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sabato 25 febbraio 2017

San Nicola di Bari

Affresco medievale raffigurante San Nicola dalla Chiesa di Bojana, presso Sofia (Bulgaria) - Fonte: Wikipedia
Michele Archimandrita ricorda che, sin dal momento della sepoltura di Nicola a Myra, dal corpo del Santo cominciò a sgorgare oleum, che era una salutare e vivifica medicina che liberava da ogni potenza avversa e maligna.
L’espressione di Michele Archimandrita per la manna è myron, che corrisponde alla mirra dei Vangeli, e che ormai aveva acquisito il senso corrente di olio o unguento odoroso.
L’aggettivo edypnoon convoglia il senso dello spirare, emanare odore «pneo» e la connotazione del soave e del piacevole edys
Teodoro Studita (+ 826) fece riferimento nel suo inno al prodigio della manna, senza però apportare elementi nuovi rispetto a Michele Archimandrita.
Contemporaneamente acquistava grande notorietà l’inno dello Pseudo-Romano In Myra, o Santo che contiene due richiami alla manna.
L’autore chiede al Signore di poter proclamare le magnificenze di Colui che a Myra / abitò e un myron divino / fece sgorgare come fiume / dalla sua anima/ che riempie di profumo / tutti gli ammalati / nell’anima per 1’olezzo / di gravi peccati (strofa 9). E conclude (strofa 25): Tutto quanto nel mio cuore / e fetido / profumalo tu con il myron / delle tue preghiere.
Anche Giuseppe Innografo fu sensibile a questo aspetto del culto di S. Nicola.
Nell’ode IX di un canone in suo onore, cosi si esprime:
Il tuo sacro corpo
che santamente a Myra riposa,
emana profumato myron in continuità,
cospargendo coloro che si avvicinano,
e il cattivo olezzo delle passioni
scaccia, o Nicola,
e la schiera dei demoni
mette in fuga

