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martedì 29 dicembre 2015

Christine de Pizan, femminista ante litteram

Christine de Pizan offre una copia dei suoi lavori alla regina Isabella di Baviera, moglie del re Carlo VI (Fonte dell'immagine: Wikipedia)
Christine de Pizan, nata a Venezia nel 1364 (morta nel 1430 c., forse a Poissy) da genitori italiani, venne educata in Francia, dove il padre, originario di Pizzano [Bologna], da cui il nome, era medico e astrologo alla corte di Carlo V.

Rimasta vedova, Christine cercò nella letteratura una fonte di guadagno e di prestigio, componendo molte opere di circostanza in versi e prosa, narrazioni storiche e compilazioni morali, che le venivano commissionate. Denota autentica vena lirica allorchè canta la propria pena o partecipa al dramma del paese dilaniato dalla guerra dei cent'anni.

Tra le sue opere,  il Detto della Pulzella (1429), un poema su Jeanne d'Arc, il Detto della rosa (1401), in cui assume posizione contro l'antifemminismo di Jean de Meung, e la Città delle dame (Livre de la cité des dames, 1405), che Christine stese rapidamente nell'inverno tra il 1404 e il 1405, elaborando non senza ingegno alcune vere e proprie postazioni utopistiche.

Proprio in quest'ultima opera a riguardo di Semiramide lasciò scritto, andando pienamente controcorrente: Semiramide fu una donna di immenso valore e grande coraggio nelle imprese e nell'esercizio delle armi. Fu sposa del re Nino, che diede il nome alla città di Ninive, e diventò un grande conquistatore grazie all'aiuto di Semiramide, che cavalcava in armi al suo fianco. Egli conquistò la grande Babilonia, i vasti territori degli Assiri e molti altri paesi. Questa donna era ancora molto giovane quando Nino venne ucciso da una freccia, durante l'assalto a una città. Dopo aver celebrato solennemente il rito funebre la donna non abbandonò l'esercizio delle armi, anzi più di prima prese a governare e realizzò tali e tante opere notevoli, che nessun uomo poteva superarla in forza e in vigore. Era così temuta come guerriera, che non solo mantenne i territori già conquistati ma, alla testa di una grande armata, mosse guerra all'Etiopia, contro cui combatté con ardimento, conquistandola e unendola al suo impero. Da lì partì per l'India e attaccò in forze gli Indiani, ai quali nessuno aveva mai osato dichiarare guerra, li vinse e li soggiogò. In seguito arrivò a conquistare tutto l'Oriente, sottomettendolo alle sue leggi. Oltre a queste conquiste, Semiramide fece ricostruire e consolidare la città di Babilonia, fece costruire nuove fortificazioni e grandi e profondi fossati tutt'intorno. 

E, cercando di essere esaustiva in questo suo assunto innovativo, l'autrice appone una chiosa non esente da modernità, cercando di storicizzare le scelte di Semiramide in altri contesti cronologici altrimenti indifendibili: È ben vero che molti la biasimarono - e a buon diritto se avesse vissuto sotto le nostre leggi - per il fatto che prese come marito un figlio che lei aveva avuto da Nino, suo sposo. Ma i motivi che la spinsero a ciò furono principalmente due: prima di tutto non voleva che nel suo impero ci fosse un'altra dama incoronata oltre a lei, fatto inevitabile se suo figlio avesse sposato un'altra, e poi che nessun altro uomo era degno di averla in moglie, all'infuori di lui. Ma la si può giustificare per questa mancanza, che fu veramente grave, poiché non vi erano ancora leggi scritte: in questo modo la gente viveva secondo la legge di Natura, e ognuno si sentiva libero di agire come gli pareva, senza commettere peccato. È fuori dubbio che, se avesse pensato di agire male o che avrebbe potuto riceverne biasimo, non si sarebbe mai comportata così: essa aveva un animo nobile e un grande senso dell'onore.
La sinistra nomea - invero - della “sconcia e perfida” Semiramide [mitica regina degli Assiri, probabilmente da identificare con la regina babilonese Shammuràmat (o Sammu-ramat), moglie del re assiro Shamshiadad V (regnante dall'811 all'808 a.C.) e poi reggente per il figlio Adadnirari III: per la leggenda al contrario figlia della dea Derceto e del siriano Caistro, sposa di Onne, poi del re Nino (Adad Nirari o Adad Ninari)] rientra nelle corde di diversi autori. Da Giustino (martire cristiano del II secolo d.C.) a Sant'Agostino soprattutto ed ancora al suo discepolo Paolo Orosio.
La condanna è sempre inequivocabile: per alcuni Semiramide fece legittimare l'incesto col proprio figlio, per altri fu scacciata e uccisa dal figlio per sottrarle il potere, per altri ancora finì suicida.
Erodoto di Alicarnasso (V secolo a.C.) e il sacerdote babilonese Beroso (III secolo a.C.) sono forse i più attendibili e obiettivi: ne parlano come di una grande sovrana, che durante il suo regno conquistò la Media, l'Egitto e l'Etiopia, insieme a grandi opere di pace come l'edificazione delle mura e dei giardini pensili di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico.

