Powered By Blogger

domenica 27 gennaio 2019

Industrie belliche e marinai di Genova al tempo della guerra di Libia (1911-1912)

Nel 1911, dopo che un ultimatum inviato alla Turchia era stato respinto, le forze da sbarco italiane, comandate dal generale Caneva diedero inizio alle ostilità. Tra i marinai della Regia Flotta molti erano i liguri e genovesi, spesso scelti per la loro competenza di mare o per le capacità professionali come nel caso di entrambi i nonni di chi scrive queste note, fabbro specializzato quello paterno (Bartolomeo Durante) e meccanico già impiegato presso le industrie navali Odero di Sestri Ponente quello materno (Giovanni Aurelio Traverso). Con lo scoppio della I^ Guerra Mondiale molti fra questi marinai, esperti meccanici, non furono richiamati al fronte, ma vennero militarizzati al servizio dell'industria bellica (nel genovese per esempio presso importanti STABILIMENTI, come i cantieri Odero, il grande proiettificio di Sampierdarena od il colosso della siderurgia e dell'industria pesante Ansaldo, sia per prestarvi opera nell'attività cantieristica, che in campo metallurgico che ancora nella realizzazione delle grandi artiglierie ormai necessarie al conflitto) e la cosa, anche per l'inerzia di alcuni sindacati, non giunse gradita, anche perché non compresa, ai tanti contadini che dovevano combattere al fronte (la cosa divenne per conseguenza ragione di future gravi incomprensioni fra le sinistre e i rurali, ritenutisi traditi da queste e spesso restii, anche in forme severe, ad ogni forma di proselitismo).

ALLEGATI:





BARTOLOMEO DURANTE, NONNO PATERNO ED OMONIMO DI CHI SCRIVE QUESTE NOTE,




DOPO AVER PARTECIPATO AI SOCCORSI PER I DANNI DEL TERREMOTO CALABRO-SICULO, SVOLSE IL RESTO DEL SUO LUNGO SERVIZIO MILITARE IN MARINA NELLA SQUADRA DA GUERRA IMPIEGATA NEL CONTROLLO DELLA LIBIA.

 

GIOVANNI AURELIO TRAVERSO (SESTRI PONENTE 1890 - GENOVA VOLTRI 1982) E' IL SECONDO IN PIEDI DA SINISTRA, PER CHI GUARDA: LA FOTOGRAFIA FU SCATTATA PRESSO UN FOTOGRAFO DI NAPOLI E RITRAE UN GRUPPO DI MARINAI DELLA FLOTTA REALE IN PROCINTO DI SALPARE ALLA VOLTA DEL CONFLITTO ITALO-TURCO PER IL POSSESSO DELLA LIBIA. NEL PROSEGUIMENTO DELLA GUERRA LA NAVE DA BATTAGLIA SU CUI ERA IMBARCATO GIOVANNI AURELIO TRAVERSO SI PORTO' CON ALTRE UNITA' AD ATTACCARE IL DODECANNESO E LE FORZE ITALIANE PRESERO QUARTIERE NELLE ISOLE DELL'EGEO.

  

IL FOGLIO DI IMMATRICOLAZIONE DI GIOVANNI AURELIO TRAVERSO IN PREVISIONE ANCHE DELLA GUERRA PER L'OCCUPAZIONE DELLA LIBIA: ED ECCO ANCHE IL DOCUMENTO DI CERTIFICAZIONE DI COMPETENZE MECCANICHE DELL'INDUSTRIA DI PROVENIENZA, LA ODERO DI SESTRI PONENTE



LA DICHIARAZIONE DELLA SEGRETERIA AMMINISTRATIVA DEL PERSONALE DELLO LO STABILIMENTO NAVALE ODERO DI SESTRI PONENTE A GENOVA AD USO DI GIOVANNI TRAVERSO AURELIO PER IL SERVIZIO MILITARE IN DATA 1911



COME SI EVINCE DAL FOGLIO DI CONGEDO FECE POI PER VARI MESI PARTE DEL CONTINGENTE ITALIANO PREPOSTO AL CONTROLLO DELLA STRATEGICA ISOLA DI RODI.





DA QUESTA SECONDA CERTIFICAZIONE DELLA SEGRETERIA AMMINISTRATIVA DEL PERSONALE DELLO STABILIMENTO NAVALE ODERO DI SESTRI PONENTE A GENOVA SI APPRENDE CHE GIOVANNI TRAVERSO AURELIO FU RIASSUNTO IL 2 GENNAIO 1914 (POI RESO OPERAIO MILITARIZZATO PER I SERVIZI BELLICI DEL 1915-1918)



LO STABILIMENTO NAVALE ODERO DI SESTRI PONENTE A GENOVA (POI LIQUIDATO NEL 1952) IN UNO DEI SUOI MOMENTI DI FULGORE NEGLI ANNI '90 DEL XIX SECOLO: GIOVANNI AURELIO TRAVERSO FU UNO DEI TANTI OPERAI DELLE INDUSTRIE PESANTI DELLE GRANDI CITTA' ITALIANE CHE ARRUOLATO NELLA REALE MARINA DA GUERRA, DOPO AVER COMBATTUTTO NELLA GUERRA DI LIBIA, FU RIASSUNTO DALLA FABBRICA DI PROVENIENZA E NON VENNE RICHIAMATO SUL FRONTE MA AL PARI DI TANTI ALTRI OPERAI IMPEGNATI NELLA REALIZZAZIONE DI ARTIGLIERIE VARIE VENNE SOTTOPOSTO AD UN PROCESSO PARTICOLARE DI COSCRIZIONE OBBLIGATORIA, QUALE OPERAIO MILITARIZZATO, VENENDO IMPIEGATO, DATE ANCHE LE COMPETENZE, NELL'OPERA INDUSTRIALE NECESSARIA PER SOSTENERE IL DURISSIMO SFORZO BELLICO.