Verso la fine del IX secolo e agli inizi del X i riferimenti alla manna miracolosa divengono più frequenti.
Ne parlano ad esempio, Niceta di Paflagonia (885 c.), il Sinassario costantinopolitano (900 c.), la Vita Compilata (900 c.) e l’anonimo autore dell’encomio Mnème dikaìou (920 c.).
Qualche decennio dopo, ad opera di Giovanni di Amalfi (950-960) questo particolare aspetto del culto nicolaiano penetra anche in Occidente.
A lui sembra risalire la narrazione intorno al vescovo di Myra Magnenzio, collegata appunto al fenomeno della manna, e che fu ripresa da molti ignoti «continuatori» di Giovanni Diacono (talvolta senza fare il nome del suddetto vescovo).
Una di questa aggiunte dice cosi: Chi mai, dico, possiede una tale eloquenza da poter con facilità descrivere in qual modo trasudi dalla sua marmorea tomba la santa manna, che vigili custodi raccolgono con una paletta, per conservarla con la massima cura, quale unguento assai benefico a molteplici mali?
A tal proposito vi riferisco, affidandolo alla vostra carità, ciò che ho saputo da alcuni Greci con una narrazione degna di fede. Costoro pero dichiararono di aver appreso questo fatto dal racconto di certi abitanti di Myra. Comunque, sia che la cosa stia altrimenti sia che contenga del vero, bisogna affidarsi all’opinione di coloro che l’hanno narrata. In una certa epoca dunque, alcuni uomini potenti della città di Myra, mossi da invidia e faziosità, osarono da svergognati scacciare il vescovo di quella diocesi. Immediatamente il flusso della manna tanto salutare si interruppe.
E non appena il predetto vescovo ricupero la sua cattedra, subito il benefico liquido ricominciò a stillare nel modo solito. Mirabile è davvero Dio nei suoi santi! Tanto invero usa glorificare i suoi servi, da far diffondere la loro fama in ogni terra. Ma quale fama? Certo, la musica della vittoria e del trionfo: mentre ai loro devoti non rifiutano dal cielo il richiesto patrocinio, si mostrano, coronati dell’eterno diadema, vittoriosi sul principe di questo mondo
.
Un altro copista vi appose una diversa appendice, pubblicata dal Falcone, che appare decisamente più vivace dei testi sin qui riportati, poiché testimonia del potere taumaturgico di questo liquido sgorgante dalla tomba del santo a Myra.
Il concetto della manna è collegato a quello del movimento dei pellegrini che si recavano a Myra e venivano guariti:
Fu reposto il suo sacratissimo corpo nella gloriosa casa della Santa Sion, in un luogo elevato alla destra dell’aula della stessa: degno davvero della sepoltura di un tanto sacerdote. Dal quale sepolcro, come noi stessi avemmo modo di osservare, scaturiscono due rivoli che sino ad oggi non cessano di sgorgare. Dalla fonte che cor- risponde al luogo della testa del sacro tumulo, fluisce un liquido oleoso e chiaro che sembra apportare benefici a coloro che si ungono con esso. Dal rivolo che profluisce in corrispondenza dei piedi esce un’acqua soave e trasparente che, se data da bere agli infermi, questi riacquistano la salute del corpo. (...) Dopo che il beato Nicola, lasciando questo mondo, migrò al Signore, la tomba in cui il suo venerabile corpo fu reposto, non smise mai di stillare fino ad oggi un liquido oleoso. Ivi si recavano folle di malati, ciechi, paralitici, sordi e muti, e quanti erano oppressi da spiriti immondi. Una volta unti col sacro liquido tornavano al loro pristino stato di salute. Io stesso, trovandomi in uno stato miserando, per due volte presi una pozione di quella linfa, mentre accanto alla tomba invocavo Nicola di intercedere per me presso il Signore. La casa della Santa Sion dove quel confessore riposa è a circa tre miglia di distanza dalle mura della città di Myra sul lato orientale della strada che conduce al porto di Andriake.
Questo testo è molto interessante per la testimonianza dei pellegrinaggi a Myra.
È uno stimolo alla riflessione anche per la precisazione geografica ivi contenuta, cioè l’ubicazione del monastero (domus) della Santa Sion a tre miglia da Myra verso Andriake.
Dato che il narratore sembra esserci stato di persona a Myra, la prima domanda che sorge è sull’integrità del testo (proprio in quella parte che il Falcone mette in corsivo).
Se si ammettono contemporaneamente l’autenticità del testo e la veridicità del narratore viene spontaneo un confronto fra quanto detto qui e i testi anteriori al X secolo.
Questi ultimi, anche dove più lo richiedeva l’argomento, tacciono completamente sulla santa Sion e sulla sua vicinanza ad Andriake.
D’altra parte la stessa vita di Nicola Sionita, distingue senza possibilità di dubbio fra il santuario di S. Nicola e la domus della Santa Sion.
E Michele Archimandrita, parlando della sepoltura di S. Nicola e della santa manna, non fa menzione della santa Sion.
Tutti dati, questi, che messi assieme mettono in crisi l’affermazione dell’anonimo continuatore di Giovanni Diacono, il cui testo non sembra autentico perché un testimone oculare non poteva ubicare a tre miglia da Myra il monastero della santa Sion in direzione di Andriake, ben sapendo che Andriake era a tre miglia da Myra (e quindi il monastero avrebbe dovuto trovarsi sul porto).