da Cultura-Barocca



mercoledì 16 dicembre 2015

Il Porto Franco di Genova

Palazzine del Porto Franco di Genova in una incisione di fine XVIII sec. di A. Giolfi e G.L.Guidotti
Il "PORTUS IMMUNIS" traducibile col termine di PORTOFRANCO ufficialmente fu istituito l'11 agosto 1590 quando Genova fu colpita da una terribile carestia.
Con tale termine si alludeva alla concessione di grandi benefici sotto forma di dazi e pagamenti da concedere alle navi granarie che fossero giunte al grande porto ligure.
Questo espediente (che diede frutti positivi) in realtà non era del tutto nuova anche se ufficializzato solo da tale data: oltre cinquantanni prima, nel 1531, si era infatti sancito un provvedimento analogo di grosse agevolazioni a vantaggio delle navi che fossero approdatye allo scalo genovese avendo almeno i due terzi del carico composti di cerali e legumi.
Il provvedimento ufficiale del 1590 peraltro non potè nemmeno essere temporaneo -come da qualche parte si sperava- in quanto la carestia si manifestò con violenza anche nel 1591.
Le agevolazioni furono quindi ribadite ed anche estese: i vantaggi fiscali erano significativi per i mercanti del nord Europa, in particolare per gli Olandesi che trasportavano grandi quantità di cereali.
Per certi aspetti la carestia costrinze l'oligarchia genovese di fine '500, tutta impegnata nelle operazioni finanziarie ed ormai piuttosto estranea alle vicende del porto in cui pure si era formata la fortuna dei suoi avi, a rioccuparsi dei destini del commercio.
Nel '500 la marineria genovese risenta di un'evidente CRISI a tutto vantaggio di altre basi commerciali mediterranee e non.
Per quanto possa sembrare strano l'istituzione da parte dei ducali di Firenze di un Portofranco a Livorno -in alternativa all'ormai interrato porto di Pisa- finì per costituire un successo a fronte della decadenza del porto genovese.
Con l'istituzione del PORTOFRANCO Genova vide fiorire gli scambi con l'Olanda le cui navi ormai contendevano a quelle tedesche e soprattutto inglesi l'egemonia dei commerci.
Alla fine di favoprire il successo del "Portofranco genovese", a scapito di quello di Livorno, non si ricorse a mezze misure.
Per esempio il comandante Gio De Mari ricevette l'incarico di recarsi nel porto di La Spezia con un liuto, ben fornito di armi e uomini, allo scopo di convincere gli Olandesi (e gli eventuali altri meracnti) di recedere da Livorno e riparare a Genova (l'incarico diceva di usare "ogni cortesia" ma, in modo più o meno esplicito, lo spiegamento, pur dimostrativo, dei mezzi di guerra finiva per costituire un probante elemento persuasivo).
Nonostante il modo discutibile l'operazione èpropagandistica a favore del "Portofranco genovese" ebbe successo: le navi olandesi cominciarono a portare allo scalo ligure il prezioso grano polacco che commerciavano.
Così (fiorendo la collaborazione mercantile tra Genova ed Olanda, collaborazione che si protrarrà fino alla morte della Repubblica a fine '700) il "portofranco" nel 1606 fu trasformato in PORTOFRANCO GENERALISSIMO cioè con l'estensione di agevolazioni per le navi che vi portassero molte altre merci e non solo più i cereali.
Per il sistema portuale e mercantile di Genova, dopo la dedenza del '500, si ebbe per il XVII secolo un rifiorire abbastanza celere.
Allo scalo genovese giunsero così nuove merci e si potenziarono particolari tipi di scambi.
Si cita soprattutto l'importazione di cerali e di merluzzo del Nord Europa in cambio delle apprezzatissime sete e lane liguri.
L'amministrazione del "Portofranco" qualche decennio dopo, precisamente nel 1623, venne concessa al BANCO DI S. GIORGIO.
Sotto questa amministrazione -destinata a continuare ininterrottamente sino alla fine della Repubblica di Genova- il PORTOFRANCO crebbe di importanza.
Verso la metà del XVII secolo nel "portofranco" si potevano riconoscere oltre un centinaio di "case", grossomodo quello che si potrebbero oggi definire le organizzazioni degli spedizionieri.
Assieme ai liguri avevano infatti aperto "case" anche mercanti francesi, olandesi, inglesi ed anche ebrei -particolarmente favoriti allo sacopo di allontanarli da Livorno che costituiiva una loro base storica-.
L'espediente genovese anche se portò dei frutti non potè sconfiggere l'iniziativa ducale: Livorno avrebbe infatti continuato a fiorire per la tempestività dell'iniziativa e l'esperienza rapidamente maturata e non mancarono città liguri che, come nel caso di SARZANA, abituate ad intrattenere relazioni vantaggiose coi traffici di Livorno, si ritennero penalizzate dal Portofranco genovese sin al punto di avanzare proteste ufficiali presso il Senato della Serenissima.
Tuttavia lo scalo genovese ebbe dei vantaggi considerevoli che furono testimoniati dal lato delle sovrastrutture, oltre che dall'impianto di imprese spedizioniere, anche dalla realizzazione di nuovi edifici per la conservazione di merci e prodotti.
A questo proposito meritano di essere ricordati i DEPOSITI PER L'OLIO IN PORTOFRANCO, un cui disegno fu allegato al "Registro degli edifici posseduti dalla Casa di S. Giorgio" .


