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mercoledì 27 dicembre 2017

Circa le "Rimembranze intorno all'Oriente del Visconte di Marcellus"

 

Nel VOLUME III/2 della "Raccolta di Viaggi dalla Scoperta del Nuovo Continente Fino A' Dì Nostri" (1840-1844), 15 volumi in 8vo a formare un’opera in 18 tomi, compilata da Francesco Costantino Marmocchi per la casa editrice Fratelli Giachetti di Prato, si leggono in 2 volumi le "RIMEMBRANZE INTORNO ALL'ORIENTE DEL VISCONTE MARCELLUS". tra le PAGINE 383 - 457 si possono leggere queste NOTE INTEGRATIVE DEL 1839 (SEGNATE DA NUMERI PROGRESSIVI) SEPPUR APPORTATE CON MISURA E SENZA STRAVOLGIMENTI DEL TESTO PRIMIGENIO DEI PRIMI ANNI '20 DEL SECOLO DEL VISCONTE DI MARCELLUS E CORREGGERE EVENTUALI LACUNE SULLA BASE, IN PARTICOLARE PER LE PIRAMIDI, DELLE MODERNE ASSERZIONI DI HOWARD VYSE. IN RELATIVAMENTE POCHI ANNI GRANDI MUTAMENTI SCONVOLSERO POLITICAMENTE QUESTE CONTRADE E QUANTO A FATICA SI POTEVA VEDERE DIVENNE OGGETTO DI STUDI MINUZIOSI = LO STESSO VISCONTE DI MARCELLUS AFFERMA CON RAMMARICO CHE NELLA SUA RELAZIONE DI VIAGGI IN QUESTE CONTRADE COME QUI SI VEDE NON TUTTO POTE' OSSERVARE E NON SEMPRE FU ESATTO SI' DA ESPRIMERNE CON DISPIACERE, MA CON UNA ONESTA' INTELLETTUALE TUTTORA DA AMMIRARE E SU CUI RIFLETTERE, LE RAGIONI IN QUESTE PAGINE , CHE IMPLICITAMENTE DIMOSTRANO, PER SUA STESSA AMMISSIONE, QUANTO SIANO IMPORTANTI LE NOTE E LE CORREZIONI VARIAMENTE APPORTATE, DATO CHE FERMO RESTANDO L'ORGOGLIO PER LE PROPRIE GIUSTE AFFERMAZIONI NON SI PUO' CHE CONCORDARE CON IL PROGRESSO DI SCOPERTE E STUDI NUOVI, ANCHE SE FATTI DA ALTRI SENZA ANCORARSI A PRECONCETTI DI ANTISCIENTIFICA E TESTARDA TUTELA DEI PROPRI SCRITTI A FRONTE DI NUOVE CORRETTE POSTULAZIONI E SOPRATTUTTO SENZA PROCEDERE A CORREZIONI O RISCRITTURE, SPESSO VACUE QUANTO FRETTOLOSE E QUINDI VIEPPIU' DANNOSE, DELLE PROPRIE DICHIARATE SCOPERTE ED ASSERZIONI SI' DA POTERE, CON L'OVIDIO DELLA V ELEGIA DEL I LIBRO DEL SUO "DAL PONTO", POI SCRIVERE "VERGOGNA, SPESSO OVE I MIEI VERSI LEGGO/ MI PIGLIA, E DEGNO, A MIO GIUDICIO, ANCORA/ DI CANCELLARSI QUEL CH'IO SCRISSI, VEGGO;/ MA NON LO EMENDO; MOLTO PIU' M'ACCORA/ QUEST'OPERA CHE L'ALTRA..."