E se la santa Sion si trovava ad Andriake, quindi proprio nel porto di Myra, come mai il monaco Nicola, per andare a Gerusalemme si recò a Myra?
Non era più semplice chiedere le informazioni al porto?
E, inoltre, come mai per recarsi al monastero Nicola voleva sbarcare al «Fenicio» e solo come seconda possibilità ad Andriake (cap 37)?
E se il monastero della santa Sion fosse stato presso Andriake, come il biografo di Nicola Sionita, partendo dal monastero, avrebbe potuto dire: «Per volontà di Dio giungemmo nel porto chiamato Andriake»?
Queste considerazioni escludono quindi che la santa Sion si trovasse tra Myra e Andriake. Se il piccolo porto di Fenicio corrisponde all’attuale Finike, si deve dire che il monastero della Santa Sion si trovava a nord est di Myra.
La Vita Nicolai Sionitae specifica che era su un monte, presso il villaggio di Traglassi. In ogni caso la confusione tra il martyrion di S. Nicola e il monastero della Santa Sion non è poi cosi strana se si considera che quello era il tempo in cui era stata appena compiuta la fusione dei due Nicola.
L’identificazione dell’antico martyrion (trasformato in chiesa e monastero bizantino) con la domus della santa Sion dovette apparire naturale ai Myresi stessi, se questi non fecero sentire la loro voce discordante al momento dell’identificazione dei due Nicola.
Questa identificazione delle due personalità fu consacrata, come si è visto, dal più grande agiografo bizantino, Simeone Metafraste (980 c.), che a proposito della manna si espresse con notevole sobrietà: Ivi scorre un balsamo, anche ai nostri giorni, rimedio ai mali dell’anima e del corpo.
Il fenomeno della manna fu presto conosciuto in Germania.
Otloh, nella Vita IV, parla a due riprese della manna.
Dopo aver narrato la morte del Santo ( §15) e accennato ai miracoli presso la sua tomba, aggiunge: Infatti dalla sua tomba scaturisce un olio la cui natura è simile a quella della luce, di modo che grazie a questo segno vengono illuminate le opere del passato e sono comprovate quelle future, poiché sana tutti gli infermi.
Successivamente ( §16) riprende l’episodio del vescovo di Myra ingiustamente espulso con la conseguente interruzione del rivolo della manna (sacri liquoris stillicidia).
Nello stesso periodo anche gli innografi greci dell’Italia meridionale cantarono questo prodigio. S. Bartolomeo Junione (981-1055), ad esempio, nell’ode IV del suo canone in onore di S. Nicola, scriveva:
Essendo tu profumato
dell’unguento delle virtù, o beatissimo,
degnamente ricevesti da Dio il governo della città dei Myresi,
ed ivi stabilendoti
profumasti il mondo intero
con la fragranza dei tuoi miracoli.
Ed ora versando unguento
dalla tua tomba emanante profumo,
profumi anche noi
.
Il culto di S. Nicola dunque era già diffusissimo prima della traslazione delle sue reliquie a Bari.
Già prima di questo evento aveva raggiunto per esempio l’Inghilterra e la Russia, e circa l’epoca della traslazione si può dire che non ci fosse nazione in Europa (compresa l’Islanda) che non avesse qualche chiesa in suo onore.
Per quanto riguarda l’Italia è interessante il passo di uno dei continuatori della Vita di Giovani Diacono, che scriveva verso il 950:
A poco a poco tanto la sua fama si diffuse tra i barbari, da essere continuamente venerato anche da coloro che non sono battezzati. Crediamo che nel mondo intero non esiste nessun luogo tanto remoto, tanto nascosto e tanto inaccessibile come un eremo, al quale non siano noti i miracoli e la fama del nostro signore Nicola, piissimo confessore. Di ciò sono testimoni non solo tutte le regioni abitate dai Greci, dalle quali e tramandato che abbia tratto origine, ma anche l’intero impero d’Oriente.
Ne sono testimoni anche le molteplici popolazioni barbariche, parlanti lingue diverse, che abitano in quasi tutta l’Africa e che devotamente gli tributano un pio culto. Gli abitanti poi dell’Italia, allietati frequentemente dai suoi miracoli, si sono abituati prontamente, nonostante che abbiano cominciato solo ai nostri giorni, a celebrare solennemente e devotamente la sua festa. Con l’aiuto di Dio, hanno ottenuto di costruire in suo onore e di dedicargli moltissime chiese, per averlo in questa vita come patrono e avvocato e, nell’altra, come intercessore dinanzi al Creatore
.
Cosi dopo un inizio incerto, e limitato pressoché alla Licia, nel VI secolo il culto di Nicola era giunto a Costantinopoli.
Nel VII era giunto a Roma, ed anche a Gerusalemme e in Georgia (come sembra indicare il calendario palestino georgiano).
Nell’VIII la sua figura divenne familiare a tutti coloro che vivevano il dramma del rapimento di un congiunto (a causa delle incursioni arabe).
Nel IX secolo raggiunse il suo punto culminante in Oriente e nel successivo in Occidente.
All’incremento del suo culto, specie nel mondo marinaresco, contribuì la confusione col Nicola Sionita, universalmente accolta non solo per la Vita scritta dal Metafraste, ma anche per le raffigurazioni iconografiche degli episodi della vita dell’uno e dell’altro come riferiti alla stessa persona.