CANTIERE NAVALE ANSALDO DI SESTRI PONENTE (GENOVA) IN UNA FOTOGRAFIA DEL 1911.


 

STABILIMENTO FONDERIE E ACCIAIERIE ANSALDO, CORNIGLIANO, 1918


STABILIMENTO FONDERIE E ACCIAIERIE ANSALDO DI CORNIGLIANO (GENOVA) IN UNA FOTOGRAFIA DEL 1918

  

OPERAI MILITARIZZATI VERSO LA FINE DEL CONFLITTO MONDIALE IMPEGNATI NELLA REALIZZAZIONE DI CANNONI DI GROSSO CALIBRO (381/40): STABILIMENTO ARTIGLIERIE ANSALDO, CORNIGLIANO (GENOVA), 1918

[Per la guerra in Libia era stato allestito un corpo di spedizione di 34.000 uomini ma la guerra non fu così semplice come si era sperato.
La popolazione araba si alleò con i Turchi che, scacciati da Tripoli, mantennero il controllo di buona parte del territorio dell'interno, impedendo alle truppe italiane di uscire dalle ristrette teste di ponte costruite al momento dello sbarco.
Le ostilità si protrassero a lungo costringendo il governo italiano ad aumentare il corpo di spedizione e ad allargare il conflitto.
Nel 1911 si era costituita in Italia una flottiglia aeroplani e proprio questi vennero impiegati per la prima volta nella guerra di Libia: è cosa poco nota ma proprio durante questo conflitto si esperimentarono molte delle tecnologie belliche che sarebbero divenute abituali nella Grande Guerra, dalla fotografia del territorio nemico al bombardamento, al tiro antiaereo.
Inoltre nel luglio del 1912 la marina italiana occupò Rodi e le isole del Dodecanneso appartenenti alla Turchia.
La Turchia fu ben presto costretta alla resa e la pace fu firmata nell'ottobre del 1912 a Losanna.
In base ad essa la Turchia riconosceva all'Italia il possesso della Tripolitania e della Cirenaica e si impegnava a far cessare la guerriglia.
A garanzia di tale impegno l'Italia conservava il Dodecanneso.
L'occupazione della nuova colonia, cui fu mantenuto l'antico nome romano di Libia, non portò all'economia italiana grossi vantaggi.
Quell'ampia fascia di territorio africano era infatti prevalentemente desertica e assai povera di materie prime ad eccezione di vastissimi giacimenti di petrolio, che però furono scoperti soltanto successivamente all'indipendenza del Paese (1952).
In campo politico per i partiti dello schieramento nazionale l'impresa costituì il "pomo della discordia".
Esaltata dai nazionalisti essa li incoraggiò spingendoli sempre più apertamente contro il governo.
In campo socialista l'impresa portò alla spaccatura del partito: da una parte i riformisti, che avevano appoggiato la spedizione attratti dalle promesse -poi mantenute- del suffragio universale (1912); dall'altra la maggioranza del partito, che l'aveva fieramente combattuta in nome del pacifismo.
La spaccatura divenne irreparabile quando il Congresso di Reggio Emilia espulse i riformisti i quali successivamente dettero vita al Partito Socialista Riformista Italiano.
Il PSI rimase guidato da Benito Mussolini.
Giolitti ne uscì indebolito e fu costretto a cercare nuove alleanze tra i cattolici, stringendo un accordo elettorale con essi (patto Gentiloni).
La sua leadership era tuttavia indebolita e dopo le elezioni a suffragio universale tenute nel 1913 fu costretto alle dimissioni lasciando il posto ad Antonio Salandra.]


di Bartolomeo Durante in Cultura-Barocca

lunedì 21 gennaio 2019

Antonio Aniante, un grande intellettuale errabondo

 
Nel contesto di un approccio con la figura di Antonio Aniante, come detta il manifesto di un  convegno svoltosi a Ventimiglia (IM) qualche anno fa, le conquiste culturali di Roberta Valguarnera potrebbero stornare, proprio per la loro efficace competenza, l'attenzione dal tema scelto, vale a dire la relazione di Aniante con l'arte e gli artisti, anche filtrata attraverso il rapporto amicale, verso i suoi ultimi anni, con lo scultore maestro Elio Lentini.
In funzione di ciò, e, come detto, rimandando ad un più corposo intervento futuro su un Aniante, valutato nella poliedricità delle sue qualità letterarie e critiche, la proposizione integrale dell'opera di Roberta Valguarnera sostanzialmente centrata sulla figura dello scrittore, è parso qui opportuno snellire le riflessioni critiche, utilizzando la meno poderosa opera di un autore quale A. Danzuso (che pur tra qualche svista, come in merito agli estremi della nascita) ha redatto un quadro sintetico quanto efficace, per esser qui proposto, sulla figura di Aniante partendo già dalla sua fanciullezza ed adolescenza.

