse di dedicarsi ad una vita agiata, dimostrare la propria superiorità sugli altri popoli e tenersi pronti alla guerra utilizzando la pratica sportiva come addestramento militare.
Del tutto diversa era invece la situazione in Egitto, almeno fino all’invasione degli Hyskos: qui il mare ed il deserto rappresentavano delle straordinarie barriere naturali che permettevano alle popolazioni residenti di sentirsi al sicuro da qualsiasi attacco esterno.
Dal 3000 al 1670 a. C. circa l'Egitto visse una situazione di grande stabilità e di pace pressoché assoluta, se si considera la lunghezza del periodo, in cui arte la cultura e la scienza ebbero uno sviluppo senza pari.
Per tutta questa fase gli uomini ricchi competevano in sfarzo ed opulenza e si dedicavano all’attività sportiva che rimase comunque di esclusivo appannaggio delle classi superiori.
In questo caso si trattava però di discipline eleganti e raffinate il cui valore estetico era probabilmente di gran lunga superiore a quello agonistico; ci è giunto un affresco (2000 a. C. ca.) raffigurante due lottatori nell’atto di effettuare ben 122 prese e posizioni diverse, ma caratterizzati da estrema eleganza e complessità, che ce li fanno sembrare più dei ballerini che degli atleti; inoltre nel dipinto non vi è traccia di sangue, né di trofei, il che ci fa apparire ancor meno importante aspetto competitivo.
Altre discipline che ebbero un posto di rilievo nella società Egiziana furono quelle acquatiche, e non poteva essere diversamente vista importanza centrale che aveva il Nilo nell'economia di quel popolo; il nuoto non era solo un piacere ed un divertimento, ma una necessità, tanto che è lecito supporre che per i giovani delle classi dominanti fosse obbligatorio imparare a nuotare.
Un ruolo decisivo nella storia Egiziana, anche dal più modesto punto di vista sportivo, fu giocato dalla cosiddetta invasione degli Hyskos (1690 a. C.) che fece crollare per sempre la presunzione di godere di inarrivabile superiorità.
Una volta riconosciuto che le nuove tecniche di conduzione della guerra e la sua preparazione erano diventate essenziali per il mantenimento della stabilità, nuovi e più seri divertimenti e competizioni entrarono a far parte della vita degli appartenenti alle classi agiate Egiziane.
I Re del Nuovo Regno furono continuamente impegnati a crearsi una fama di atleti supremi e grandi cacciatori e ogni nuovo Faraone doveva superare i risultati del suo predecessore.
Una fonte del tempo afferma che Tutmosi III scoccò una freccia conficcandola profondamente in una lastra di metallo dello spessore di 5 cm e che tale lastra fu successivamente esposta nel tempio a imperitura testimonianza della forza inarrivabile del sovrano; ma suo figlio Amenofi II, per superarlo in destrezza, centrò da un carro in movimento quattro bersagli di rame, ognuno spesso 7 cm, e fece celebrare tale impresa in un bassorilievo.
Naturalmente è molto probabile che le gesta degli atleti fossero molto enfatizzate, se non a volte del tutto false, ma ciò non sminuisce l’importanza che aveva assunto l’attività fisica nella società Egiziana.
La società che senza dubbio più si è avvicinata al nostro concetto di sport è la Grecia classica.
In Grecia esistevano delle grandi manifestazioni "internazionali", la gara divenne una competizione da tenersi in pubblico, atleta vincitore veniva ricoperto di glorie ed allori e la polis (la città) da cui proveniva era orgogliosa del suo eroe e ne faceva uno strumento di propaganda politica; per la prima volta vi furono spedizioni di veri e propri tifosi che si sobbarcavano viaggi spesso massacranti pur di sostenere i propri atleti e, sempre per la prima volta, lo sport ebbe delle proprie regole, codificate, note a tutti e uguali in tutto il territorio.
Va ricordato anche che le Olimpiadi, cioè la più importante manifestazione del mondo Greco, andavano ben al di là del significato sportivo, dato che coincidevano con importantissima festa religiosa ed erano un momento di aggregazione fondamentale per lo sviluppo della cultura Greca in ogni sua forma.