 

sabato 18 febbraio 2017

orandus est ut mens sana sit in corpore sano

Roma, resti del Circo Massimo - Fonte: Wikipedia
E' difficile stabilire con esattezza a qual epoca risalisse l'amore per lo sport dei Romani: di certo è antichissimo.
Si hanno testimonianze concrete che tra l'Aventino e il Palatino, nella zona dove sarebbe più tardi sorto il Circo Massimo, molto presto si disputarono gare di cavalli e di carri, anche le cosiddette corse romane.
Già dalla prima età repubblicana i cives, cioè i cittadini romani, non furono soltanto spettatori ma anche attori e cultori di una sana educazione fisica, curata in particolare perché importante era soprattutto essere buoni cittadini e buoni soldati.
Anche se a Roma la scuola e i ginnasi avevano carattere privatistico, al contrario di quanto avveniva nelle poleis greche, non si può proprio affermare che la vita ricreativa nella vita dei Latini fosse tenuta in minor conto.
Nei confronti dell'attività sportiva sussisteva a Roma una caratteristica diversa, del tutto originale: il CULTO DEL PROFESSIONISMO.
Presente, per la verità, sia pure in forme ridotte anche tra i Greci, specialmente dopo la conquista macedone, soltanto nella Roma imperiale esso dilagò in maniera addirittura preoccupante per certi aspetti. Anche gli antichi Greci ad onor del vero praticavano da tempo forme di atletismo professionale.
Ma in proposito non mancarono voci avverse sin da Galeno che non mancò di criticare le sempre più diffuse forme di professionismo nello sport: professionismo che venne rivalutato solo più tardi ad opera di Filostrato.
Comunque, data anche la loro diversa matrice culturale, i Romani adottarono dai Greci l'aspetto professionale, ludico e spettacolare dello sport: in definitiva, se i germi del professionismo c'erano già stati nella tarda Grecia, a Roma si affermarono trovando una maggior specializzazione che giunse a un distacco completo tra atleti e spettatori.
Fin dal III sec. a. C. si svolgevano a Roma gli spettacoli gladiatorii.
In età repubblicana, da quanto si sa, non contavano quel numero impressionante di spettatori che ritroviamo più avanti, in epoca imperiale.
Furono infatti i Cesari, ovvero gli imperatori, succedutisi via via da Augusto, a offrire al popolo con sempre maggior frequenza tali spettacoli di svago.
I ludi gladiatorii erano interpretati per lo più da una ristretta cerchia di persone, quasi sempre provenienti da classi e ceti subalterni che , scendendo nell'arena, cercavano di emanciparsi dalla loro condizione servile confidando nelle proprie doti fisiche e atletiche.
Non si può dare torto a quegli studiosi come Ullmann che sostenevano che quegli atleti nudi che sapevano affrontare anche la morte in prove pericolose costituivano i modelli in cui una società ormai invecchiata e in declino riconosceva quello che avrebbe voluto essere e si vendicava per quello che non aveva saputo essere.
Un'altra interessante osservazione al riguardo viene da Munford che in Tecnica e civiltà rileva che "lo sport nel senso di uno spettacolo di massa con la morte come stimolante, soggiacente appare quando una popolazione è stata impastoiata, irregimentata e depressa a tale punto che le è necessario partecipare almeno per interposta persona agli atti difficili di forza, abilità o eroismo, al fine di risvegliare il suo diminuito senso della vita".
Non è certo difficile collegare questo alla civiltà romana che, con l'avvento dei Cesari, smarrì il gusto della partecipazione politica.
Sull'estrema incentivazione dell'attività sportiva (anche e forse soprattutto di tipo professionistico) in Roma imperiale, non è possibile eludere il ruolo svolto da NERONE, ultimo esponente della dinastia dei Giulio-Claudi, il quale si adoperò per accentuare in vari modi la spinta all'ellenizzazione della civiltà romana. Sulle prime venne accolta con diffidenza e ostilità, ma poi sarebbe divenuta fatto compiuto specie sotto il principato di Adriano. Dunque, proprio con Nerone, si inserì in maniera organica l'olimpismo greco in Roma. Nel 59 p. C. Nerone infatti lanciò i ludi junilies, quindi l'anno successivo indisse il certamen quinquennale ribattezzato in suo onore Neronia.