- NOTA I: CANALE DI ALESSANDRIA O DI MAHUMUDIEH
- NOTA II: LE PIRAMIDI DI GIZEH
[INTEGRAZIONE DI ALCUNE NOTE (A FONDO PAGINA IL RIFERIMENTO ALLE PAGINE DELLE ORIGINALI "RIMEMBRANZE") CON LA COLLABORAZIONE DEL MARCELLUS = DOPO L'AVVERTENZA PROEMIALE PRENDE SPUNTO LA DESCRIZIONE DELL'EGITTO DALLA QUI TRASCRITTA "LETTERA CHE, SU RICHIESTA DEL CALIFFO OMAR-EBN-EL-KATTAB FECE AL SUO LUOGOTENENTE IN EGITTO AMRU PER AVERE UNA PUR SOMMARIA RELAZIONE DEL TERRITORIO CONQUISTATO DAGLI ARABI: DOPO LA LETTERA DEL CALIFFO SI LEGGE QUI LA RICHIESTA RELAZIONE DI AMRU" LA QUALE SI CONCLUDE (SETTIMA RIGA DALL'ALTO) A QUESTO PUNTO LA CURATELA DEL LAVORO -IN MERItO A QUESTE NOTE- CONTINUA SULLA BASE DI OTTOCENTESCHE ASSIMILAZIONI FERMA RESTANDO LA POSTULAZIONE DEL VISCONTE DI MARCELLUS DI UNA PROVA LIMITATA AL NECESSARIO E SULLA CUI EFFICACIA E A MAGGIOR RAGIONE SULLA CUI ESASPERAZIONE HA DEI DUBBI GIA' MENZIONATI]
* - "TEBE"
- NOTA III: MEDIO ED ALTO EGITTO E LE OASI
- NOTA IV: ATENE
* - "CARTA TOPOGRAFICA DI ATENE ANTICA E MODERNA"
- NOTA V: "L'EUBEA E LE ISOLETTE VICINE"
EUBEA
ANDRO
SCIRO
IPSARA
- NOTA VI: "ESCURSIONE NELL'INTERNO DELL'ANATOLIA"
NIFI E KASSARA. FESTA DEL BAIRAM; CARAVANA
SARDI
ALASCAR, ANTICA FILADELFIA
TRIPOLI SUL MEANDRO
DEGNISLEH
ROVINE DI LAODICEA
ROVINE DI GERAPOLI SUL MEANDROMONTE CADMO
ROVINE DI CIBIRA
LA COSCRIZIONE IN TURCHIA
ROVINE DI AFRODISIA
GLI ZEIBEI - DISPUTA CON UN ULEMAS
SOLEIMANLEH, USCIAB, KADI
UN FACHIRO INDIANO
ROVINE DI ASANIA
ROVINE DI KUTAYEN ANTICA COTYLEUM
ESKI SCEHR, ANTICA DORILEA
LA TOMBA DI ERTOGRHUL - ORIGINI DELL'IMPERO TURCO
LE RIVE DEL SANGARIO
VEDUTA DI BRUSSA
INTERNO DI BRUSSA
I BAGNI DI BRUSSA
MONTE OLIMPO DI BITINIA
DECADIMENTO DELL'IMPERO TURCO
* - "CARTA TOPOGRAFICA DI COSTANTINOPOLI"
- NOTA VII: "ALCUNE DELLE COSE PRINCIPALI DI COSTANTINOPOLI"