E proprio sulla scorta del Danzuso si possono qui enucleare alcuni passi salienti della vita di Aniante, ferma restando, per un eventuale approfondimento, la necessità di compulsare il lavoro di Roberta Valguarnera.
La formazione del giovane siciliano integrata da autonomi interessi culturali che portano il giovane a cimentarsi con diverse espressioni di, anche contrastanti, temperie culturali: in siffatto contesto restano comunque evidenti quegli interessi per D'Annunzio, il futurismo ed il simbolismo francese che a più riprese emergono dall'analisi della sua produzione.
Le "Memorie di Francia" nell'edizione di pregio di 1200 esemplari del 1973
DA RACCOLTA PRIVATA ELIO LENTINI
Non è invece semplice giustificare fin a qual punto abbia effettivamente inciso sullo sviluppo intellettuale il carisma di quel controverso e comunque carismatico intellettuale catanese, praticamente suo omonimo, che nelle autobiografiche Memorie di Francia del 1973 chiamerà con ossequio, e si potrebbe anche dire con reverente timore, il "vate Rapisardi": forse il dodicenne Aniante non fu in grado di accogliere il grande afflato intellettuale del suo concittadino, tutto si fermò sulla soglia di una quasi mitica e tutta catanese contemplazione del "vate" o forse qualcosa di quest'ultimo rimase nel futuro dello scrittore Aniante, ad esempio l'attivismo mentale, l'aspirazione a più moderne esperienze culturali, l'anticlericalismo...obbiettivamente, leggendo tra i barlumi di questi lontani ricordi, si ricava principalmente un'impressione un poco agiografica, che cioè il fanciullo, e poi l'uomo, più che dalle idee sia stato colto dal destino terreno dell'uomo, perseguito -al suo pari (ma Aniante mirava in effetti alla mancanza di riconoscenza anche economica degli artisti che aveva protetto)- da troppe incomprensioni e claunnie attese le nobili idee che portava fieramente avanti, mai beneficiato al modo che lui beneficò ed alla fine come lui -tormentato da una disfunzione osseo-scheletrica che ne imprigionava il fragile corpo in una sorta d'"armatura"- devastato nel fisico si che "da gigante qual fu...era diventato un nano".

Ancora molto giovane, all'epoca del primo Conflitto Mondiale e nello stesso dopoguerra, Aniante diede il via ad un'esperienza errabonda di vita, con viaggi che lo portarono nei centri istituzionali della cultura italiana e non solo. Fu così che raggiunse, soggiornandovi proficuamente, Napoli, Roma, Milano, Parigi, Firenze. Fu proprio nella grande città toscana che approfondì le sue competenze ponendosi diligentemente nella scia culturale di un singolare maestro, il "teosofo" Arrigo Levasti. Ma Milano rappresentò per lui un vero e primo significativo punto d'arrivo, infatti nel 1926 vi coseguì la laurea in lettere previo una discussione, con Pietro Martinetti, in merito ad una sua tesi sull'allora in auge "bergsonismo".
Espletato questo impegno si trasferì, sempre nel '26, a Roma dimorandovi per tre anni: l'occasione fu ghiotta, non dal lato accademico ma sotto il profilo delle frequentazioni culturali. La sorte gli diede il destro per entrare in confidenza con Luigi Pirandello, Rosso di San Secondo, Corrado Alvaro, Curzio Malaparte, ponendosi in modo abbastanza originale nel contesto della produzione letteraria e narrativa del tempo: oltre a ciò non lesinò le esperienze teatrali ed in particolare si adoprò intensamente presso il teatro di Bragaglia ove portò in scena diverse proprie commedie, caratterizzate da buona accoglienza sia da parte del pubblico che della critica. Inoltre, e pressapoco nello stesso arco di tempo, si associò al cenacolo di quelli che definiva "novecentieri" e che avevano il loro "nume" in Massimo Bontempelli: la varietà degli impegni e la molteplicità dei contatti, peraltro, lo indussero celermente ad accettare la proposta di seguire la via della critica giornalistica e più estesamente del giornalismo.
Ma proprio nel 1929 si andava preparando per Aniante una decisiva svolta esistenziale, l'abbandono dell'Italia e la permanenza a Parigi dal Natale di quell'anno medesimo e ne derivò una stagione narrativa piuttosto feconda i cui risultati, in qualche modo, si sublimarono nel romanzo "Un jour très calme".
La saggistica, le biografie e le opere di carattere storico-documentario furono invece da lui stese immettendosi sulla linea del percorso culturale già disegnato da Splenger e Benda: simile postazione critica, in qualche modo alterò le relazioni con la cultura ufficiale dominante nell'Italia del ventennio, ed Aniante venne in qualche maniera etichettato con l'appellativo, non del tutto rassicurante, di "scrittore fascista dissenziente".
Ma a Parigi, cosa di cui e su cui fra poco più doviziosamente si parlerà, ebbe soprattutto il destro per forgiarsi quale critico d'arte e contestualmente entrare in strettissimo contatto con tanti talenti artisti, pittori ma non solo, che sarebbero di lì a non molto diventati celeberrimi e sui quali avrebbe poi steso pagine interessantissime quale critico d'arte e forse ancor più quale biografo e narratore.