Lo stesso imperatore volle suggellare questa sua attività febbrile con un viaggio trionfale in Grecia, nell'autunno del 66, insieme con cinquemila "augustiani", per far ritorno nell'Urbe l'anno seguente senza altro trionfo che quello conseguito nei Giochi panellenici, senza altro bottino che le 1808 corone con solenne rito appese al tempio di Apollo sul Palatino.
Un'idea di quello che potevano essere i ludi e le varie gare allestite da Nerone ci viene efficacemente fornita da Svetonio, lo storico dei Cesari, in un passo della vita di Nerone: "...una novità assoluta per Roma fu l'istituzione da lui voluta, di un certamen quinquennale, con tre ordini di concorsi, secondo il costume greco: musico, ginnico ed equestre, cui diede il nome di ludi neroniani in occasione dell'inaugurazione delle terme e del ginnasio durante la quale offrì olio anche a senatori e cavalieri. Alla guida dei tutto quanto il certamen propose ex consoli tratti a sorte, sedenti al posto dei pretori. Poi (Nerone) scese nell'orchestra, nei posti riservati ai senatori, e per sé prese la corona del concorso di eloquenza e di poesia latina, della quale lo riconobbero meritevole i rappresentanti della migliore nobiltà, che, tutti quanti, avevano gareggiato per conquistarsela; si inchinò con ossequio, invece, alla corona di cetra, che la giuria gli aveva decretato, e la fece deporre ai piedi della statua di Augusto. Durante il concorso ginnico che si teneva nel recinto delle elezioni, tra l'apparato del solenne sacrificio dei buoi, si fece radere per la prima volta la barba e, racchiusa in una pisside d'oro, adorna di preziosissime perle, la consacrò in Campidoglio. Alle gare degli atleti invitò pure le vergini Vestali perché anche in Olimpia la stessa cosa è concessa alle sacerdotesse di Cerere".
Il filosofo Seneca ed il poeta satirico Giovenale diedero più volte testimonianza scritta del personale loro disprezzo per queste forme di spettacolo sportivo professionale che tuttavia risultavano assai gradite al popolo.
Per esempio nella decima satira Giovenale suggeriva che "....orandus est ut mens sana sit in corpore sano" (c'è da augurarsi che una mente venga a trovarsi in un corpo sano):, un verso ripetuto con compiacimento conferma la riprovazione per quanti avevano fatto dell'attività sportiva una professione sottolineando altresì l'apprezzamento per un giusto esercizio fisico.
Pure lo spagnolo Seneca a più riprese rivolgerà le sue critiche a queste nuove costumanze in cui la moralità poteva essere soffocata dall'ambizione di un guadagno effimero basato sull'ostentazione fra l'altro della forza fisica e della violenza: in particolar modo egli soleva consigliare, contro ogni moderna esasperazione e soprattutto la ricerca di lucro determinata dalla scelta del professionismo, la classicissima ricerca di giusto equilibrio tra sanità di corpo e di mente (Epistole, XV, 4-5-6): "[all'amico e discepolo Lucilio scriveva infatti:]...esistono esercizi comodi e agevoli, che rilassano il corpo senza perdita di tempo di cui occorre tenere in giusto conto: cioè la corsa, il getto del peso, il salto in alto e in lungo. Tra essi potrai scegliere quello per te più conveniente o adatto. Qualunque attività svolgerai, pensa al corpo e allo spirito; l'uno e altro si nutrono con poco sforzo. Nemmeno in vecchiaia si dovrà arrestare l'esercizio, un bene questo che con gli anni non potrà che migliorare. Non mi piace restare sempre immerso nei libri o stare troppo in palestra: bisogna dare un po' di riposo all'animo, in maniera che non abbia ad avvilirsi ma a ristorarsi e rinvigorirsi".