sabato 12 dicembre 2015

Il Pok-a-tok degli Amerindi

  "In questo modo giocavano gli INDI, con una palla gonfiata che colpivano con il deretano abbassandosi fino a terra. Una pelle rigida, per consentire un solido rimbalzo della palla, ricopriva le parti posteriori. Portavano anche dei guanti di pelle". COME SI VEDE, NELL'IMMAGINE SOPRA PROPOSTA fatta con disegno a penna colorato all'acquerello, ora nel CODICE CHE DA LUI HA PRESO NOME (conservato al Museo di Norimberga), Cristoph Weiditz (nel XVI secolo al seguito di CORTEZ e dei CONQUISTATORI SPAGNOLI) verisimilmente ha rappresentato la prima PALLA DI CAUCCIU' nota nel mondo. All'epoca, data la SCOPERTA DI UN NUOVO MONDO era comune che tra i "Conquistadores" vi fossero personaggi deputati ad effigiare immagini che si sarebbero potute disperdere con le guerre = rimane emblematico ed enigmatico anche questo RITRATTO DAL VIVO DELL'ULTIMO IMPERATORE INCA.
Con la PALLA DI CAUCCIU', molto più efficiente delle PALLE E DEI PALLONI (realizzati comprimendo stracci od usando pelli animali diversamente riempite e quindi ben cucite) utilizzati in molti dei GIUOCHI STORICI DI CUI QUI SI PROPONE UN ESAURIENTE INDICE TEMATICO variamente in uso in Europa, gli Amerindiani giocavano in grandi SFERISTERI OVE SI PRATICAVA UNA SORTA DI GIUOCO SACRO DETTO "POK-A-TOK", DAGLI EUROPEI PRESTO DEFINITO "GIUOCO DELLA PALLA".
Può sorprendere come, anche, alla base del loro tipo di PALLONE e della loro ABILITA' risiedette l'affermazione, con crescente successo anche per le rappresentazioni ludiche anche come giocolieri con altri attrezzi cui furono costretti come schiavi ad esibirsi dietro compenso a pro dei padroni in Europa dai talora criminosi MARCANTI DI MERAVIGLIE nelle Corti ma poi anche nelle Piazze in occasione di Fiere e Mercati.
All’interno dello Stadio o più propriamente Sferisterio (molte città ne avevano, questo è per molti lati il più celebre ovvero lo sfristerio di "Chichen Itza" il cui toponimo è traducibile nel significato “Alla bocca del pozzo degli Itza) veniva praticato il gioco del Pok-a-Tok ossia il gioco della palla: su cui esistono, con qualche lacuna documentaria, interpretazioni anche divergenti, seppur senza grosse distinzioni ma che non aveva tanto una valenza ludica come per gli stadi od anfiteatri allestiti già ai tempi di Roma ma che comportava forti valenze religiose e mistiche connesse con valenze sia strologiche che astronomiche. Il campo da gioco raffigurava la Terra mentre la palla simboleggiava il Sole di maniera che la palla cadeva era come se al Sole non fosse concesso di risorgere dalle Tenebre e dar vita al mondo.
Nel gioco, se così vogliamo chiamare quella che primieramente era una cerimonia, si affrontavano due squadre rispettivamente costituite da sette giocatori che dovevano far passare la palla negli anelli (uno di questi si vede nell'immagine proposta) utilizzando i gomiti, i polsi, le cosce e le mani (sull'uso delle mani con verosimiglianza i narratori antichi non concordano).
