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giovedì 26 maggio 2016

Sui monaci antoniani

I monaci antoniani (così detti dall'anacoreta egiziano Sant'Antonio abate) o, come saranno poi denominati dalla loro base europea di espansione, i CANONICI REGOLARI di Sant'Antonio, arrivarono in Italia da VIENNE nel contesto di una STORIA TANTO ANTICA quanto talora ABBASTANZA CONTROVERSA, procedente dalla tormentata AFFERMAZIONE DEL CRISTIANESIMO TRA LIGURIA E PROVENZA e quindi passata attraverso l'ESPANSIONISMO ISLAMICO E QUINDI L'AFFERMAZIONE DELL'IMPERO TURCO...

Alle origini della loro vicenda terrena gli Antoniani gradualmente si espansero dall'area provenzale nel Ponente Ligure (entro il contesto dell'espansionismo monastico pedemontano verso il mare e i tragitti della fede) non solo per dare ricetto a viandanti e pellegrini della Fede nei Luoghi Santi della Cristianità, ma soprattutto col fine (caratterizzato sulla loro veste dalla presenza del celebre TAU) di assistere e soccorrere i malati in particolare di ERGOTISMO E/O DI HERPES ZOSTERS.

L'Ordine fiorì in Liguria occidentale: la sua fortuna si sviluppò in modo direttamente proporzionale all'aumento dei traffici in quelle contrade, con una sempre maggior frequenza di individui " foresti" malati o sospetti di "portar contagio", temutissimi lebbra e peste. 

La sua opera assistenziale perdurò fin al XVIII secolo quando ne sopraggiunse la soppressione.

Gli "Antoniani" non erano a livello della loro genesi un Ordine cavalleresco religioso organizzato secondo una regola, ma piuttosto una confraternita laica;  che venne poi approvata da papa Urbano II nel 1095 e confermata da papa Onorio III con bolla papale nel 1218. 

L'Ordine ospedaliero dei canonici regolari di S. Agostino di S. Antonio abate di Vienne, detto comunemente degli Antoniani Viennois o di Vienne o, nel regno di Napoli, di Vienna, fu in effetti istituito - con conseguente emancipazione dall'autorità dei Benedettini - solo nel 1297 da papa Bonifacio VIII, con la bolla Ad apostolicae dignitatis, sotto la regola di S. Agostino. 

Alle origini la confraternita era formata da infermieri e frati laici, che avevano come superiori religiosi i Benedettini dell'abbazia di Montmajeur presso Arles, sottomissione che provocava continui litigi e discussioni, a casusa dell'autorità che questi ultimi esercitavano sugli infermieri e i frati laici "antoniani". 

La cura per via di "terre medicamentose" è antichissima e si potrebbe riandare ai tempi degli ospedali militari romani e del medicus castrensis oltre che della letteratura medica di cui potevano avvalersi...

Nel Duecento i monaci antoniani ebbero il merito di tentare nuove strade diagnostiche e curative contro queste malattie epidermiche ed oltre ad acque termali ed argille curative si valsero delle proprietà salutari attribuite al grasso della carne di maiale: durante il Medioevo, la tradizione e le discipline mediche del passato vennero riscoperte...  specie ad opera degli ordini monastici ed al loro recupero dei testi classici. 

Sulla direttrice dei movimenti monastici, all’inizio del X secolo, la Scuola Salernitana, la più antica istituzione medievale dell’Occidente europeo per l’esercizio e l’insegnamento della medicina, recuperò parte di quegli antichi e rivisitati insegnamenti. Per esempio nel capitolo IX del Regimen sanitatis o Flos medicinae Salerni si fa cenno alle proprietà nutrienti della carne di maiale attribuendole, nel capitolo XXV, una valenza terapeutica. In effetti in parecchie chiesuole del ponente ligure esistevano un tempo affreschi impressionanti (fatti poi ricoprire dai Parroci) di uomini disperati dal volto suino (quelle immagini eran correlate per alcuni alla tradizionale equivalenza simbologica maiale-demone, mentre a giudizio non trascurabile di altri costituirebbero un ricordo delle grandi affezioni dermatologiche contro cui quei monaci combatterono, acquisendo il diritto di immunità di pedaggio sui pascoli pubblici, pei maiali che allevavano, caratterizzati dal marchio "Tau" tipico del loro Ordine...