da Cultura-Barocca

sabato 11 febbraio 2017

Maltratos de los conquistadores

Nel volume XI (del 1845) della “Raccolta di Viaggi”, apprestata da Francesco Costantino Marmocchi per l'editore Giachetti di Prato, appare, con un’utile premessa del curatore, nella versione italiana di Giacomo Castellani l'opera basilare di las Casas.

Qui, alcune illustrazioni - Maltratos de los conquistadores - di Theodore de Bry pubblicate, appunto,  nella Brevissima relacion de la destruycion de las Indias di Bartolomé de las Casas, 1552.

da Cultura-Barocca

Natale De Comitibus

Fonte: Wikidata
Natale Conti, menzionato alla latina Natale De Comitibus, nacque a Milano nel 1520, studiò a Venezia e fu precettore di Francesco Panigarola, compose per Cosimo de' Medici un poemetto in esametri sulle Ore del giorno e compilò la traduzione di alcuni classici tra cui appunto Athenaei Dipnosophistarum siue Coenae sapientum libri 15.

Le Mythologiae sono però la sua opera più conosciuta che contò numerose riedizioni: dopo la prima, edita da Manuzio nel 1551 e ristampata ancora ai tempi del Conti nel 1568 con dedica a Carlo IX re di Francia e nel 1581 con chiose di Geoffroy Linoicer. Alla Civica Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia (IM) si custodiscono le Natalis Comitis Mythologiae, sive Explicationis fabularum, libri decem: in quibus omnia prope naturalis & moralis philosophiae dogmata contenta fuisse demonstratur ..., Coloniae Allobrogum: Crespin, Samuel, (1612).

Sebbene poco sia noto della vita dell'autore, le dediche costanti a Carlo IX farebbero supporre un suo soggiorno in Francia, ove l'opera ebbe immediata e duratura fortuna (la prima traduzione in francese è del 1604), già nell'ambiente della Pleiade, Ritroviamo così gli dei di Conti ad esempio nell'entrata trionfale di Carlo IX a Parigi del 1572 e nell'incoronazione di Elisabetta d'Austria dello stesso anno.

Rispetto ai mitografi contemporanei, Conti, pur utilizzando fonti analoghe, si dimostra più attento alla letteratura greca degli epigrammi, agli idilli e all'ekphrasis e predilige un tipo di narrazione del mito più legato a modelli letterari che puramente filologici o divulgativi.

Nell'introduzione, infatti, dedica un lungo paragrafo al significato delle favole antiche, al loro metodo di composizione, agli artifici della retorica ispirandosi al noto motivo dell'ut pictura poesis. Anche all'interno del libro, a differenza di Giraldi e Cartari, abbondano spiegazioni allegoriche dei miti, condotte secondo i tre metodi indagati da Seznec: l'esegesi storica, morale e fisica, con sfumature neoplatoniche più accentuate rispetto a quelle riportate dai suoi colleghi.

da Cultura-Barocca

L'Accademia della Crusca

Villa medicea di Castello, sede dell'Accademia - Fonte: Wikipedia

L'Accademia della Crusca fu istituita a Firenze nel 1582 da Leonardo Salviati, accomunando gli aderenti alla Brigata dei Crusconi, un circolo privato che s’era formato (1570-’80) per tenere nelle riunioni delle conversazioni scherzose o cruscate in contrapposizione alle pedanterie dell’Accademia Fiorentina.

Già il Salviati presuppose presto una riforma in cui il termine crusca, come residuo del grano purificato, indicava l’idea di interventi selettivi sulla lingua italiana in nome di una purezza che - estendendosi il Vocabolario della Crusca - fu ristretta a canoni bembeschi ed all’uso letterario delle voci usate da scrittori toscani del ‘300 o di autori fiorentinizzati.

Attraverso i secoli tale postazione subì varie modifiche e quindi la stessa Accademia venne soppressa ed incorporata nell’Accademia Fiorentina.

Napoleone, con agevolazioni economiche, la ripristinò nel 1811; quindi essa divenne promotrice della Società Dantesca Italiana.

La vita dell’Accademia si è prolungata fino ai giorni odierni in un pullulare di proposte scientifiche, al cui vertice sta l’Opera del Vocabolario (1964) che dal 1965, su vasta scala di collaborazione, mira alla stesura di un Tesoro della lingua toscana: l’impresa è stata trasformata nel 1979 in Centro di Studi del C.N.R.- Opera del Vocabolario della lingua italiana.