In occasione dei giochi Olimpici venivano rappresentate le opere dei grandi drammaturghi, si tenevano gare di poesia e si donavano alle divinità statue votive di straordinaria bellezza eseguite dai migliori artisti di ogni polis; un elemento che può dare l’idea dell’importanza che i Giochi avevano per i Greci è il fatto che per secoli essi misurarono il tempo in Olimpiadi dando ad ogni quadriennio il nome del vincitore della gara di corsa e della sua città.
La passione sportiva dei Greci non è un fenomeno casuale, ma affonda le radici in alcuni dei capisaldi della loro cultura: innanzitutto l’attributo con cui i Greci solevano indicare l’uomo ideale era kalos kai agathos (che in greco antico significa bello e buono), quindi l’aspetto fisico era posto sullo stesso piano di quello morale e l’uno non era completo senza l’altro; questa fu una concezione diffusa in tutto il mondo antico, anche extra-ellenico, ma che trovò in Grecia la sua massima espressione e rivestì importanza eccezionale in quel contesto.
Lì la forza, la bellezza e l’armonia erano qualità capaci di dar lustro ad una persona almeno quanto l’intelligenza e la bontà d'animo, tanto che tutti gli eroi epici, da Omero in poi, vengono presentati come kaloi kai agathoi e in ogni poema sono presenti gare sportive la cui vittoria dà ai protagonisti lo stesso prestigio di una vittoria in una battaglia o di una trovata geniale.
Per esempio nell’Iliade (libro XXIII) Achille organizza alcuni giochi atletici come tributo per la morte di Patroclo; Omero ce li descrive con dovizia di particolari mettendo in particolare risalto l’abilità di Ulisse.
In particolare nella gara di corsa Odisseo instaura un avvincente testa a testa con il giovane nobile Aiace, che sembra destinato ad avere la meglio; ma Ulisse, rendendosi conto di non essere in grado di vincere con le sue sole forze, invoca aiuto della dea Atena, la quale fa scivolare Aiace in vista del traguardo e permette al suo protetto di arrivare primo.
E' utile precisare che quello che a noi sembra un colpo di fortuna o un intervento scorretto, agli occhi dei Greci era un motivo di pregio ancora maggiore per Ulisse che aveva saputo meritarsi il favore degli dei; infatti lo stesso Omero ci narra di come la folla reagì divertita e con gesta di scherno alla protesta del giovane sconfitto.
Omero ci descrive anche le altre gare che si tennero in quell’occasione, la lotta e la corsa delle bighe, e questa precisa narrazione è importante perché ci permette di osservare come tutte queste discipline fossero ancora presenti al tempo delle Olimpiadi e che le sole modifiche riguardarono l’aggiunta di due sport, il pancrazio (una sorta di pugilato dal regolamento molto complesso) e il pentatlon.
Se si pensa che Omero (o comunque gli aedi raccolti sotto questo bel nome) scrive più o meno nel 700 a. C. e che le gare rimasero le stesse fin dopo la conquista Romana, ci si rende conto di quanto lo sport fosse parte importante della tradizione Greca e con quale timore reverenziale gli ellenici si accostassero ad esso.
Ciò si deve anche al fatto che l’Iliade e l’Odissea godevano di unanime prestigio in tutta la Grecia politicamente divisa, ma culturalmente unita al punto da poter organizzare dei giochi cui partecipavano tutte le poleis , sospendendo se necessario le guerre.
Questa sospensione è quella che noi chiamiamo ancora oggi "pace Olimpica", ma in realtà è un fenomeno assai ingigantito da una certa cultura Europea del secolo scorso; i Greci non parlarono mai di "pace" quanto di "immunità" e non bisogna credere che interrompessero tutte le guerre per consentire lo svolgimento delle Olimpiadi. Piuttosto è vero che esisteva un tacito accordo per cui nel mese precedente i Giochi gli atleti ed i tifosi al loro seguito potevano raggiungere Olimpia attraversando tutti i territori che fosse necessario godendo di una sorta di immunità.