E presso la canonica di S. Antonio di Ranverso sulla diramazione della via Francigena, che dall'Europa Centrale tramite il Cenisio portava al mare Tirreno, si nota ancora adesso un eccezionale strumento del lavoro terapeutico degli Antoniani, cioè la stadera per la pesa dei maiali dai quali si estraeva il grasso medicamentoso...

da Cultura-Barocca

venerdì 20 maggio 2016

Koila Upodémata, Krepidoi, Sandalia, Kothornoi: gli antichi Greci e le calzature


Quanto è oggi risaputo sulla manifattura delle scarpe nella Grecia classica, sulla concia di pelli e cuoi destinati a confezionarle e, quindi, sul mestiere di calzolaio, proviene da testimonianze letterarie e da reperti archeologici, in particolare statue e vasi con figure dipinte.

Su un vaso proveniente dall’isola di Rodi, conservato presso l'Ashmolean Museum di Oxford, è effigiato uno sprazzo di vita operosa entro una calzoleria: un artigiano infatti è impegnato a modellare col trincetto un pezzo di cuoio sì da adeguarlo alla conformazione del piede di un giovanissimo cliente ritto sopra il deschetto.

Le pelli venivano conciate con varie sostanze tra cui l’allume, materie grasse quali il grasso di maiale o la morchia d'olio giovevoli per garantirne la morbidezza, estratti tannici derivati da vegetali quali le foglie di more, corteccia di alcune conifere, scorze di melograno, ghiande, radici e bacche di vite selvatica, frutti dell'acacia egiziana e corteccia di quercia.

Gran parte delle pelli erano importate in Grecia dalle regioni bagnate del Mar Nero, dalla Cirenaica e successivamente da Sicilia (Magna Grecia) ed Asia allorquando l’ecumene greco pose le sue basi anche in queste regioni.

E’ facile che in un primo tempo la concia delle pelli venisse finalizzata a livello artigianale dagli stessi calzolai ma, nello sviluppo socio-economico del mondo ellenizzato, si siano affermate concerie di dimensione pseudoindustriale, in cui era sfruttata prioritariamente una manodora di tipo servile: il mestiere del conciatore nell’antichità, attese le sgradevoli emanazioni degli impianti che quasi si fissavano sul corpo degli operatori, godeva infatti di poca stima sociale.

Invero nelle epoche più antiche i Greci, militari compresi, procedevano soprattutto a piedi nudi (benché Omero ci descriva, nel VI canto dell’Iliade una donna che indossa dei sandali), sì che solo in periodi posteriori cominciarono ad usare le calzature, pur continuando a restare scalzi tra le pareti domestiche.

Da poche fonti letterarie si sa poi che i Cretesi usavano stivaletti di cuoio bianco o di camoscio alti fin sopra la caviglia e che i soldati di Orcomeno calzavano stivaletti di cuoio rosso che li distinguevano da quelli di Micene, soliti portare sandali corredati da gambali di cuoio scuro.

In un dialogo letterario tra il calzolaio Cerdone, la procacciatrice di affari Metrò e due clienti, Eroda in qualche modo rende possibile apprendere la molteplicità tipologica e la raffinatezza delle calzature femminili in uso in età ellenistica. Risultano elencate scarpe di Sicione o d'Ambracia gialle o verdi, scarpe senza tacco, pianelle, pantofole, scarpe ioniche, scarpe alte, scarpe da notte, scarpe aperte, scarpe rosse, scarpe argive, calzature da giovinetto e da passeggio.

Secondo l’interpretazione prevalente le prime scarpe greche di grande uso erano chiamate Upodémata ed erano confezionate tramite una suola di cuoio, legno o sparto ancorata al piede da corregge di pelle. Questa foggia generò quindi i Sandalia ed un tipo importante di Sandalia risultavano i Krepidoi scarpe indossate parimenti da uomini (solo i liberi tuttavia avevano diritto di calzare una Krepis con la linguetta intagliata) che da donne e comuni, soprattutto per i viaggi, vista la loro robustezza idonea a sopportare i capricci del tempo, quanto a sostenere tragitti aspri su strade non ancora adeguate dalla tecnologia romana.