La palla, che era di caucciù, superava i cinque chilogrammi di peso, per cui la vittoria era sempre e comunque una sorta di impresa nel corso della quale nell'interpretazione di Pietro Martire d'Anghiera testimone oculare ai tempi della Conquista del Nuovo Mondo il capitano della squadra vincitrice avrebbe avuto diritto a tutti i vestiti e gioielli degli spettatori mentre all'opposto il capitano della squadra sconfitta avendo alterato gli equilibri universali, anche facendo cadere a terra la palla, sì da consegnarla all'oscurità e alle tenebre invece che al sole sarbbe stato sacrificato agli Dei.
Qui nell'immagine dello sferisterio della celebre città maya di Cichen Itza ai lati estremi del campo si vedono i resti di due templi uno dedicato al Sole e uno alla Luna: obbiettivamente anche in questo gioco sacro sussisteva una sorta di religione (cultura) del sangue che gli Aztechi ebbero in comune con i Maja e che applicarono a pro degli Dei del loro immenso Pantheon (vedi qui da testo antiquario l'elenco delle divinità).
Il gioco, inteso dagli Europei come un processo esclusivamente ludico, non aveva però l'innocente funzione che gli si attribuiva e che fece ritenere gli indigeni precolombiani dei provetti giocolieri: esso rientrava in un complicato SISTEMA RELIGIOSO proprio dell'arcana CULTURA SPIRITUALE DEL SANGUE. Quando se ne avvidero, i conquistatori europei fecero rientrare anche questo "giuoco rituale" nel contesto delle RELIGIONI PRECOLOMBIANE CONNESSE AL CULTO: PER DEI SANGUINARI, DAI CONNOTATI DIABOLICI, STREGONESCHI E VAMPIRESCHI. Assieme ad altre aspetti delle civiltà amerindiane OGNI COSA DISTRUSSERO FIN ALLA RADICE; ancora una volta trassero il destro per annegarla, con le splendide città di cui faceva parte, in una efferata tragedia di sangue poco connessa alla soppressione di qualche barbara ritualità, quanto primieramente motivata dalla frenesia di trovare sempre nuove motivazioni per far conquista e arricchirsi smodatamente. Non a caso i GIOCOLIERI AZTECHI non furono lasciati in AMERICA O NELL'ANAHUAC nella CONDIZIONE DI SCHIAVI LAVORATORI, ma per sfruttare la loro perizia vennero sì schiavizzati per essere venduti a MERCANTI DI MERAVIGLIE,  ONDE ESSER ESIBITI IN EUROPA NELLE PIAZZE MA ANCHE NELLE CORTI QUALI FENOMENI DA BARACCONE PER IL LORO FUNAMBOLISMO NEL TRATTARE LA PALLA.
Le ragioni formali di questa distruzione sono qui leggibili per intiero nelle "LETTERE DI FERDINANDO CORTES AL SERENISSIMO ED INVITTISSIMO IMPERATORE CARLO V INTORNO AI FATTI DELLA NUOVA SPAGNA O MESSICO anche se le sue affermazioni (si VEDA DOVE SCRIVE DEI TEMPLI E DELLA RELIGIONE AZTECA) sono state abbondantemente riviste da storici e studiosi.