Va anche detto che patti di questo tipo vigevano per tutte le manifestazioni religiose. L’eccezionalità delle Olimpiadi stava nel fatto che erano l’unico appuntamento per il quale questa sorta di tregua era riconosciuta in tutta la Grecia.
Il territorio di Olimpia invece era considerato sacro e questa inviolabilità fu allargata a tutto il territorio dell’Elide, la regione di Olimpia, in cui viveva il "sacro popolo di Zeus" cui l’oracolo di Delfi, secondo la leggenda, aveva concesso di tenersi lontano dalle guerre e di dedicarsi soltanto al tempio e all’organizzazione dei Giochi.
In verità gli Elei conquistarono tale riconoscimento solo nel 570 a. C. dopo l’aspra lotta con i Pisati, ma in quella data vi fu anche il riconoscimento panellenico dei Giochi e da allora in poi questo privilegio non fu più messo in discussione.
Olimpia comunque era considerata un luogo sacro già dai Micenei e le prime Olimpiadi risalgono a ben prima del 776 a. C., cioè della data dei primi giochi di cui noi conosciamo il vincitore, ma proprio l’elenco dei vincitori ci aiuta a farci un quadro della partecipazione a questa manifestazione; i primi di essi provenivano tutti da Olimpia e dalle città più vicine, ma molti dei trionfatori delle edizioni svoltesi dal V secolo in poi venivano da colonie anche molto lontane, soprattutto dall’Italia meridionale.
Si organizzavano imponenti pellegrinaggi al seguito degli atleti e sappiamo che il gran numero di avventori rendeva caotica la vallata, ma costituiva una fonte di ricchezza di enorme importanza per tutte l’Elide.
Inoltre ogni delegazione portava quintali di doni, per ingraziarsi gli dei, che creavano parecchi problemi per l’inadeguatezza delle strutture destinate a raccoglierli, ma nonostante ciò nessuno voleva rinunciare a partecipare alle Olimpiadi, perché anche il solo fatto di assistervi era considerato uno degli onori più grandi che potessero capitare a un Greco.
I Giochi si tenevano tra la metà di Agosto e la metà di Settembre e duravano cinque giorni, di cui il primo e l’ultimo completamente dedicati alle preghiere e ai sacrifici per ingraziarsi gli dei e per ringraziarli.
Nei tre giorni di gare si tenevano un giorno le gare equestri ed il pentatlon, un altro le gare di corsa e l’ultimo quelle di lotta ed il pancrazio.

L’inizio del declino della concezione greca dello sport è fatto risalire ai tempi della guerra del Peloponneso; da allora e fino alla conquista definitiva da parte dei Romani, avvenuta quasi 300 anni dopo, la politica Greca fu in continua agitazione, le poleis aumentarono di numero a seguito della massiccia colonizzazione dell’Asia e dell’Africa, e si perse di conseguenza quello spirito di "grecità" che rappresentava la vera anima dei giochi olimpici antichi.
Già nel V secolo la figura dello sportivo-dilettante-aristocratico di omerica memoria era scomparsa per lasciare spazio ad atleti professionisti attentamente reclutati ed addestrati nelle province.
La presa sul pubblico rimaneva forte, ma quando si passò da un sistema di poleis divise e unite nello stesso tempo, che ogni quattro anni si confrontavano nelle gare atletiche, ad uno Stato unico che organizzava una festa per divertire il suo popolo, la tradizione sportiva greca tramontò definitivamente. A questo va aggiunto che già nel 300-250 a. C. il centro politico e militare più importante era diventato Roma, e a Roma avrebbe dovuto imporsi la tradizione greca per sopravvivere.
Vi furono numerosi tentativi in questo senso durante tutto il corso della storia Romana, ma i nuovi dominatori guardarono sempre ai greci con l’ammirazione pari solo al distacco che volevano conservare.
I greci erano un popolo eminentemente contadino, in intima unione con i propri dei, che guardava alla realtà con vivo senso del concreto, che agiva con grande devozione alla Res Publica ed educato dalla famiglia e dallo Stato.
I ludi Romani erano manifestazioni agonistiche cittadine volute dalle autorità, ma prive dell’individualismo esibizionista greco, bensì ancorate al'l ideale collettivo che consacrava l’individuo allo Stato.