Nel 1938 morì la sua compagna (dopo un amore tormentato e tormentante come altre esperienze passionali dell'autore siciliano) ed Aniante, di rimpetto anche all'inevitabilità del II Conflitto Mondiale, riprese la sua vita errabonda: da Berck a Parigi ancora e finalmente ai paesini della Provenza e della Costa Azzurra per poi approdare nell'amata Nizza proprio quando furoreggiava la guerra totale.
Ma il suo itinerare non si arrestò mai, fu ancora a Peira Cava; poi, terminato il grande olocausto, si sistemò con la francese moglie Simone a Latte, tra Ventimiglia (IM) e Mentone, nella villa de "I Pini".
Le sue collaborazioni non vennero affatto meno, nonostante i problemi di un'incerta salute: continuò a lavorare come pubblista, narratore, biografo ed anche autobiografo. Talora il suo stato fisico gli imponeva di stare a lungo disteso, ma nemmeno in questo caso si fermava dall'operare e contestualmente da intrattenere relazioni con i suoi corrispondenti culturali.
Autore prolificissimo, magari dispersivo nelle tematiche, ha spesso suscitato interessi critici che si sono spesso arrestati sulla soglia del dare un ordine esaustivo alla sua produzione, opera indubbiamente non facile: ma per intendere a fondo e con coerenza critica le ragioni della sostanziale e soprattutto contemporanea incomprensione dell'opera di Aniante vale ancora la pena di leggere quanto in merito ha scritto Domenico Danzuso.

Si comprenderà presto che non è questo il luogo per, come spesso accade, parafrasare (se non scimmiottare) le altrui postulazioni arrogandosi merito non propri; rimandando in merito alla sua produzione "in toto" a siffatta pubblicazione gli studiosi basta qui citare gli elementi nucleari della sua immensa e dispersiva produzione.
Oggettivamente, e per unanime consenso, pietre ferme e in qualche modo miliari del suo tragitto intellettuale restano in ambito teatrale le commedie d'avanguardia "Gelsomino d'Arabia" (1926) e "Bob-Taft" (1927); "Carmen Darling" (1929, rappresentata da Carlo Ludovico Bragaglia) ed ancora la sua commedia "La rosa di zolfo" che Domenico Modugno nel 1958 presentò al Festival della Prosa di Venezia con un cast di tutto rilievo.
A livello di narrativa e, nello specifico quale romanziere, sono invece riconosciute tra i suoi primi prodotti opere quali, "Sara Lilas. Romanzo di Montmartre" (1923), "Amore mortale" (1928), "Venere ciprigna. Novelle" (1929), "Il paradiso dei 15 anni" (1929), "Ricordi di un giovane troppo presto invecchiatosi" (1939), "La zitellina" (1953), "L'uomo di genio dinnanzi alla morte" (1958), Figlio del sole (1965, che ha vinto il Premio Selezione Campiello).
Eppure nella sua rilevante attività pubblicistica, storica e memorialistica (accanto all'originale "Vita di Bellini" uscita postuma nel 1986), specialmente per le riflessioni che qui si vanno producendo, merita una segnalazione specifica il libro sostanzialmente autobiografico Memorie di Francia del 1973.
La ragione è semplice, il libro costituisce sostanzialmente un "punto della situazione della vita di Aniante", ormai anziano (morirà dieci anni dopo, nel 1983 a Latte nella sua amata villa): forse perchè presago della fuga del tempo e dello spazio sempre più breve concessogli per scrivere Aniante si sofferma sulla soglia dei ricordi, come peraltro era già stato solito fare, e vi scava all'interno, con una scrittura che a volta si scontra col lettore per via di scatti quasi nevrotici che lasciano in sospeso pensieri recuperabili per via di riflessioni, quasi all'interno di un giuoco architettato dallo scrittore.
Nella sua sostanziale brevità il libro è un "poemetto in prosa" sulla vita degli artisti di Montparnasse e poi sulla loro diaspora ed ancora sul loro coagolarsi al sole di Provenza: Aniante è il loro contrappunto, l'intellettuale eternamente in difficoltà economica che da un lato si rode a contemplare il formarsi di autentiche fortune per pittori un tempo miserrimi che ha esaltato coi suoi scritti ma che, dall'altro lato, subito rigettando la cattiveria insita nell'invidia, trova motivo d'esaltarsi al pensiero d'aver potuto fruire dell'amicizia dei talenti più grandi, specialmente in ambito pittorico, che la sua stagione esistenziale potesse concedergli.
Sarebbe improprio negarlo qualcosa di contradittorio caratterizza Aniante in questa serie di riflessioni come in altre analoghe fatte in tempi pregressi: umanamente parlando non deve esser stato facile -come appena detto- assistere a trionfi impensati, cui in tempi ingrati aveva contribuito, senza talora nemmeno ricevere una gratificazione morale se non economica.
Non è difficile scoprire questo lato delente della sua esistenza: più di una volta infatti, raccontandosi in prima persona Aniante ritorna all'epoca controversa, ora fulgida ora disperata e disperante, del suo soggiorno parigino e dei suoi poliedrici contatti con i futuri immortatali, i giovani talenti che avrebbero illuminato della loro arte il mondo intiero.
...
Ma subito, attesa la sua indole fatalista e molto mediterranea, l'autore sa riprendersi ed uscire dalle secchie di cattivi ed impopolari pensieri per recuperare il positivo ed anzi vantarsi del suo stato di uomo non arricchitosi economicamente per l'altrui trionfo ma semmai nobilitato dal contatto spirituale con i genii che quei trionfi hanno saputo perseguire.
...Sondando a tutto campo le "Memorie di Francia" (anche valendosi di un'analisi semantica e strutturalistica per quanto non sempre attendibili in maniera assoluta) si riscontra invece semmai il senso del declino: e non solo del proprio, causato dall'inferma salute, ma di tutti i grandi, specialmente di quelli maggiormente prossimi...parafrasando Aniante si potrebbe dire degli "artisti divini di Costa Azzurra e Provenza".
L'angoscia non è espressa palesemente nell'andamento sostanzialmente giornalistico ed aneddottico della narrazione, ma qualche "lapsus calami", una forma ancora più nevrotizzata del solito, pur nel rispetto della tradizionale efficienza espressiva, paiono segnali d'un abbandono che coinvolge tutto e tutti (in questo, ancora una volta, si potrebbero giudicare emblematiche le stesse sarcine narrative dedicate a Matisse e a Picasso!).
Il tempo scorre e tutto travolge, anche gli "Dei dell'arte" ed i loro "mentori": ma qualche fuga rimane, sempre, e a tutti.
Per lo scrittore, relativamente isolato a Latte di Ventimiglia (un paradiso di clima, luce e natura: occorre sempre rammentarlo) gli incontri gratificanti non mancheranno mai...la sua ottima reputazione e le tante conoscenze maturate in anni di lavoro non hanno prosciugato il pozzo delle relazioni intellettuali!
Ma nel percorso esistenziale di alcuni uomini, di uomini come Aniante perennemente curiosi ed intellettualmente instancabili anche se spesso relegati in un letto, oltre che i GRANDISSIMI ARTISTI CON CUI EBBE GRANDE FAMILIARITA' ED AMICIZIA (ed anche i SEGRETI GRANDI E PICCOLI da lui raccolti in merito a tanti artisti eccelsi, come ad esempio Modigliani) hanno un ruolo eminente i giovani talenti, le figure nuove da scoprire, guidare, segnalare: ed infatti occorre rammentare che Aniante non mascherò mai (contro qualche falsa credenza che lo vuole soltanto "profeta dei sommi") l'aspirazione d'esser SCOPRITORE DI TALENTI.
 