da Cultura-Barocca

martedì 19 dicembre 2017

Le almé danzatrici

In Medio Oriente la tradizione delle danzatrici e delle cantanti spesso estemporanee è antichissima [il francese Visconte di Marcellus (che con l'inglese A. Burnes) fu tra i più grandi esploratori dell' Asia nel XIX sec. registrò ad es. la costumanza delle donne dell'isola di Rodi famose per improvvisare canti d'amore detti "Travondiesi"] ma come anche suggerisce questa RARA STAMPA d'epoca nulla poteva competere con la fama leggendaria delle ALME' = FRA CUI CELEBERRIMA FU GIUDICATA LA BELLISSIMA "ZOBEIDE" AMANTE DEL CALIFFO HARUN-AL-RASCID, le voluttuose danzatrici del Medio Oriente [il Cheshney nel testo appena riportato commentando la stampa parla sia delle almée che di altre danzatrici le gawazee in effetti con qualche discordanza rispetto alla realtà storica modernamente ricostruita = come appena scritto l' interpretazione moderna si distingue da quella sette-ottocentesca qui riportata: per essa infatti le "awalim (sing. alma), note in occidente attraverso il termine almée, che è di origine francese, sarebbero state donne o studiose istruite che scrivevano poesie, componevano musica, improvvisavano e cantavano e danzavano, seppur solo per le donne e non di rado suonavano anche uno strumento per accompagnare le loro canzoni giungendo ad ottenere gran reputazione proprio per la loro capacità di improvvisazione dei Mawal appunto canti improvvisati. Stando alle attuali acquisizioni il Chesney sembrerebbe qui riferirsi soprattutto alle gawazee (sing. gaziyah spesso tradotto con “zingara”) che si ritiene facessero parte di una Cabila o tribù di berberi o beduini del nord Africa e Arabia di cui non è chiara la provenienza (vedi qui integralmente digitalizzata l'opera Nozioni Preliminari intorno allo Stato Politico e Morale della Turchia necessarie per la completa intelligenza delle "Rimembranze" del Visconte di Marcellus e di qualunque opera relativa all'Oriente = Cap. dal Viaggio in Siria ed in Egitto di F. C. Volney e nello specifico dell'argomento trattato il capitolo "Idea degli Arabi Beduini" = vedi ancora qui sempre digitalizzati con indici moderni i Viaggi in Arabia di J. L. Burckardt) . Ritenute donne molto eccentriche (potevano esprimersi anche parlavano anche per via di una una lingua segreta, il sim) eran solite tingersi i capelli con l’hennè, truccarsi e delinearsi alla maniera delle donne classiche gli occhi con l’antimonio, indossando braccialetti, pendenti alle orecchie e portando cerchi d’oro al naso: recavano paecchi anelli alle mani e alle dita dei piedi e collane di perle al collo. Danzavano durante le feste, celebrazioni, per la strada o di fronte ai caffè e risiedevano in quartieri speciali della città. Ma non si dedicavano solo al ballo e al canto; esse esercitavano pure altre attività: oltre a contribuire all'animazione delle feste praticavano il disegno di tatuaggi, la preveggenza tramite conchiglie e sabbia, la lettura dei fondi del caffè e sapevano operare la circoncisione sui bambini = a prescindere dalle moderne constatazioni sugli "Zingari", reperibili on line sul Web, è da dire che
gli Zingari e le Zingare furono nell'età intermedia, a giudizio sia di Stato che di Chiesa, furono ascritti ai "diversi"
nel senso di mali homines e malae foeminae come qui si legge

all'interno dell'enorme silloge di Padre Lucio Ferraris assolutamente da consultare (sotto il profilo etimologico il Battaglia rimanda il lemma "zingaro" a "zingano" con cambio di suff. e per quanto riguarda "zingano" lo fa derivare dalla voce dotta medievale greca athigganos, nella forma popolare atoigganos = "intoccabile" che al plurale avrebbe indicato una setta di manichei frigi: è da precisare che un documento del 4 marzo 1283 emesso dalla magistratura veneziana dei Signori di Notte, che tutelava l'ordine pubblico a Venezia, in cui si ordinava di allontanare dalla città i "gagiuffi" (termine antico che deriva probabilmente da "egiziano" e significava quindi "zingaro" = vedi qui M. Cassese, La chiesa cattolica del Nord-Est ed il suo rapporto con gli zingari, in La chiesa cattolica e gli zingari, Roma, 2000, pagg. 85-119).
Al di là di queste considerazioni resta fuor di dubbio il fascino sensuale esercitato da queste cantanti e danzatrici = dal punto di vista storico l'autore propone qualche loro probabile enfatizzazione esotica rimandandone "l'invenzione" all'Antico Egitto dei Faraoni e a Semiramide = la regina sempre al centro delle riflessioni sulla voluttà e la tentazione suscitata dal corpo femminile]. Esse, a prescindere dalla varie possibili precisazioni, nella sostanza eran giudicate dall'epoca medievale -nell'ottica dell'intransigente anacoretismo cristiano delle origini e quindi dei controversisti antislamici- in qualche modo "EREDI" DELLA LASCIVIA E DELLA LUSSURIA DELLE DONNE PAGANE E COME QUESTE ELETTE A SIMBOLO DELLE "CONCUBINE DI BABILONIA" (onde esser per vari aspetti ritenute simbolo supremo della tradizione della provocazione femminile a peccato e lussuria tramite il canto e la danza -aspramente condannata anche dai controversisti cristiani e antislamici- nel mondo classico) = la stampa con il relativo testo è custodita entro il XVIII volume della grande silloge ("Raccolta di viaggi dalla scoperta nel Nuovo Continente fino a' dì nostri") realizzata dal geografo italiano Marmocchi per i tipi dell'editore Giachetti di Prato (1845) ove si trovano queste due opere qui digitalizzate e sunteggiate:
1 - "VIAGGIO NELLE CONTRADE DELLA MESOPOTAMIA DI CALDEA E DI ASSIRIA DEL COLONNELLO CHESNEY"
2 - VIAGGIO A MEROE E IN ETIOPIA DEL KOSCKINS