Alcuni di essi avevano origini antichissime, altri vennero istituiti nel periodo repubblicano, mentre le feste al tempo dell’impero erano frequentissime ed organizzate per celebrare diverse ricorrenze.
Il ludus (il gioco) romano ha attinto molti elementi dagli agones (giochi) greci, ma non ha mai abbandonato la matrice etrusca che era alle sue origini.
Gli spettacoli etruschi, dei quali facevano parte i danzatori, i clowns e i giocolieri, presentavano anche manifestazioni ben più cruente come nel caso delle lotte gladiatorie, della battaglie tra belve feroci e via discorrendo.
I Romani furono molto spesso spettatori, pronti ad applaudire atleti professionisti e a farne degli idoli: una gran parte di loro non accoglieva gli aspetti educativi e morali dell’esercizio fisico.
E peraltro ludi più che come competizioni erano visti come cerimonie ufficiali legate a feste religiose, commemorazioni, adorazioni di divinità.
Se la gioventù greca amò la palestra, lo stadio e l’atletismo puro, quello romano preferì il circo, l’anfiteatro e lo spettacolo; questa realtà è testimoniata dalla pompa, la sfilata che apriva i ludi e che dimostrava tutta la mondanità e l’esteriore spettacolarità di queste cerimonie.
Anche l’equitazione, che in Grecia fu lo sport aristocratico per eccellenza, a Roma fu per molto tempo solo un elemento coreografico inserito nel contesto di manifestazioni militari insieme a caroselli, volteggi e altri spettacoli che di sportivo avevano poco.
Fino al termine del periodo repubblicano lo sport fu un aspetto marginale della società romana impostata su saldi principi militari, protesa verso la sobrietà e rigidità dei costumi e per questo sempre pronta ad esaltare la vivacità culturale ed artistica dei Greci, ma attenta ad evitare la "mollezza dei costumi orientali" che tanto poco si addiceva ad un popolo così battagliero e concreto.
Significativo in questo senso è il pensiero di Catone il Censore che visse nel momento in cui la cultura greca iniziava ad approdare nei circoli di Roma e che fu il più feroce fustigatore di quelle abitudini antitetiche rispetto alla sua mentalità conservatrice e contadina.
Cicerone al contrario non condannò aprioristicamente l’esercizio fisico, ma dimostrò avversione per molte delle pratiche che a questo si accompagnavano in Grecia, in particolare l’abitudine di allenarsi ed esibirsi nudi.
Nel de Republica non a caso si legge: "Com'è assurdo il sistema dei greci di esercitare i giovani nei Ginnasi! Quanto lungi dall’essere rigoroso il loro metodo di addestramento militare degli Efebi!".
E nel de Senectute racconta episodio in cui l’atleta greco Milone entra nello stadio reggendo sulle spalle un bue e lo commenta in maniera assai significativa: "Preferiresti che ti dessero queste forze del corpo o quelle dell’ingegno di Pitagora?".
Un reale trapianto nel restio ecumene romano della cultura sportiva greca fu compiuto in epoca imperiale da Ottaviano Augusto: questi tentò di consolidare le tradizioni degli avi da un punto di vista etico e religioso, ma con mezzi pratici innovativi.
In particolare ebbe cura dell’addestramento militare dei giovani dando grande impulso ai collegia juvenum, vale a dire dei collegi dove si seguiva l’educazione dei giovani appartenenti alle classi sociali più alte e in cui si alestivano spettacoli in cui i ragazzi davano dimostrazione di quanto appreso ai familiari, agli altri giovani e qualche volta allo stesso Imperatore.
Questo doveva anche essere un modo per far entrare nella mentalità romana la competizione atletica.
Lo stesso Augusto tentò di introdurre a Roma manifestazioni simili agli agones Greci, come già avevano fatto senza successo Silla, Pompeo e Crasso, ma queste gare non entrarono mai nel cuore dei romani, schiacciate dalla grande popolarità dei ludi circensi sostanzialmente simboleggiati dal colossale edificio dell'ANFITEATRO (o del CIRCO) e dalla prestazione sanguinosa dei gladiatori.