 Le sue innumerevoli "scorribande" tra artisti giovani ed emergenti ma spesso caratterizzati da un comune stato di indigenze hanno fatto sì che Aniante abbia finito anche per raccogliere dati, notizie ed anche "segreti" (spesso racchiusi nelle pagine delle "Memorie di Francia..." rimasti inesplorati per la maggior parte dei critici come nel caso del pittore genovese Enrico Fumi od ancora di Tullio Garbari poeta amicissimo del promettente giovane scrittore Dino Garrone, parimenti conosciuto da Aniante che, a quanto pare nel contesto della critica letteraria, pare il solo ad aver appreso la reale causa della morte di Garrone a Parigi nel 1931, genericamente definita ovunque "misteriosa".
 

Fortunatamente la sorte non si è rivelata sempre così amara nei riguardi del (si passi il termine) "talent scout" catanese.
Continua
E, proprio a consolare la vecchiaia di questa sorta d'avventuriero dell'arte, di pirata o meglio ancora d'esploratore a caccia di sempre nuovi orizzonti le occasioni non mancano, anche nell'individuare giovani artisti destinati ad un futuro luminoso.

da Cultura-Barocca

venerdì 11 gennaio 2019

Sul Mesmerismo

Fonte: Wikipedia
Una statua di Mesmer - Fonte: Wikipedia
La tomba di Franz Anton Mesmer nel cimitero di Meersburg - Fonte: Wikipedia
Sulla sottilissima linea che per secoli separò la giustezza dell'empirismo da vaghe esternazioni parapsicologiche, Franz Anton Mesmer, medico e filosofo tedesco (Iznang, lago di Costanza, 1734-Meersburg 1815), laureatosi in filosofia e in medicina a Vienna con la tesi Dissertatio physicomedica de planetarum influxum (1776), provò dapprima quali effetti potesse avere sull'organismo l'applicazione del ferro calamitato. 