I Krepidoi delle donne risultavano comunque di pelle più morbida ed erano molto spesso colorati, per lo più in giallo: oltre aciò gli erano applicate delle suole alte di sughero sia per guadagnare qualche centimetro in statura che per destreggiarsi tra i frequenti pantani di sentieri e vie spesso abbandonati al degrado fuori del centro vitale delle città.

Per Embades si intendevano poi stivaletti parimenti calzati tanto da uomini che da donne e la loro la tomaia era completamente chiusa: questo tipo di scarpe nell’uso di Sicione era di colore bianco mentre in Laconia prevaleva la colorazione in rosso ed oltre a ciò le scarpe quelle femminili risultavano di frequente arricchite da intarsi ed ornamenti fatti da ricami in fili d'oro.

Alle spose si concedeva l’uso delle candide Ninfides mentre erano del tutto meno fini ben altra tipologia di calzatura: ci si riferisce qui a scarpe pesanti impiegate tanto dai soldati quanto da coloro che si dovessero impegnare in viaggi per terreni asperrimi.

A queste solide calzature si dava in genere il nome di Koila Upodémata: esse avevano la suola rinforzata da chiodi e parti di tomaia proteggevano saldamente il tallone e i lati del piede.

Tra le tante calzature della fioritura greco-ellenistica si possono quindi menzionare gli stivaletti detti Endromides (che ricoprivano le caviglie risultando ancorati alla gamba in virtà di corregge di cuoio) ed ancora gli Akatioi, scarpe dalla punta rialzata forse di derivazione ittita.

Vantavano altresì una genesi medio-orientale i Kothornoi provvisti di soldida suola di cuoio e con una tomaia in pelle morbida alta al polpaccio che era allacciata sul davanti della gamba tramite corregge rosse: la loro fama deriva soprattutto dal fatto che sono stati eternati dal primo dei grandi autori tragici greci Eschilo che li fece indossare dai suoi attori inaugurando una plurisecolare tradizione nelle rappresentazioni del teatro.

In effetti i Kothornoi teatrali costituirono un’enfatizzazione voluta della scarpa normale di tale nome: la sublimazione dell’enorme suola, ispessita da strati di sughero e l'altezza valeva a sottolineare la funzione, più o meno carismatica dei vari personaggi: era una sorta di elementare meccanismo scenico per far sì che già nell’immediatezza della percezione visiva, per esempio dei ed eroi , destinati in genere ad egemonizzare le vicende, apparissero più alti dei comuni mortali (lo stesso non avveniva nel contesto delle rappresentazioni comiche i cui attori calzavano le Embades).

Lo storico filospartano Senofonte ci permette poi di apprendere che con lo scorrere del tempo i calzolai univano suole e tomaie con tendini animali seguendo una procedura sempre più uniformata nell'assemblaggio delle calzature: per esempio gli stivali per i cavalieri erano invariabilmente adattati per l’applicazione degli sproni.
Nelle case solitamente non si portavano scarpe; ci si recava sì all’abitazione di un amico, magari per un banchetto, portando scarpe, pure molto robuste, per non giungere imbrattati dall’ospite ma, una volta entrati in casa, già nell’androne della stessa, le calzature venivano dimesse e mediamente uno schiavo od un servo (trattandosi di ambiente sociale elevato) si prendeva cura dell’invitato accorrendo con un catino e tutto l’occorrente per un rapido pediluvio onde liberare il sopraggiunto delle eventuali sporcizie raccolte involontariamente nella passeggiata per strada, permettendogli di conseguenza di recarsi nella sala dei ricevimenti libero dall’impaccio di qualsiasi calzatura.