giovedì 3 dicembre 2015

Un santuario protostorico: il Monte Bego

Foto: Studio Moreschi di Sanremo (IM)
Nell'attuale territorio francese, ad un'ottantina di Km. da Nizza il MONTE BEGO (scisti e arenarie del massiccio del Mercantour tra i 2000 e i 3000 m. di altitudine, a S.-O. del Colle di Tenda) costituisce il cardine di tutto il sistema orografico e territoriale tra la valle del Roia, parte in area italiana e parte in territorio francese, e la val Gordelasca nel nizzardo, quindi interamente appartenente alla Francia.

Il MONTE BEGO, oltre che un nodo orografico, fu anche uno splendido santuario a incisioni protostoriche di tutta Europa, un luogo dalla sacralità insita ove le forze della natura paiono scatenarsi mosse da forze ultraterrene: l'impressionante scenario di questa monumentale colata di roccia e dei repentini cambiamenti di condizioni climatiche, con l'esplosione di piogge e tormante ma anche di straordinari spettacoli come gli incredibili TRAMONTI non poté non esercitare formidabili suggestioni sui Liguri preromani, come sui popoli che li precedettero e come - bisogna pur ammetterlo - su quanti, tuttora, si immergono nello straordinario paesaggio del Bego.
Sin dal '600 ne parlò diffusamente il Gioffredo nella sua Storia delle Alpi Marittime: sulla montagna corsero voci diverse e spesso contrastanti, alimentate dall'eccezionalità del paesaggio e dalla variabilità del clima in cui, a momenti di serenità, si alternano subitanee tempeste, con fulmini,lampi e tuoni. Così mentre da un lato la superstizione (ma anche la letteratura parareligiosa o religiosa sia di approfondimento che di divulgazione) prese a definirlo come un luogo infernale popolato da diavoli e demoni d'altro canto l'erudizione non mancò, di fronte al crescente interesse culturale per i fenomeni naturalistici ed i reperti del passato, di decantarne il misterioso fascino, sì che si venne a formare per il sito l'emblematico toponimo di VALLE DELLE MERAVIGLIE, da identificare in parte nella selvaggia bellezza dell'ambiente ed in parte nelle "rocce parlanti" in virtù delle pur indecifrabili, antichissime incisioni.
Con gradualità le indagini sul sito si sarebbero sempre più estese ed approfondite, raggiungendo l'apice tra XIX e XX secolo, nonostante molto ancora resti da decifrare ed interpretare: in sostanza però si è alla fine giunti alla conclusione che il BEGO rientrasse nel sistema dello sviluppo di grandi centri religiosi, ricavati all'interno delle montagne alpine e disseminati un pò ovunque sin alle aride rocce della Scandinavia. 