Mesmer, col proseguire delle sue indagini, si persuase che non dalle calamite, o da altre sostanze calamitate, si sprigionava l'energia magnetica, bensì dal suo stesso organismo e dalle punte delle sue dita.
Scrisse allora la sua opera fondamentale, pubblicata in francese con il titolo Mémoire sur la découverte du magnetisme animal (Memoria sulla scoperta del magnetismo animale, 1779). In base alle sue nuove teorie (mesmerismo), cominciò quindi a magnetizzare direttamente i suoi ammalati, passando lievemente le mani aperte dall'alto in basso sul loro corpo (passi o passaggi magnetici), oppure mettendoli in contatto con sostanze sulle quali aveva effettuato le stesse manovre (Mesmer procedette addirittura a magnetizzazioni collettive caricando del presunto fluido l'acqua contenuta in una tinozza donde uscivano aste di metallo cui si aggrappavano i pazienti sì da riceverne quegli stessi effetti che avrebbero dovuto procurare a loro le mani del magnetizzatore).
Così in tal modo si andò affermando il MAGNETISMO ANIMALE, a sua volta in bilico fra giudizi entusiastici, interpretazioni parascientifiche e disquisizioni parapsicologiche: le osservazioni di Mesmer procedevano senza dubbio dalla buona fede, da particolari fondamenti di verità, a lui stesso forse neppur del tutto chiari, ma furono certamente demotivate dallo sviluppo di un'incontrollabile moda "scientifica" cui, per arricchirsi, presero ad ispirarsi guaritori sinceramente convinti, astuti imbonitori e personaggi non privi di carisma psicologico ma sempre operanti al limite del lecito, come lo stesso Giuseppe Balsamo, meglio noto qual Conte di Cagliostro.
Al giorno d'oggi è pressochè assodato che i vari fenomeni connessi al mesmerismo (tra cui si annoverarono crisi di vario genere, violenti stati emotivi - molto diffusi soprattutto fra le donne - e parimenti inspiegabili guarigioni) dipendevano da una concausa di interferenze tra cui l'ascendenza del magnetizzatore, la specificità delle tecniche usate ed ancora la peculiarità degli ambienti in cui avvenivano le sperimentazioni.
Mesmer osteggiato, anche per indubbia invidia avverso alcuni suoi "successi", dalle accademie scientifiche e in particolare dalla facoltà di medicina, nel 1778 si era già dovuto trasferire a Parigi, ove divenne rapidamente il centro dell'attenzione generale trovando numerosi seguaci non sempre onesti e convinti quanto era lui. Col tempo però anche a Parigi, come già a Vienna, la scienza ufficiale gli si schierò contro e le inchieste accademiche gli furono contrarie: decise quindi nel 1793 di abbandonare anche il suolo francese, finché dopo tante peregrinazioni cercò oblio e riposo nella terra natia, trascorrendovi operosamente, nell'aiuto disinteressato del prossimo, l'ultima parte della sua vita.
La "scuola di Mesmer" continuò tuttavia a far proseliti, nonostante le opposizioni accademiche, e purtroppo, come accennato già, nella sua pratica si alternarono ogni sorta di individui, da seguaci rigorosi a fantasiosi imbroglioni: mentre era oggetto di amori sviscerati e di feroci contestazioni, il mesmerismo, proprio per l'implicito fascino esoterico e magico, finì con influenzare il costume, le leggende, la stessa letteratura (basta ricordare, fra i Racconti di E.A. Poe il celebre "Caso del Signor Valdemar", tutto costruito su un'esasperazione paradossale e comunque ultraterrena, delle potenzialità estreme del mesmerismo. Giacomo Leopardi, peraltro, nel suo Zibaldone [4189, Bologna 28 Luglio 1826] fece cenno al mesmerismo senza alcuna ironia, ma come una nuova imperscrutabile frontiera della conoscenza, un ulteriore segnale di quanto ancora limitate fossero le conoscenze scientifiche dell'uomo:"....Oggi, con molta ragione, i veri filosofi, all'udir fatti incredibili, sospendono il loro giudizio, senza osar di pronunziare della loro impossibilità. Così accadde per esempio nel Mesmerismo, che tempo addietro ogni filosofo avrebbe rigettato come assurdo, senz'altro esame, come contrario alle leggi della natura. Oggi si sa abbastanza generalmente che le leggi della natura non si sanno...").