da Cultura-Barocca

venerdì 13 maggio 2016

Ludus quem Itali appellant il Calcio

 
Come dice la didascalia (Ludus quem Itali appellant il Calcio = "gioco che gli Italici chiamano il Calcio") della stampa di Pietro Bertelli (o del figlio Francesco) - realizzata a Padova a corredo dell'opera dell'accademico Giovanni Bardi,  Discorso sopra il giuoco del calcio fiorentino del sig. Giouanni de Bardi de' conti di Vernio ... da lui gia scritto al Serenissimo gran duca Francesco. Ed ora nuouamen, In Firenze: Insegna della Stella, 1673 -, il CALCIO ITALIANO del XVI secolo si praticava su campo lungo 100 metri e largo 50: ogni squadra disponeva di ventisette giocatori distinti in quindici avanti, in cinque conciatori (posti circa 15 metri dietro gli attaccanti), in quattro datori innanzi (dieci metri indietro a questi ultimi) e finalmente tre datori addietro.
Il punto, detto gaccia (equivalente alla moderna segnatura di un goal), si aveva ogni volta che il pallone era proiettato, con un calcio od un pugno, nel campo avversario segnato da pali.
Si trattava di un gioco ambito tra gli esponenti della società aristocratica, tanto che vi si distinsero in gioventù quei patrizi che divennero pontefici romani col nome di Clemente VII, Leone X ed ancora Urbano VII.
Diverso era il gioco del calcio, Giuoco del calzo che si fa nel Brisaglio a S.to Alvise la Quaresima al quale non giocano se non li gentil' uomini, praticato a Venezia, di cui qui una celebre raffigurazione di Giacomo Franco (nato a Venezia nel 1550 ed ivi morto nel 1620).  In effetti, un'acquaforte (mm 250x170), tratta dalla raccolta "Habiti d'huomeni et donne veneziane…Trionfi Feste Cerimonie pubbliche della nobilissima città di Venetia", che si proponeva di illustrare in ogni aspetto la vita cittadina, inclusi i giochi che dividevano la cittadinanza in due squadre. La raccolta venne pubblicata dopo il 1591...
In ogni caso il GIOCO DEL CALCIO era così celebre a Firenze da godere ancora di una RIEVOCAZIONE STORICA in epoca moderna, ricorrente il 4 del mese di maggio. 
Ma verso il '700 prese a decadere per esser trasferito in Francia, quasi certamente ad opera di mercanti fiorentini. In particolare pare che le prime partite si siano giocate a Lione.
Tuttavia nel territorio transalpino varie regioni si contendono la palma di aver dato i natali al GIOCO DEL CALCIO: un posto di riguardo spetta alla Normandia ove sin da tempi remoti era praticato il GIOCO DELLA CHOULE che si svolgeva utilizzando una palla od un pallone di cuoio, talora riempito di paglia o in altri casi gonfiato d'aria. Era compito dei giocatori quello di indirizzare il PALLONE, con i pugni o con i piedi, verso la parte del campo presidiata dalla squadra avversaria sin a colpirne la parte terminale costituita da un muro o dalla porta di una chiesa.
La CHOULE veniva praticata tra formazioni che rappresentavano spesso le due diverse parrocchie di appartenenza e lo spirito di competizione era così elevato, anche tra i sostenitori, che le autorità furono obbligate a pubblicare delle ordinanze con le quali si proibiva l'esercizio del gioco rendendolo possibile solo nel periodo natalizio ed in quello del primo giorno della Quaresima.
Nella regione di Jumièges il gioco assunse più ampie proporzioni ed i giocatori (CHOULEURS) si rincorrevano per i campi onde impadronirsi del pallone: gli eccessi di violenza e le conseguenti proibizioni fecero però col tempo morire la CHOULE in Normandia come in tutta la Francia.
Il gioco passò quindi in Inghilterra ottenendo grande fortuna; anche se pure qui non mancarono le manifestazioni di brutalità (citate anche da Shakespeare); soprattutto il giorno del giovedì grasso era dedicato alla pratica di questo gioco che, col passare degli anni, assunse toni sempre meno violenti sì che presero ad intervenirvi da spettatrici anche le donne: si giocava dovunque, sulle strade come sulle piazze, senza arbitro e regole.
Finalmente a metà Ottocento sempre in Inghilterra venne fondata la prima associazione di FOOT-BALL e fu tenuto il I congresso in cui si redasse l'originario regolamento del gioco.