Il BEGO costituisce quindi, vista l'abbondanza delle incisioni rupestri; un'"area privilegiata" in cui, in particolari periodi, si concentravano sacerdoti e fedeli per officiare i culti principali, quelli dell'agricoltura o del dio gueriero od ancora del dio del tuono (il caso del MONTE BEGO, è utile precisarlo, non costituisce un fatto isolato nel contesto delle Rocce e montagne sacre tipiche dell'ampio arco di tempo in cui si alternano varie manifestazioni religiose dal Neolitco all'inizio dell'età del Ferro: a titolo esemplificativo quali altri grandi santuari protostorici si possono ricordare i complessi, caratterizzati da incisioni rupestri, nella Savoia e, per qunato concerne l'Italia, non lontano da Brescia, il sito della Val Camonica, da giudicare uno dei più sontuosi luoghi di devozione visitati ripetutamente dai pellegrini dell'età del Bronzo).

Foto: Studio Moreschi di Sanremo (IM)
Agli inizi del '900 le armi raffigurate tra le incisioni del BEGO (pugnali ed alabarde) fecero datare le incisioni all'età del Bronzo.
L'opera scientifica fu intrapresa dall'inglese P. Bicknell (dal 1881) e poi continuate dall'italiano Conti che individuò e distinse ben 20 zone ad incisione. Una svolta essenziale si ebbe poi dal 1967, da quando il gruppo di ricerca guidato da H. de Lumley ha studiato alcune diecine di migliaia di incisioni.
Un dei temi principali delle incisioni è quello degli animali cornuti rappresentati sia da soli che raggruppati ed anche nella figurazione di aggiogati a carri od aratri: la forma delle corna rimanda con lieve prevalenza ai bovidi ma molti animali rappresentati alludono, diversamente, a capridi: e tutte queste rappresentazioni inducono a credere ad un culto dell'agricoltura e dell'allevamento di origine neolitica.
La rappresentazione di armi, per quanto assai meno frequente (7,5% sulla globalità delle incisioni reperite) ha tuttavia un significato di rilievo. i pugnali sono infatti del tipo a codolo, propri del Calcolitico o del tipo ad impugnatra metallica come nel Bronzo anico.
Le alabarde od asce-pugnali sono infine armi caratteristiche del Bronzo antico e fanno sì che le incisioni possano essere datate al 2000-1500 a.C.
Non risultano numerose le incisioni antropomorfiche ma sono cariche di interesse, tanto che si son dati nomi particolari alle figure individuate: lo Stregone, il Capo della Tribù, L'uomo dalle braccia a zigzag (figurazione non sorprendente in un'area ove gli improvvisi e violenti temporali dovevano eccitare l'immaginazione), la Dea acefala, la Danzatrice, il Cristo: nell'interpretazione di J. Briard (Miti e religioni dal Neolitico all'inizio dell'età del Ferro in Preistoria e antichità, 2* in Storia d'Europa, Einaudi, Torino, 1994, pp.631-633) "...osservando la loro iconografia basata perlopiù su segni corniformi si è avanzata lìipotesi del DIO-TORO.
Un'interpretazione suggestiva è stata poi fornita da E. Masson (La Vallée des Mervelles livre son message, in "Archéologie", 1992, n. 276, pp.II-23) che ha ritenuto di doversi riconoscere in VAL FONTANALBA una zona a temi profani, vertenti su tematche agricole e di vita domestica, e in un altro sito una zona sacra distinta dalle rappresentazioni antropomorfiche, di miglior livello qualitativo: sulla base di questo schema e sul retroterra dei suoi studi in Anatolia, Masson ha quindi teorizzato un'evoluzione entro le rappresentazioni divine del MONTE BEGO.
La I generazione avrebbe lasciato le sue testimonianze ai piedi del Picco delle Meraviglie: qui il Masson collega l'Uomo dalle braccia a zigzag (identificato con il padre-cielo=Uranos) con la Dea acefala che sarebbe una rappresentazione della Madre Terra (Gaia): la loro unione sarebbe raffigurata dall'incisione di 2 pugnali paralleli con le lame volte nella stessa direzione.
La II generazione di figure antropomorfiche sacrali rappresenterebbe la frattura di questo complesso spirituale: secondo il Masson la chiave di volta per tale interpretazione sarebbe da individuare nell'incisione dello Stregone che brandisce sulla testa 2 pungnali, uno per mano mentre le lame, rivolte in questo caso in senso opposto, costituirebbero un segno di discordia ed ora il rifiuto della Dea Madre.
Il Trionfo del Dio della tempesta sarebbe poi da individuare nella stele nominata del Capo della Tribù: il personaggio è rappresentato con un pugnale piantato nella testa (un simbolo, forse, della folgore): le raffigurazioni vicine, tra cui due pugnali coi pomoli opposti costituirebbero, per Masson, un riferimento a "l'ordine terrestre e l'equilibrio cosmico".