Il fatto più grave fu però dovuto al veloce passaggio di questa pratica "medica" nella sfera dell'occultismo e quindi, oltre le dimensioni della "medicina alternativa" o del tollerabile fenomeno salottiero, nel variegato campo dei "fenomeni di baraccone" gestiti dai mercanti di meraviglie cioè da quegli "pseudomaghi" (già perseguiti dall'Inquisizione ecclesiastica e laica) che a poco prezzo ostentavano ad un pubblico di "bocca buona" , in tendoni impiantati alla meglio sulle pubbliche piazze, esperimenti da saltimbanchi a volte anche molto pericolosi.
Mediamente questi squallidi seguaci del magnetismo animale si servivano della collaborazione di qualche poveraccia, a volte di qualche prostituta ammalata o vecchia ed ormai disposta a tutto pur di "sbarcare il lunario": poiché la suggestione non mancò di lasciare traccia su alcune collaboratrici lasciate sgomente e col cervello in rivolta da sperimentazioni prive d'alcun criterio, l'attenzione accademica e scientifica finì per ottenere la collaborazione della legge, allo scopo d'evitare certi incontrollati abusi. Così nel 1840 le autorità mediche vennero chiamate a giudicare in maniera definitiva la legittimità del procedimento mesmerico e nel 1840 si pronunciarono in modo tanto chiaro quanto negativo, non riconoscendogli alcuna validità terapeutica nè scientifica, negando l'esistenza del presunto fluido e precisando piuttosto che su soggetti deboli ed ignari, come soprattutto erano le Donne "per costituzione biologica e psichica maggiormente suggestionabili", la pratica potesse avere conseguenze negative se non funeste (gli scritti di Mesmer si leggono comunque acora oggi, per esempio in Le magnetisme animal, Parigi 1971 ).
Contestualmente anche la Chiesa affrontò la questione riprendendo le energie sopite del Santo Ufficio e soprattutto, sulla scia delle conclusioni mediche, giustificando il suo intervento quale uno sforzo morale contro quegli "avvelenatori" della mente - come i magnetizzatori - che soprattutto operavano sulle Donne, specie se giovani e graziose, in modo da perpetrare - seppur in forma modernissima - ora la fascinazione ora un maleficio d'asservimento onde piegarle ai desideri della propria libidine (cosa imputata allo stesso Cagliostro, stanco epigono del mesmerismo) o che opravano, in guisa di ruffiani, per assoggettarle ad altrui voleri, non escluse le forze diaboliche.
Senza dubbio, col concorso della scienza, la Chiesa ottocentesca riaprì inaspettatamente una pagina inquisitoriale su argomenti stregoneschi e una volta di più richiamò, da una postazione sempre misogina ed antifemminista, la pubblica attenzione sulla fragilità storica della Donna, vittima facile delle persuasioni occulte e, quindi, in modo per certi aspetti nuovi, relegata ancora entro la sua dimensione storica di Diversa: una Diversità magari nascosta sotto l'ambiguità paternalistica della Tutela istituzionale ma comunque sempre e comunque una Diversità.
Fenomeno che costituiva un modo, diverso nella forma ma costante nella sostanza, di mantenere in vita il solito discorso capzioso sulla fragilità femminile e di conseguenza sulla necessità per ogni Donna d'essere difesa, e quindi controllata, dalle Istituzioni - di qualunque forma e tipo - per non cadere vittima di quelle forme di Diversità che nella morale del tempo erano sempre e comunque espressioni di Perversione.
Per intendere questo basta leggere la petizione ufficiale del consorzio ecclesiastico al Sacro Palazzo romano per avere una sanzione definitiva del Mesmerismo: in modo esplicito con le prime parole e, poi più nascostamente ma pur sempre abbastanza bene tra le righe, si individua la valutazione riduttiva della Donna, la sua facilità ad esser "preda" per intrinseca debolezza (ma questo lo si deve leggere fra le righe!) e quindi quel suo particolare stato di "Diversa".
La richiesta di un intervento apostolico ed inquisitoriale, quasi immediatamente concesso, venne pubblicata, adespota, col titolo Sul magnetismo animale in Roma nel 1841 ad opera della Tipografia della S.C. De Propaganda Fide...

