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Maggiore apologeta cristiano dopo Tertulliano, definito “il Cicerone cristiano” da Pico della Mirandola e dagli Umanisti per l'eleganza e l'armoniosità del suo stile, Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio nacque in Africa intorno alla metà del III secolo d.C. o poco dopo.
Fu allievo di Arnobio, il celebre retore di Sicca Veneria, in Numidia, che si era convertito al Cristianesmo non più giovane, e come il maestro accosta ad una profonda conoscenza della cultura classica uno spirito confuso dal punto di vista dottrinale ma proteso verso la figura di Cristo.
Sulle orme del suo maestro, Lattanzio divenne retore insigne.
Per la sua fama, verso il 290 d.C. fu chiamato da Diocleziano a Nicomedia di Bitinia, la città che l'imperatore riformatore aveva eletto capitale dell'oriente e sua residenza, per insegnare retorica latina.
Sembra che non avesse tanta fortuna, dato che in oriente il latino era parlato come lingua ufficiale, ma non particolarmente coltivato.
Purtroppo, nulla ci rimane della sua produzione di questo periodo antecedente alla sua conversione, nella quale però sappiamo che figuravano un Symposion, sui temi di discussione conviviali, l'Odoiporicon, racconto in esametri del viaggio da Cartagine a Nicomedia, il Grammaticus, trattato erudito.
Non sappiamo quando si convertì al Cristianesimo, forse in occasione delle prime persecuzioni ordinate da Diocleziano, ma nel 303 d.C., allo scoppio della più violenta persecuzione di Diocleziano, la conversione era già avvenuta, poichè dovette rinunciare alla cattedra di Nicomedia.
Ridotto in gravi ristrettezze, verso il 306 d.C. per nascondersi dovette anche abbandonare la Bitinia.
Vi fece ritorno cinque anni dopo, forse in seguito all'editto di tolleranza di Galerio del 311 d.C., che anticipava di un paio d'anni il famoso editto di Milano di Costantino.
Al periodo della persecuzione del 303 - 304 d.C., risale la prima opera posteriore alla conversione, il trattato De opificio Dei, nel quale Lattanzio illustra l'operato provvidenziale del Creatore attraverso la struttura e le funzioni del corpo umano.
Se il tema della Divina Provvidenza era in funzione della polemica contro l'epicureismo, nonostante i dogmi di fede non abbiano gran parte nel rappresentare la bellezza del creato, nell'opera si rintracciano anche elementi di distacco dal maestro Arnobio nell'apertura alla ragione e all'umana grandezza.
Ma l'opera principale di Lattanzio sono le Divinae institutiones, in sette libri; egli stesso la sentì come tale, tanto che ne curò anche una Epitome, in cui aggiunse qualche precisazione. Scritte nel 313 d.C. e dedicate a Costantino, il principe dell'apertura alla vera fede, più che un'apologia, che non serviva più essendo ormai il trionfo del Cristianesimo assicurato, sono una introduzione alla dottrina cristiana, una fervida testimonianza di fede nel Cristo.
Il titolo stesso richiama alle opere di istruzione destinate al vasto pubblico, ma avverte che l'intento precettistico riguarda qui l'insegnamento divino.
Dopo aver confutato nei primi due libri il paganesimo, l'idolatria, la superstizione e le sue contraddizioni, i libri restanti trattano della ricerca della vera sapienza e degli errori della falsa sapienza, fino ad arrivare a Dio, a Cristo, alla Chiesa, al culto e all'immortalità dell'anima.
Tre sono le virtù centrali nel cristiano delle Institutiones: la iustitia, cioè l'essere nel giusto, la religio, che conduce alla vera sapienza, e la virtus, cioè la forza morale, l'esercizio eroico delle virtù che permette di resistere al male e fare il bene.
Scarsi sono i riferimenti alla Sacra Scrittura, poichè Lattanzio intende dimostrare la superiorità del Cristianesimo usando le armi dei pagani, cioè la filosofia.
In questo si distacca ancora una volta da Arnobio: non solo la filosofia e la sapienza classica non sono ripudiate, ma anzi sono gli strumenti con i quali ci si può avvicinare alla vera fede.
Inoltre, l'istruzione classica è necessaria per poter sostenere nel contraddittorio e spiegare con chiarezza di argomenti e d'eloquenza la rivelazione divina e la dottrina.
In questo senso, Lattanzio non manca di lamentarsi che gli scrittori cristiani siano stati fino allora generalmente troppo incolti e non in grado di misurarsi con il pubblico pagano istruito.
Anche Lattanzio, come Arnobio, non manca di errori dottrinali.