da Cultura-Barocca

martedì 12 dicembre 2017

E la Venere di Milo andò in Francia


Archeologia ed amori impossibili (ovvero quando l'amore per un reperto straordinario (la Venere di Milo) si coniuga con quello per una donna reale, Maritza la fanciulla più bella di Milo = a destra, accovacciata, mentre riempe d'acqua una brocca, nell'immagine, asseme alla cugina, da un quadro che, cosa straordinaria, non avrebbe dovuto esistere) ed entrambi sono irrealizzabili.

Qui si propone nella forma non attiva (ai più romantici la lettura di una gran bella storia d'altri tempi cliccando sul link) = "Aveva veduto le grotte, il teatro, l'antico Melos; aveva in mano la statua della Venere; i miei doveri, la mia curiosità erano stati soddisfatti" [scrive Marie-Jean-Louis-Charles-André di Martine Tyrac (1795-1861) Visconte di Marcellus in questo libro qui digitalizzato (ed. Giachetti di Prato).

Dove tra tante altre cose parla del suo tormentato acquisto per la Francia di Luigi XVIII della scoperta della leggendaria Venere di Milo (Milo fin al XIX secolo non particolarmente celebrata fra le tante isole del vasto arcipelago che integra il territorio continentale della Grecia) con un resoconto assai più esteso ma che vale l'impegno di analizzare intieramente [la scoperta data del 20 febbraio 1820 ad opera di un contadino di Melo tale Yorgos Kentrotas = quindi l'alfiere di vascello Dumont d'Urville -ragguagliato da un subalterno ufficiale Olivier Voutier che ne riconobbe il pregio- imbarcato sulla "gabarra" la Chevrette, con altre navi francesi da guerra, ancorata nel porto di Milo "all'epoca di questi scavi" e agli ordini del capitano di vascello Gauthier rimase colpito dell'evento sì da impegnarsi presso l'agente consolare francese Brest che "teoricamente" pensò di esser riuscito nell'impresa d'acquistarla (dopo averne chiesta l'autorizzazione con lettera del 12 aprile) per conto del marchese de Rivière ambasciatore a Costantinopoli, il quale intendeva donarla al re di Francia Luigi XVIII. il visconte Marcellus, segretario dell'ambasciata francese, appreso del rinvenimento si entusiasmò specie dopo averne visualizzato uno schizzo che il d'Urville aveva fatto della statua di maniera che ottenne di recarsi a Milo per assimilare a pro della Francia quanto rinvenuto pur imbattendosi subito in grosse difficoltà con grave disappunto espresse dal Brest, come scritto già convinto del buon esito dell' acquisizione ma al momento disilluso da imprevisti eventi (stante anche il fatto che dei reperti si era impadronito un monaco greco peraltro convocato sulla questione dal dragomanno dell'arsenale di Costantinopoli cui con tale dono antiquario intendeva liberarsi dell'accusa di irregolarità) sì da doversi impegnare in molte avventure prima di riuscire ad acquistare il tutto dalla riunita comunità dei primati di Milo aggiungendo altro denaro alla somma pattuita per la precedente vendita pattuita dal monaco greco con il dragomanno dell'arsenale di Costantinopoli.