da Cultura-Barocca

mercoledì 2 gennaio 2019

Lattanzio, “il Cicerone cristiano”

Fonte: Wikipedia
Maggiore apologeta cristiano dopo Tertulliano, definito “il Cicerone cristiano” da Pico della Mirandola e dagli Umanisti per l'eleganza e l'armoniosità del suo stile, Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio nacque in Africa intorno alla metà del III secolo d.C. o poco dopo.
Fu allievo di Arnobio, il celebre retore di Sicca Veneria, in Numidia, che si era convertito al Cristianesmo non più giovane, e come il maestro accosta ad una profonda conoscenza della cultura classica uno spirito confuso dal punto di vista dottrinale ma proteso verso la figura di Cristo.
Sulle orme del suo maestro, Lattanzio divenne retore insigne.
Per la sua fama, verso il 290 d.C. fu chiamato da Diocleziano a Nicomedia di Bitinia, la città che l'imperatore riformatore aveva eletto capitale dell'oriente e sua residenza, per insegnare retorica latina.
Sembra che non avesse tanta fortuna, dato che in oriente il latino era parlato come lingua ufficiale, ma non particolarmente coltivato.
Purtroppo, nulla ci rimane della sua produzione di questo periodo antecedente alla sua conversione, nella quale però sappiamo che figuravano un Symposion, sui temi di discussione conviviali, l'Odoiporicon, racconto in esametri del viaggio da Cartagine a Nicomedia, il Grammaticus, trattato erudito.
Non sappiamo quando si convertì al Cristianesimo, forse in occasione delle prime persecuzioni ordinate da Diocleziano, ma nel 303 d.C., allo scoppio della più violenta persecuzione di Diocleziano, la conversione era già avvenuta, poichè dovette rinunciare alla cattedra di Nicomedia.
Ridotto in gravi ristrettezze, verso il 306 d.C. per nascondersi dovette anche abbandonare la Bitinia.
Vi fece ritorno cinque anni dopo, forse in seguito all'editto di tolleranza di Galerio del 311 d.C., che anticipava di un paio d'anni il famoso editto di Milano di Costantino.
Al periodo della persecuzione del 303 - 304 d.C., risale la prima opera posteriore alla conversione, il trattato De opificio Dei, nel quale Lattanzio illustra l'operato provvidenziale del Creatore attraverso la struttura e le funzioni del corpo umano.
Se il tema della Divina Provvidenza era in funzione della polemica contro l'epicureismo, nonostante i dogmi di fede non abbiano gran parte nel rappresentare la bellezza del creato, nell'opera si rintracciano anche elementi di distacco dal maestro Arnobio nell'apertura alla ragione e all'umana grandezza.
Ma l'opera principale di Lattanzio sono le Divinae institutiones, in sette libri; egli stesso la sentì come tale, tanto che ne curò anche una Epitome, in cui aggiunse qualche precisazione. Scritte nel 313 d.C. e dedicate a Costantino, il principe dell'apertura alla vera fede, più che un'apologia, che non serviva più essendo ormai il trionfo del Cristianesimo assicurato, sono una introduzione alla dottrina cristiana, una fervida testimonianza di fede nel Cristo.
Il titolo stesso richiama alle opere di istruzione destinate al vasto pubblico, ma avverte che l'intento precettistico riguarda qui l'insegnamento divino.
Dopo aver confutato nei primi due libri il paganesimo, l'idolatria, la superstizione e le sue contraddizioni, i libri restanti trattano della ricerca della vera sapienza e degli errori della falsa sapienza, fino ad arrivare a Dio, a Cristo, alla Chiesa, al culto e all'immortalità dell'anima.
Tre sono le virtù centrali nel cristiano delle Institutiones: la iustitia, cioè l'essere nel giusto, la religio, che conduce alla vera sapienza, e la virtus, cioè la forza morale, l'esercizio eroico delle virtù che permette di resistere al male e fare il bene.
Scarsi sono i riferimenti alla Sacra Scrittura, poichè Lattanzio intende dimostrare la superiorità del Cristianesimo usando le armi dei pagani, cioè la filosofia.
In questo si distacca ancora una volta da Arnobio: non solo la filosofia e la sapienza classica non sono ripudiate, ma anzi sono gli strumenti con i quali ci si può avvicinare alla vera fede.
Inoltre, l'istruzione classica è necessaria per poter sostenere nel contraddittorio e spiegare con chiarezza di argomenti e d'eloquenza la rivelazione divina e la dottrina.
In questo senso, Lattanzio non manca di lamentarsi che gli scrittori cristiani siano stati fino allora generalmente troppo incolti e non in grado di misurarsi con il pubblico pagano istruito.
Anche Lattanzio, come Arnobio, non manca di errori dottrinali.
Forse il più eclatante è il millenarismo contenuto nel settimo libro delle Institutiones, cioè la difesa della tesi secondo la quale il Cristo, dopo il suo ritorno sulla terra, instaurerà un regno per gli uomini che avranno creduto in lui che durerà mille anni, una sorta di età dell'oro simile a quella che i pagani ponevano invece all'origine del mondo, e al termine del quale i malvagi saranno condannati in terno, mentre i buoni godranno della felicità senza fine del regno celeste.
Manifesta anche una certa confusione dogmatica; sembra ad esempio che tendesse ad identificare lo Spirito Santo ora con una ora con l'altra delle altre due Persone della Trinità e non come Persona a se stante.
Subito dopo le Institutiones, probabilmente sempre nel 313 d.C., Lattanzio scrive il De ira Dei.
Contro l'epicureismo che sosteneva l'indifferenza degli dèi alle vicende umane, egli riprende il concetto di giustizia: Dio, in quanto somma giustizia, non solo non si disinteressa del mondo, ma interviene nel mondo manifestando, se necessario, anche la sua terribile ira.
Sullo stesso argomento si inserisce il De mortibus persecutorum, databile al 315 d.C., in cui è raccontata la giusta fine degli imperatori persecutori dei cristiani.
Essi perseguitavano i giusti perchè malvagi ed erano malvagi non solo in quanto persecutori perché la loro empietà si era o si sarebbe manifestata anche altrimenti; dunque l'ira divina, espressione della somma giustizia, ha fatto sì che essi morissero di morte tremenda.
Gregorio di Tours attribuisce a Lattanzio anche il breve poemetto De ave Phoenice, 85 distici elegiaci sulla fenice, l'uccello che risorge dalle proprie ceneri.
Forse si tratta di un componimento giovanile, benchè l'attribuzione sia contestata.
Abbiamo anche notizia di un perduto epistolario, collezione di lettere di diversi periodi.
Nel 316 o nel 317 d.C., mutati i tempi e avviatosi il Cristianesimo alla conquista dell'Impero, Lattanzio andava ad Augusta Treverorum, oggi Treviri in Germania, chiamatovi da Costantino per assumere l'incarico di precettore del figlio maggiore Crispo.
Questa è l'ultima notizia che abbiamo della sua vita.
Forse a Treviri morì, ma non conosciamo la data della sua morte, avvenuta verosimilmente una quindicina d'anni più tardi.

da Cultura-Barocca