Forse il più eclatante è il millenarismo contenuto nel settimo libro delle Institutiones, cioè la difesa della tesi secondo la quale il Cristo, dopo il suo ritorno sulla terra, instaurerà un regno per gli uomini che avranno creduto in lui che durerà mille anni, una sorta di età dell'oro simile a quella che i pagani ponevano invece all'origine del mondo, e al termine del quale i malvagi saranno condannati in terno, mentre i buoni godranno della felicità senza fine del regno celeste.
Manifesta anche una certa confusione dogmatica; sembra ad esempio che tendesse ad identificare lo Spirito Santo ora con una ora con l'altra delle altre due Persone della Trinità e non come Persona a se stante.
Subito dopo le Institutiones, probabilmente sempre nel 313 d.C., Lattanzio scrive il De ira Dei.
Contro l'epicureismo che sosteneva l'indifferenza degli dèi alle vicende umane, egli riprende il concetto di giustizia: Dio, in quanto somma giustizia, non solo non si disinteressa del mondo, ma interviene nel mondo manifestando, se necessario, anche la sua terribile ira.
Sullo stesso argomento si inserisce il De mortibus persecutorum, databile al 315 d.C., in cui è raccontata la giusta fine degli imperatori persecutori dei cristiani.
Essi perseguitavano i giusti perchè malvagi ed erano malvagi non solo in quanto persecutori perché la loro empietà si era o si sarebbe manifestata anche altrimenti; dunque l'ira divina, espressione della somma giustizia, ha fatto sì che essi morissero di morte tremenda.
Gregorio di Tours attribuisce a Lattanzio anche il breve poemetto De ave Phoenice, 85 distici elegiaci sulla fenice, l'uccello che risorge dalle proprie ceneri.
Forse si tratta di un componimento giovanile, benchè l'attribuzione sia contestata.
Abbiamo anche notizia di un perduto epistolario, collezione di lettere di diversi periodi.
Nel 316 o nel 317 d.C., mutati i tempi e avviatosi il Cristianesimo alla conquista dell'Impero, Lattanzio andava ad Augusta Treverorum, oggi Treviri in Germania, chiamatovi da Costantino per assumere l'incarico di precettore del figlio maggiore Crispo.
Questa è l'ultima notizia che abbiamo della sua vita.
Forse a Treviri morì, ma non conosciamo la data della sua morte, avvenuta verosimilmente una quindicina d'anni più tardi.
Fu allievo di Arnobio, il celebre retore di Sicca Veneria, in Numidia, che si era convertito al Cristianesmo non più giovane, e come il maestro accosta ad una profonda conoscenza della cultura classica uno spirito confuso dal punto di vista dottrinale ma proteso verso la figura di Cristo.
Sulle orme del suo maestro, Lattanzio divenne retore insigne.
Per la sua fama, verso il 290 d.C. fu chiamato da Diocleziano a Nicomedia di Bitinia, la città che l'imperatore riformatore aveva eletto capitale dell'oriente e sua residenza, per insegnare retorica latina.
Sembra che non avesse tanta fortuna, dato che in oriente il latino era parlato come lingua ufficiale, ma non particolarmente coltivato.
Purtroppo, nulla ci rimane della sua produzione di questo periodo antecedente alla sua conversione, nella quale però sappiamo che figuravano un Symposion, sui temi di discussione conviviali, l'Odoiporicon, racconto in esametri del viaggio da Cartagine a Nicomedia, il Grammaticus, trattato erudito.
Non sappiamo quando si convertì al Cristianesimo, forse in occasione delle prime persecuzioni ordinate da Diocleziano, ma nel 303 d.C., allo scoppio della più violenta persecuzione di Diocleziano, la conversione era già avvenuta, poichè dovette rinunciare alla cattedra di Nicomedia.
Ridotto in gravi ristrettezze, verso il 306 d.C. per nascondersi dovette anche abbandonare la Bitinia.
Vi fece ritorno cinque anni dopo, forse in seguito all'editto di tolleranza di Galerio del 311 d.C., che anticipava di un paio d'anni il famoso editto di Milano di Costantino.
Al periodo della persecuzione del 303 - 304 d.C., risale la prima opera posteriore alla conversione, il trattato De opificio Dei, nel quale Lattanzio illustra l'operato provvidenziale del Creatore attraverso la struttura e le funzioni del corpo umano.
Se il tema della Divina Provvidenza era in funzione della polemica contro l'epicureismo, nonostante i dogmi di fede non abbiano gran parte nel rappresentare la bellezza del creato, nell'opera si rintracciano anche elementi di distacco dal maestro Arnobio nell'apertura alla ragione e all'umana grandezza.