E poter finalmente ammirare dal vivo quanto avrebbe trasportato giungendo ad esprimere la frase rimasta famosa "....Io non sapeva saziarmi di contemplare quella bellezza sovrumana...." = altre vicende riguardarono il trasporto ed anche insorte questioni burocratiche come in particolare problemi anche drammatici in cui incorsero i primi cittadini di Milo al modo che qui si legge di seguito da pagina 301 a pagina 302 = infatti se la vendita per nulla turbò i Turchi che non apprezzavano tali antichi reperti antichi specie se come la Venere mutilati giunse invece estremamente sgradita al citato dragomanno dell'arsenale che - ignorando la corrispondenza col Marcellus - fece arrestare e condurre a Sifanto i Primati di Milo, obbligandoli a inginocchiarsi, facendoli poi frustare innanzi ai deputati delle altre isole e condannandoli quindi all'ammenda di 7000 piastre per tale vendita.

Anche se subito, sollecitato dal Marcellus, l'ambasciatore francese ottenne dalla Sublime Porta una celere punizione del dragomanno, con la restituzione del maltolto agli abitanti di Milo e il categorico ordine a tenere per il futuro ben altro atteggiamento verso l'amica Francia: ma questò non bastò al Marcellus cresciuto con tal signore greco, Nicolaki Morusi, figlio terzogenito dell'antico principe di Moldavia e da cui avrebbe voluto una spiegazione de visu cosa che però non avvenne in quanto, nei fermenti del 1821 ormai esistenti tra la Grecia, avida di indipendenza, e la Turchia, il fratello maggiore di costui, principe Costaki Morusi recatosi in Costantinopoli dal Gran Visir più non tornò, verosimilmente ucciso, di modo che il fratello minore ne morì di dolore.

Relativamente più quieto, seppur non senza problemi, fu il destino della "Venere" che il 24 ottobre imbarcata a Costantinopoli sulla gabarra a Lionne raggiunse la Francia condottavi dallo stesso ambasciatore che ne fece dono a Luigi XVIII il I marzo 1821 anche se a lungo rimase nei laboratori del Louvre dovendosi decidere se restaurarla -addirittura proponendosi di utilizzare delle braccia, nei pressi, ritrovate ma per il Marcellus incompatibili con il capolavoro e frutto di un rozzo restauro cristiano per una "Panagia"- od ancora cosa poi, saggiamente, imposta dal Sovrano di lasciarla tale e quale sì da poter esser esposta nel Museo e divenire un'attrattiva per tutta Europa suscitando altrui ambizioni e presunti diritti altrui di possesso tra cui spicca il caso, qui documentato ma presto confutato, del Sovrano di Baviera]. Siffatta relazione del Marcellus è comunque, nella sostanza, molto simile sotto il lato scientifico a quanto, più sinteticamente, risulta redatto nell' Enciclopedia Treccani dell'Arte Antica: tuttavia nel resoconto di colui che fu con ragione nominato il "Winckelmann francese" compaiono anche aggiunte estranee alla moderna scientificità, e che sono in bilico tra archeologia, arte, romanticismo, sentimenti, nostalgia e segreti, ma che valgono la pena di essere lette e meditate = "...un capriccio, vò pur confessarlo, mi trattenne alcune ore di più a Castro. Mi rammentava delle belle sembianze d'una giovinetta di Milo della quale il signor Ender pittore tedesco, aveva arricchito il suo portafoglio. Questo bravo artista aveva ottenuto da un pilota imbarcato con lui il permesso di fare il ritratto di sua figlia, celebrata di già per rara bellezza: ma il vecchio greco, per paura dei Turchi e del serraglio" [ove, se ne si fosse vista la grazia estrema, avrebbe potuto esser costretta ad entrare a far parte del Serraglio del Gran Signore] " aveva voluto fare un patto, che quelle sembianze non si dovessero mostrare ad altri che ad Europei..."