Le gesta gladiatorie interagivano spesso con un fitto programma di corse di cavalli, ma talora ciò che rendeva un ludus migliore degli altri, era il contorno di giocolieri, acrobati, domatori di belve e spettacoli cirecnsi del genere.
Peraltro Augusto fu pronto a comprendere che i suoi amati agones greci non avrebbero attecchito e cambiò presto rotta organizzando sontuose e frequentissime feste più vicine al gusto dei suoi cittadini.
Questa grande attività derivava da un preciso calcolo politico fatto da un Imperatore conscio della necessità di mantenere il più possibile l’ordine pubblico in una città in cui vivevano centinaia di miglia di disoccupati o sottoccupati a carico dello Stato; Augusto era convinto, e forse aveva ragione, che un popolo ozioso ed annoiato può minacciare intrighi e rivolte più di uno a cui i suoi governanti offrono talmente tante possibilità di svago da non lasciargli il tempo di pensare.
Inoltre lo stesso Augusto presenziava ai ludi il più spesso possibile stabilendo così un contatto diretto con i suoi sudditi che rendeva più popolare la sua autorità e accresceva la sua popolarità.
La Pax Augustea tra molte altre cose lasciò comunque tracce significative anche per quanto riguardava la rivitalizzazione dell'attività sportiva: i testi letterari ed i reperti archeologici ci informano che, se l'attività agonistica di ispirazione greca non decollò mai veramente del tutto nella Romanità, si sviluppò forte, a partire proprio dall'epoca augustea, il culto del benessere fisico che comportò il fiorire di palestre (spesso intorno a complessi termali): la presenza di piscine garantiva peraltro l'espletamento del nuoto praticato da entrambi i sessi anche se ritenuto più che una pratica sportiva un'essenziale esercizio fisico per il benessere del corpo...
Questa politica fu poi ribadita dalla maggior parte degli Imperatori e non mancarono nuovi tentativi di introdurre manifestazioni improntate al modello greco, ma non ebbero successo neanche quando la cultura Ellenica si affermò a Roma in molti suoi aspetti.
Nerone istituì dei giochi, da tenersi ogni quattro anni, molto simili alle Olimpiadi, ma anche questa manifestazione non sopravvisse al suo creatore.
Durante tutta la storia romana l’educazione fisica, soprattutto a scopo militare, ebbe una grande importanza, ma di sport, nell’accezione che qui interessa, non si può mai parlare: prevalsero sempre spettacoli in cui la competizione era solo un pretesto per dare sfogo ad una sanguinosità e violenza assai distanti dal nostro modo di pensare ma di cui sopravvivono relitti culturali, per quanto moralmente deprecabili, dalla "corrida", ancora legittima in Spagna, ai combattimenti fra cani.
Le invasioni barbare e l’avvento del Cristianesimo, pur spinte da motivazioni diverse, misero fine a questo tipo di manifestazioni. Da un lato l’avvento di una cultura assai primitiva rispetto a quella romana e l’insediamento di popolazioni votate principalmente alla guerra, segnarono la fine delle manifestazioni pubbliche imperiali, prime fra tutte quelle sportive; dall’altro il Cristianesimo abolì le manifestazioni cruente che tanto successo avevano riscosso in precedenza, e spostò l’attenzione sullo spirito mettendo in secondo piano l’educazione fisica.
La stabilità e la cultura sopravvissero solo ad Oriente, dove l’imperatore Giustiniano istituì un ordine politico su tutta l’Europa orientale che fece di Bisanzio il centro del potere in Eurasia fino alla conquista dei Turchi nel 1453.
Qui sopravvissero le gare sportive ed in particolare le corse delle bighe ebbero un successo enorme fino al 512: in quell’anno durante una gara all’ippodromo le tensioni tra le opposte tifoserie, divise da motivi religiosi più che sportivi, esplosero dando vita ad una serie di tumulti che si allargarono presto a tutta la città provocando più di 30.000 vittime.
Quell’episodio costituì un grave momento d'arresto anche per lo sport e, anche se le gare furono organizzate ancora per molti secoli, non tornarono più allo splendore di un tempo...

da Cultura-Barocca