Ma l'opera principale di Lattanzio sono le Divinae institutiones, in sette libri; egli stesso la sentì come tale, tanto che ne curò anche una Epitome, in cui aggiunse qualche precisazione. Scritte nel 313 d.C. e dedicate a Costantino, il principe dell'apertura alla vera fede, più che un'apologia, che non serviva più essendo ormai il trionfo del Cristianesimo assicurato, sono una introduzione alla dottrina cristiana, una fervida testimonianza di fede nel Cristo.
Il titolo stesso richiama alle opere di istruzione destinate al vasto pubblico, ma avverte che l'intento precettistico riguarda qui l'insegnamento divino.
Dopo aver confutato nei primi due libri il paganesimo, l'idolatria, la superstizione e le sue contraddizioni, i libri restanti trattano della ricerca della vera sapienza e degli errori della falsa sapienza, fino ad arrivare a Dio, a Cristo, alla Chiesa, al culto e all'immortalità dell'anima.
Tre sono le virtù centrali nel cristiano delle Institutiones: la iustitia, cioè l'essere nel giusto, la religio, che conduce alla vera sapienza, e la virtus, cioè la forza morale, l'esercizio eroico delle virtù che permette di resistere al male e fare il bene.
Scarsi sono i riferimenti alla Sacra Scrittura, poichè Lattanzio intende dimostrare la superiorità del Cristianesimo usando le armi dei pagani, cioè la filosofia.
In questo si distacca ancora una volta da Arnobio: non solo la filosofia e la sapienza classica non sono ripudiate, ma anzi sono gli strumenti con i quali ci si può avvicinare alla vera fede.
Inoltre, l'istruzione classica è necessaria per poter sostenere nel contraddittorio e spiegare con chiarezza di argomenti e d'eloquenza la rivelazione divina e la dottrina.
In questo senso, Lattanzio non manca di lamentarsi che gli scrittori cristiani siano stati fino allora generalmente troppo incolti e non in grado di misurarsi con il pubblico pagano istruito.
Anche Lattanzio, come Arnobio, non manca di errori dottrinali.
Forse il più eclatante è il millenarismo contenuto nel settimo libro delle Institutiones, cioè la difesa della tesi secondo la quale il Cristo, dopo il suo ritorno sulla terra, instaurerà un regno per gli uomini che avranno creduto in lui che durerà mille anni, una sorta di età dell'oro simile a quella che i pagani ponevano invece all'origine del mondo, e al termine del quale i malvagi saranno condannati in terno, mentre i buoni godranno della felicità senza fine del regno celeste.
Manifesta anche una certa confusione dogmatica; sembra ad esempio che tendesse ad identificare lo Spirito Santo ora con una ora con l'altra delle altre due Persone della Trinità e non come Persona a se stante.
Subito dopo le Institutiones, probabilmente sempre nel 313 d.C., Lattanzio scrive il De ira Dei.
Contro l'epicureismo che sosteneva l'indifferenza degli dèi alle vicende umane, egli riprende il concetto di giustizia: Dio, in quanto somma giustizia, non solo non si disinteressa del mondo, ma interviene nel mondo manifestando, se necessario, anche la sua terribile ira.
Sullo stesso argomento si inserisce il De mortibus persecutorum, databile al 315 d.C., in cui è raccontata la giusta fine degli imperatori persecutori dei cristiani.
Essi perseguitavano i giusti perchè malvagi ed erano malvagi non solo in quanto persecutori perché la loro empietà si era o si sarebbe manifestata anche altrimenti; dunque l'ira divina, espressione della somma giustizia, ha fatto sì che essi morissero di morte tremenda.
Gregorio di Tours attribuisce a Lattanzio anche il breve poemetto De ave Phoenice, 85 distici elegiaci sulla fenice, l'uccello che risorge dalle proprie ceneri.
Forse si tratta di un componimento giovanile, benchè l'attribuzione sia contestata.
Abbiamo anche notizia di un perduto epistolario, collezione di lettere di diversi periodi.
Nel 316 o nel 317 d.C., mutati i tempi e avviatosi il Cristianesimo alla conquista dell'Impero, Lattanzio andava ad Augusta Treverorum, oggi Treviri in Germania, chiamatovi da Costantino per assumere l'incarico di precettore del figlio maggiore Crispo.
Questa è l'ultima notizia che abbiamo della sua vita.
Forse a Treviri morì, ma non conosciamo la data della sua morte, avvenuta verosimilmente una quindicina d'anni più tardi.
da Cultura-Barocca