Così, continuando nella narrazione, il Marcellus precisa che il pittore, onde salvaguardare la fanciulla, l'aveva effigiata contestualmente ai genitori sorprendentemente di sgradevole aspetto. La fanciulla a nome Maritza compare finalmente innanzi al Marcellus rimanendo per un certo tempo in sua compagnia: ed ai suoi occhi risulta davvero davvero splendida. L'esploratore e politico francese ne resta affascinato ed è colpito quando Maritza, per nulla vanitosa, "gli presenta, come di lei ancor più bella, una sua cugina che per quanto affascinante non gli pare però (pag. 310) al livello estetico di colei che ormai chiama la bella di Milo: il tempo tiranno, dopo i convenevoli di rito (che tuttora attestano con quanta malinconia il Marcellus si sia staccato da tal meravigliosa creatura) riporta il visconte francese sulla sua nave di maniera che delle due fanciulle nulla oggi d'altro sapremmo se una casualità non ne avesse propiziato il ricordo in modo più concreto che le parole, per quanto alate possano essere. Alla nota 2 sempre di pagina 310 il Marcellus ricorda infatti di aver contemplato altro quadro segretamente fatto dal pittore Ender e sempre nella stessa pagina, ma alla nota 3, gli editori ammettono, che, per curiosità dei lettori si son fatti premura di far realizzare a loro spese una copia perfetta di quel quadro in cui si vedono, a coronamento del libro e come sopra compare, sia la Maritza che la cugina            
Così capitò al Visconte di Marcellus, colui che acquistò la da poco scoperta Venere di Milo per Luigi XVIII di Francia, che amò quasi fosse viva pur sapendo di mai poterla avere per sè, e che nello stesso tempo fu irresistibilmente e romanticamente attratto da Maritza, figli di un pescatore di Milo, che per tante ragioni non potè avere al suo fianco che per un tempo tanto breve quanto struggente...

da Cultura-Barocca



mercoledì 6 dicembre 2017

La storia antica dell'Usura

Genova - Palazzo di San Giorgio
Mentre la Bibbia condanna l'Usura esercitata a danno della propria gente e non quella fatta a danno degli stranieri (Deutoronomio, 23, 19), nella Grecia Classica Aristotele non giustificava l'Usura in linea filosofica, giudicando la moneta quale mezzo di scambio senza spiegarsi che potesse dare dei frutti: in Roma antica l'Usura non comportava disapprovazione morale né provvedimenti di legge, visto che lo stesso suo nome si usava per indicare anche prestiti senza interesse (Cicerone, In Verrem, 3, 168). 

Nell'alto Medioevo, vista l'economia curtense e di sussistenza, data la quasi totale mancanza di liquidità per un mercato che quasi più non esisteva, l'Usura quasi scomparve come fatto economico; essa ricompareve con il riprendersi dei commerci e l'esigenza di liquidità, dopo il Mille, nel basso Medioevo. Nonostante le condanne ecclesiastiche l'Usura si diffuse largamente e non solo per i prestiti alla produzione (onde cioè intraprendere attività auspicabilmente produttrici di guadagni) ma anche, per le classi non abbienti, per i prestiti al consumo (cioè per la vita di sopravvivenza, dal comprare il cibo al pagare gli affitti) con la conseguenza di enormi indebitamenti delle masse popolari e rustiche. 