Attualmente la sua attività scientifica procede in tre direzioni: di filologia italiana, di Centro studi di lessicografia italiana, di Centro studi di Grammatica Italiana.

da Cultura-Barocca

domenica 5 febbraio 2017

L'Urna del Seminario

Alessandro Magnasco, La zona di San Fruttuoso vista dalla villa Saluzzo Bombrini di Albaro (1740) - Fonte: Wikipedia
In senso estensivo e mediato la CABALA (in ambito teologico con tale termine si indica la dottrina ebraica diretta all'interpretazione simbolica del senso intimo e segreto della Bibbia quale è stato trasmesso per tradizione secondo una catena ininterrotta di iniziatori), che a sua volta deriva dal complesso campo della GEMATRIA, è entrata a far parte dell'universo, in qualche maniera, parallelo delle arti magiche e divinatorie, specie se connesse all'arte della numerologia cui non fu nemmeno estraneo ANGELICO APROSIO (soprattutto per influenza dell'erudito spirito toscano di PIER FRANCESCO MINOZZI) nella stesura di vari scritti ed in particolare di una crittografia in cui l'evidenziazione dei segni alfabetici rimandava a calcoli numerici.
Nelle forme più grezze essa presume di poter gestire l'arte della DIVINAZIONE attraverso un rapporto di connessioni fra numeri, segni, sogni intesi come presagi da decifrare.
E' da collegare alla CABALA il GIOCO DEL LOTTO che ebbe origine proprio a Genova nel XVI secolo probabilmente per ideazione di un patrizio della città, tale Benedetto Gentile, che applicò questo gioco d'azzardo alle scommesse che venivano fatte sulle elezioni del Senato della Repubblica.
Al gioco veniva però dato anche nome di GIOCO DEL SEMINARIO forse dal luogo in cui originariamente si giocava.
E' anche vero tuttavia che si chiamava URNA DEL SEMINARIO quella in cui venivano deposti i foglietti coi nomi dei candidati da eleggere.
Non passò molto tempo che si sostituirono i nomi dei senatori con quelli dei numeri sì che il gioco divenne quello che di fatto è oggi.
Il consenso ricevuto dalla popolazione (tra la quale era comunque altissima la pratica del GIOCO D'AZZARDO) fu altissimo e permise agli organizzatori privati del LOTTO di gestire enormi guadagni.
Questo fatto attirò l'attenzione dello Stato, che si sostituì ai privati istituendo nel 1643 una tassa.
Gli altri governi italiani, vedendo che anche molti loro sudditi si adopravano per giocare al LOTTO GENOVESE, emanarono severissimi bandi con cui si impediva ai non genovesi la partecipazione alla lotteria.
Le leggi non ottennero tuttavia grossi risultati e la partecipazione al gioco genovese di cittadini di altri Stati non venne meno.
I vari sovrani anzi, valutando l'impossibilità di proibirne la frequentazione e valutando i consistenti guadagni che esso garantiva al Governo che lo avesse autorizzato, lo liberalizzarono ed anzi ne assunsero l'esclusiva.
Fu questo il caso di Carlo Emanuele di Savoia che nel 1674 lo cedette in appalto a gestori privati lucrando sull'operazione.
Seguendo un suo piano moralizzatore il successore Vittorio Amedeo lo proibì nel 1713 ma ancora una volta i governanti sabaudi si trovarono a fare i conti con le giocate clandestine.
Per questo motivo, oltre che per trarne un guadagno fiscale, Carlo Alberto, che pure personalmente si dichiarava contrario al "Gioco del Lotto", lo fece ripristinare.
Il Sovrano non poteva infatti rinunciare ad un importante cespite di guadagno, che vigorosamente sosteneva l'erario statale: l'unica concessione al moralismo albertino fu l'imposizione di un limite massimo di giocata, sin al valore di una lira (1835).
Successivamente con R.D. 5-XI-1863 dichiarò mantenuto a vantaggio dello Stato il gioco del Lotto.
Poi (D.L. del 19-VII-1880) il governo venne autorizzato ad emanare due decreti per disciplinare le deroghe alla proibizione generale di svolgere pubbliche lotterie, comminando le sanzioni penali in caso di contravvenzione al divieto nonché per riunire e coordinare in un testo unico le tante disposizioni sin ad allora emanate in materia di LOTTO.

da Cultura-Barocca