giovedì 5 maggio 2016

Galeno, medico e farmacologo

Nell'IMMAGINE si vede il frontespizio del volume intitolato ASCRIPTI LIBRI QUI VARIAM ARTIS MEDICAE FARRAGINEM EX VARIIS AUCTORIBUS EXCERPTAM CONTINENTES, OPTIMO, QUO FIERI POTUIT, ORDINE SUNT DISPOSITI, ET IN UNUM CORPUS REDACTI. QUINTA HAC NOSTRA EDITIONE, NON PARUM ORNAMENTA ADEPTA [...]. LOCIS ETIAM HIPPOCRATIS NUPERRIME IN MARGINE NOTATIS unito con GALENI OPERUM NON EXTANTIUM FRAGMENTA QUORUM MAIOR PARS NUMQUAM PRIUS EDITA. PRIMA EDITIO, VENETIIS, APUD IUNTAS, MDLXXVI: si tratta di un esemplare in 4° che unisce la parte quarta e quinta dell'OPERA OMNIA nell'edizione "curata dal medico Giovanni Mercuriale, e da lui dedicata al Principe Jacopo Buoncompagni. Rispetto alla IV edizione è ancora migliorata, per le cure ad essa apportate dal celebre e dotto suo curatore. La parte V del Tomo I (OPERUM NON EXTANTIUM FRAGMENTA) è tutta originale" da Camerini, Annali dei Giunti, Venezia, 788 (esemplare da raccolta privata).

Un contributo per approfondire la conoscenza del medico classico Galeno deriva dal lavoro del dott. Cesare Augusto De Silvestri, che "on line" (www.salvelocs.it) ha realizzato un interessante e scientifico sunto di una dissertazione dell'anno 1924 di Alberico Benedicenti, ordinario di farmacologia sperimentale nella R. Università di Genova dal titolo Malati-Medici e Farmacisti, storia dei rimedi traverso i secoli e delle teorie che ne spiegano l'azione sull'organismo.

Nel lavoro vengono analizzati i molteplici aspetti dell'attività di Galeno, dalla VITA e quindi all'OPERA MEDICA, soffermandosi acutamente sulla sua misconosciuta, ma rilevante COMPETENZA FARMACOLOGICA, comportante molteplici osservazioni che vanno dalla TEORIA DEI GRADI cui stava connessa la TEORIA DEI TEMPERAMENTI e quindi quella delle QUATTRO CATEGORIE DEI MEDICAMENTI ed ancora delle DROGHE CALDE, FREDDE, UMIDE E SECCHE.
"Galeno [annota l'autore di questo saggio-sunto] nacque a Pergamo nel 133 d. Cristo; sulla data regna un po' di incertezza.
 

Divenne famoso a Roma sotto gli imperatori Antonino Pio, Marco Aurelio, Commodoro, Pertinace, Didio Giuliano e Settimio Severo.
Morì quando l'impero era governato da Caracalla.
Secondo Suida visse 70 anni, secondo Laertio 87, secondo altri 98 e perfino 105 anni.
Il padre, Nicone, era uno studioso di matematica, astronomia e geometria.
 

Il nome Galeno, che in greco significa dolce e mite, gli fu dato con la speranza che non rassomigliasse alla madre, persona dal carattere iracondo.
A quindici anni insieme al padre si cimentò nello studio dei rudimenti della filosofia, che approfondì sotto la guida di Filopatro (filosofia storica), di Caio (filosofia platonica), di Aspasio (filosofia peripatetica), nella città di Atene studiò la filosofia platonica.
All'età di diciotto anni iniziò gli studi di medicina, a ventuno pubblicò i primi studi, a ventotto cominciò ad esercitare la professione; sei anni dopo si trasferì a Roma
."

"La città eterna in quell'epoca [in cui vi si trasferì Galeno, ancora annota l'autore di questo saggio] era piena di medici greci, perché si riteneva che fosse il requisito principale per essere apprezzati nella professione.
 

I medici più famosi come i Cassi, Arunzi, Albunzi, Rubri erano pagati con onorari favolosi.
Plinio racconta che Lucio Sterminio pretese, come medico privato dei principi, non meno di 500.000 sesterzi l'anno.
Alcuni medici esercitavano privatamente la professione, altri erano pagati dallo Stato e curavano: i poveri, i gladiatori, i militari; altri erano archiatri (addetti alla cura dell'imperatore) uno di loro era Palatino.
 

Galeno fu archiatra degli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero e del giovane Commodoro.
I medici, ai tempi di Galeno, visitavano i malati negli ambulatori (tabernae mediche), o si recavano a domicilio seguiti da un codazzo di allievi.
Vi erano anche speciali "case di salute", situate in luoghi incantevoli, dove i medici operavano e curavano gli infermi.


I rizotomi [dal gr. rhizotomos = "tagliatore di radici", nell'antica Grecia e in Roma imperiale, raccoglitore e venditore di radici ed erbe medicinali, anche scrittore che si occupava di piante officinali) conservavano nelle loro botteghe le erbe medicamentose che avevano raccolte o che provenivano da terre lontane [spesso sulla scia di interminabili viaggi il cui punto di riferimento era la grande stazione commerciale e portuale di OSTIA].