La condanna, di Chiesa e Stato, in questa società ove i prestiti erano ormai necessari per la produzione ed i commerci, ottenne il solo risultato di reegare l'Usura ad una clandestinità in cui si mascheravano gli interessi con espedienti di ogni sorta: erano diffusi la vendita con patto di riscatto (ove la distinzione tra prezzo di alienazione e di riscatto costituiva in definitiva l'interesse), la registrazione sotto forma di donativo dell'interesse estorto, la fissazione di una penale per ritardato pagamento (indicando nel protocollo di restituzione una data anteriore a quella di fatto convenuta). Lo Stato (a Genova, come a Venezia o Pisa) interveniva quando accertava queste irregolarità e si poteva perdere l'intero capitale: del resto gli Usurai erano ben consapevoli del fatto che il loro mestiere non fosse lecito e, per quietare la propria coscienza in vista della vita ultraterrena, aprivano conti destinati a "Domineddio" (in pratica ad "Opere assistenziali e di carità") o redigevano testamenti a favore di opere pie o per la realizzazione di opere pubbliche e d'arte (anche per questo la condanna ecclesiastica comportò la non ratificazione dei testamenti di usurai).

Nonostante le condanne di Chiesa e Stato l'Usura continuò ad essere praticata con successo, sì che i Dottori della Chiesa giunsero, con argomentazioni sottilissime, a distinguere tra il prestito ad interesse illecito per il consumo (divenuto clandestino ed ambito di gravi abusi, gestito - anche per sopravvivere - da minoranze relegate ai margini della società, come gli Ebrei destinati a suscitare contro di loro avversione etnica e razziale)e quello per la produzione ed il commercio legalmente praticato per lo sviluppo dei grandi banchieri e di un efficiente mercato finanziario e creditizio di cui il genovese Banco di S.Giorgio costituì un'emanazione tanto legale da divenire espressione massima dell'intera economia repubblicana (intanto per soccorrere chi doveva ricorrere al mercato clandestino dell'U. soccorsero in qualche modo dal '400 dei ricchi benefattori del mondo finanziario con lasciti e quindi coll'istituzione dei Monti di Pietà che accordavano prestiti su pegno). 

Per intendere la complessità di questo periodo è utile riportare quanto scritto da Dante Zanetti nel Dizionario Enciclopedico del FEDELE, vol.XX, alla voce Usura (p.639, col.1):"Nel 1285 il comune di Venezia contrasse un prestito all'8% e tre anni più tardi un altro prestito al 12%. Nella Sicilia di Federico II l'interesse legale era del 10%; a Verona, nel 1228, del 12%; a Genova, nella stessa epoca, era del 15%. D'altra parte nel sec. XII un mercante veneziano pagò interessi varianti dal 43 al 50%: In Francia, sul finire del Duecento, un operatore privato pagò interessi che raggiungevano il livello iperbolico del 120 e addirittura del 266%. 

Nel sec. XV Jacques Coeur diventò banchiere della corte di Francia prestando a carlo VII somme considerevoli a un tasso che andava dal 12 al 50%. Nello stesso secolo i banchieri di Arras pretendevano interessi oscillanti tra il 12 e il 20% e i banchieri piacentini chiedevano anche il 30%. Il comune di Vigevano contrasse prestiti al 75% nel 1411, al 90% nel 1413, al 48% nel 1439. 

Nel Cinquecento i mercanti cristiani che operavano nel Levante [tra cui moltissimi Genovesi] pagavano interessi del 30 o 40%. Si tratta di pochi esempi ma sufficienti a darci un quadro abbastanza fedele di una situazione che era determinata da una generale penuria di capitali e da un rischio molto elevato. 

D'altra parte, i prestiti finanziavano spesso operazioni speculative che garantivano profitti talmente elevati da rendere sopportabili anche tassi che ci appaiono oggi sproporzionati. Poco si conosce intorno ai saggi praticati nel mercato clandestino dell'U. spicciola, ma non è difficile immaginare quali livelli potessero toccare, dato il rischio ancora più elevato e le condizioni di estrema necessità di chi vi ricorreva".[I tassi diminuirono dal Seicento in una nuova ottica finanziaria, grazie soprattutto alla scuola Inglese ed Olandese: nei Paesi Bassi si passò tra il 1660 ed il 1700 a mutui che andavano da 3% al 2,5% mentre in Inghilterra già a fine '500 si pubblicavano saggi sull'interesse e l'Usura evidenziando i vantaggi di usufruire di capitali a basso tasso di interesse nel contesto della liberalizzazione del mercato finanziario].