Quanto è oggi risaputo sulla manifattura delle scarpe nella Grecia classica, sulla concia di pelli e cuoi destinati a confezionarle e, quindi, sul mestiere di calzolaio, proviene da testimonianze letterarie e da reperti archeologici, in particolare statue e vasi con figure dipinte.
Su un vaso proveniente dall’isola di Rodi, conservato presso l'Ashmolean Museum di Oxford, è effigiato uno sprazzo di vita operosa entro una calzoleria: un artigiano infatti è impegnato a modellare col trincetto un pezzo di cuoio sì da adeguarlo alla conformazione del piede di un giovanissimo cliente ritto sopra il deschetto.
Le pelli venivano conciate con varie sostanze tra cui l’allume, materie grasse quali il grasso di maiale o la morchia d'olio giovevoli per garantirne la morbidezza, estratti tannici derivati da vegetali quali le foglie di more, corteccia di alcune conifere, scorze di melograno, ghiande, radici e bacche di vite selvatica, frutti dell'acacia egiziana e corteccia di quercia.
Gran parte delle pelli erano importate in Grecia dalle regioni bagnate del Mar Nero, dalla Cirenaica e successivamente da Sicilia (Magna Grecia) ed Asia allorquando l’ecumene greco pose le sue basi anche in queste regioni.
E’ facile che in un primo tempo la concia delle pelli venisse finalizzata a livello artigianale dagli stessi calzolai ma, nello sviluppo socio-economico del mondo ellenizzato, si siano affermate concerie di dimensione pseudoindustriale, in cui era sfruttata prioritariamente una manodora di tipo servile: il mestiere del conciatore nell’antichità, attese le sgradevoli emanazioni degli impianti che quasi si fissavano sul corpo degli operatori, godeva infatti di poca stima sociale.
Invero nelle epoche più antiche i Greci, militari compresi, procedevano soprattutto a piedi nudi (benché Omero ci descriva, nel VI canto dell’Iliade una donna che indossa dei sandali), sì che solo in periodi posteriori cominciarono ad usare le calzature, pur continuando a restare scalzi tra le pareti domestiche.
Da poche fonti letterarie si sa poi che i Cretesi usavano stivaletti di cuoio bianco o di camoscio alti fin sopra la caviglia e che i soldati di Orcomeno calzavano stivaletti di cuoio rosso che li distinguevano da quelli di Micene, soliti portare sandali corredati da gambali di cuoio scuro.
In un dialogo letterario tra il calzolaio Cerdone, la procacciatrice di affari Metrò e due clienti, Eroda in qualche modo rende possibile apprendere la molteplicità tipologica e la raffinatezza delle calzature femminili in uso in età ellenistica. Risultano elencate scarpe di Sicione o d'Ambracia gialle o verdi, scarpe senza tacco, pianelle, pantofole, scarpe ioniche, scarpe alte, scarpe da notte, scarpe aperte, scarpe rosse, scarpe argive, calzature da giovinetto e da passeggio.
Secondo l’interpretazione prevalente le prime scarpe greche di grande uso erano chiamate Upodémata ed erano confezionate tramite una suola di cuoio, legno o sparto ancorata al piede da corregge di pelle. Questa foggia generò quindi i Sandalia ed un tipo importante di Sandalia risultavano i Krepidoi scarpe indossate parimenti da uomini (solo i liberi tuttavia avevano diritto di calzare una Krepis con la linguetta intagliata) che da donne e comuni, soprattutto per i viaggi, vista la loro robustezza idonea a sopportare i capricci del tempo, quanto a sostenere tragitti aspri su strade non ancora adeguate dalla tecnologia romana.
I Krepidoi delle donne risultavano comunque di pelle più morbida ed erano molto spesso colorati, per lo più in giallo: oltre aciò gli erano applicate delle suole alte di sughero sia per guadagnare qualche centimetro in statura che per destreggiarsi tra i frequenti pantani di sentieri e vie spesso abbandonati al degrado fuori del centro vitale delle città.
Per Embades si intendevano poi stivaletti parimenti calzati tanto da uomini che da donne e la loro la tomaia era completamente chiusa: questo tipo di scarpe nell’uso di Sicione era di colore bianco mentre in Laconia prevaleva la colorazione in rosso ed oltre a ciò le scarpe quelle femminili risultavano di frequente arricchite da intarsi ed ornamenti fatti da ricami in fili d'oro.
Alle spose si concedeva l’uso delle candide Ninfides mentre erano del tutto meno fini ben altra tipologia di calzatura: ci si riferisce qui a scarpe pesanti impiegate tanto dai soldati quanto da coloro che si dovessero impegnare in viaggi per terreni asperrimi.
A queste solide calzature si dava in genere il nome di Koila Upodémata: esse avevano la suola rinforzata da chiodi e parti di tomaia proteggevano saldamente il tallone e i lati del piede.
Tra le tante calzature della fioritura greco-ellenistica si possono quindi menzionare gli stivaletti detti Endromides (che ricoprivano le caviglie risultando ancorati alla gamba in virtà di corregge di cuoio) ed ancora gli Akatioi, scarpe dalla punta rialzata forse di derivazione ittita.
Vantavano altresì una genesi medio-orientale i Kothornoi provvisti di soldida suola di cuoio e con una tomaia in pelle morbida alta al polpaccio che era allacciata sul davanti della gamba tramite corregge rosse: la loro fama deriva soprattutto dal fatto che sono stati eternati dal primo dei grandi autori tragici greci Eschilo che li fece indossare dai suoi attori inaugurando una plurisecolare tradizione nelle rappresentazioni del teatro.
In effetti i Kothornoi teatrali costituirono un’enfatizzazione voluta della scarpa normale di tale nome: la sublimazione dell’enorme suola, ispessita da strati di sughero e l'altezza valeva a sottolineare la funzione, più o meno carismatica dei vari personaggi: era una sorta di elementare meccanismo scenico per far sì che già nell’immediatezza della percezione visiva, per esempio dei ed eroi , destinati in genere ad egemonizzare le vicende, apparissero più alti dei comuni mortali (lo stesso non avveniva nel contesto delle rappresentazioni comiche i cui attori calzavano le Embades).
Lo storico filospartano Senofonte ci permette poi di apprendere che con lo scorrere del tempo i calzolai univano suole e tomaie con tendini animali seguendo una procedura sempre più uniformata nell'assemblaggio delle calzature: per esempio gli stivali per i cavalieri erano invariabilmente adattati per l’applicazione degli sproni.
Nelle case solitamente non si portavano scarpe; ci si recava sì all’abitazione di un amico, magari per un banchetto, portando scarpe, pure molto robuste, per non giungere imbrattati dall’ospite ma, una volta entrati in casa, già nell’androne della stessa, le calzature venivano dimesse e mediamente uno schiavo od un servo (trattandosi di ambiente sociale elevato) si prendeva cura dell’invitato accorrendo con un catino e tutto l’occorrente per un rapido pediluvio onde liberare il sopraggiunto delle eventuali sporcizie raccolte involontariamente nella passeggiata per strada, permettendogli di conseguenza di recarsi nella sala dei ricevimenti libero dall’impaccio di qualsiasi calzatura.
da Cultura-Barocca