I farmacopoli (farmacisti di allora) preparavano le medicine con le droghe disponibili.
I progenitori degli attuali farmacisti erano noti perché sofisticavano i farmaci, e vendevano pozioni abortive e veleni a scopo di omicidio e suicidio; per colpire l'immaginazione dei clienti, ornavano le loro botteghe con strane piante e animali imbalsamati.
Spesso i medici preparavano i medicinali. A tal proposito Plinio ci fa sapere che erano, in fatto di droghe, per la maggior parte ignorati, così da impiegare il minio invece del cinabro o che compravano dai droghieri le sostanze medicinali senza conoscerne le proprietà.
 

Galeno s'irritava contro questi medici ignorati che conoscevano le piante solo per le descrizioni lette sui libri; dichiarava che i medici che andavano alle cene e passavano il tempo a complimentare i ricchi ed i potenti erano più stimati e più ricchi di quelli seri e studiosi.
Galeno prima di arrivare a Roma aveva già effettuato numerosi viaggi studio; visitò la Palestina per osservare come si otteneva l'ipobalsamo e da dove si ricavava il bitume giudaico; si recò sull'isola di Lemno (isola greca di fronte allo stretto dei Dardanelli, conosciuta anche con il nome di Lesmo) per vedere come si preparava la famosa terra sigillata ed assicurarsi che venisse impastata con il sangue di becco; nell'isola di Cipro visitò le miniere e si procurò grandi quantità di minerali per studiarne le proprietà medicinali; per trovare la pietra gagante si recò nella Licia (antica regione dell'Asia minore sud-occidentale, che dopo la morte di Alessandro magno fu contesa da Siria ed Egitto).
 

A trenta anni, dopo tutti questi viaggi, fece ritorno nel suo paese natale, per poi trasferirsi definitivamente a Roma.
Galeno si occupò molto delle sofisticazione delle droghe, ed in special modo del pepe, cannella, zafferano, mirra e rapontico.
Le sofisticazioni delle droghe, visto il commercio assai fiorente, era un malcostume molto diffuso.
Molte delle droghe che provenivano dalle regioni più lontane erano spesso sofisticate; dalla Gallia era importato l'aconito, dalla Germania il rafano, dall'Egitto la mirra, l'aloe, il pepe, lo zenzero, il malabro, l'oppio e tante altre droghe.
Gli imperatori per contrastare la sofisticazione ne controllavano la produzione nell'isola di Creta
."

"La maggior parte degli storici della medicina [annota sempre l'autore di questo saggio-sunto] hanno descritto l'impegno di Galeno come medico clinico, ma passò sotto silenzio la sua attività come FARMACOLOGO.
Galeno fu un grande anatomico e fisiologo, fu il primo a riconoscere l'importanza dalla fisiologia nella medicina pratica, il primo ad affermare che senza una esatta conoscenza delle funzioni normali del corpo era impossibile la cura delle malattie.
Egli sezionò cadaveri di scimmie e di maiali, fece esperimenti di vivisezione; provò le azioni della triaca sui condannati a morte, a cui faceva ingerire del veleno o li faceva mordere da serpenti velenosi, per poi somministrarla e quindi valutarne l'efficacia clinica.
Galeno conosceva molto bene le difficoltà che si incontravano nello studio dei farmaci, infatti nel suo libro sulla composizione dei medicamenti egli affermava che era molto facile fare affermazione errate in questo campo di studi, sia ignorando, sia giudicando imperfettamente quanto altri studiosi avevano scritto.

Si chiedeva se un medico che avesse sperimentato su sei o sette uomini un purgante, poteva affermare con certezza che la stessa cura avrebbe avuto effetti simili su tutti gli altri possibili pazienti (quanta modernità in queste parole).
Galeno si poneva queste domande: si conoscevano numerosi farmaci astringenti, ma la causa per cui lo erano perché non era sempre la stessa?
Se un tal frutto era astringente, se la scoria del rame era astringente, ma l'effetto in termini di efficacia non era uguale, da cosa dipendeva questo diverso modo di agire? Galeno per rispondere a questi interrogativi creò la teoria dei gradi...
"