martedì 24 novembre 2015

Silfio, una pianta leggendaria, ormai estinta

 
Contro le tossicosi e quindi contro gli avvelenamenti, ma anche per le perfette cicatrizzazioni e contro i rischi di infezioni e cancrene delle ferite, un esercito di alchimisti, sulla scorta di Plinio (XIX, 39 e 43; XXII, 48-49) e di altri classici cercavano (ma anche se non soprattutto sulla scia di un probabile mito alimentato da narrazioni favolose) la leggendaria pianta del SILFIO della Cirenaica, da cui si distillava il Làsere dai tempi di Andrea (III sec. a.C), medico del re d'Egitto Tolomeo IV Filopatore ritenuto cura di molti mali, quello che Plinio definì uno "tra i doni più straordinari della natura...[che] entra in moltissimi preparati medicinali". 

Il Làsere di cui si disponeva nel XVI sec. era estratto dalla pianta del Laserpìzio ("Ombrellifere") di Siria, Parmenia, Media, Armenia (M. MONTIGIANO, Dioscoride Anazarbeo. Della materia medicinale, tradotto in lingua fiorentina, Firenze, 1546 o 1547, p.154) e, oltre a non essere facilmente reperibile, non aveva le qualità attribuitegli da Plinio.

Plinio, riferendosi a quello della Cirenaica, scrisse che il Làsere delle regioni orientali - estratto dal Laserpìzio del genere Ferula Asa foetida delle Ombrellifere - "è di qualità molto inferiore rispetto a quello della Cirenaica, e per di più spesso mescolato con gomma o sacopenio [gomma di ferulacea orientale ma anche di una specie italica], o fave tritate". E del resto in Italia delle 30 specie di Laserpìzio conosciute ne crescono 8 (importante soprattutto il Laserpizio sermontano [ma leggi anche Siler Montanum alias Seselis Massiliensis] di cui scrisse il medico Z.T. Bovio, ma senza le supposte proprietà citate da Plinio). 

Fra gli attributi medicamentosi del Làsere ottenuto dal Laserpìzio o Silfio della Cirenaica (che non è di sicura interpretazione e per cui si è anche supposta l'identificazione con la Ferula tingitana, a cui Catone attribuì alto valore terapeutico ) si attribuivano poteri cicatrizzanti e la qualità di antidoto sì forte da neutralizzare ogni veleno: possedere o realizzare tal prodotto avrebbe fatta la fortuna di qualsiasi alchimista, speziale o medico ed avrebbe risolto i problemi di intervento, che a volte imponevano l'amputazione dell'arto ferito ed avvelenato.
 
In effetti le ricerche non avrebbero poi confermato tutto quanto pur senza negare varie qualità al SILFIO. A prescindere dagli usi nella cucina greco-romana la pianta era utilizzata per molte applicazioni mediche: contro tosse, gola irritata, febbre, indigestione, dolori, verruche e vari tipi di malattie sì che sulla scorta di successivi medici ed erboristi si conferì al prodotto il titolo di vera e propria panacea.

Plinio il Vecchio in effetti ne segnalò soprattutto la qualità quale contraccettivo ed è oggi noto che molte specie appartenenti alla famiglia delle Apiaceae hanno proprietà estrogeniche mentre è stato realmente esperimentato come alcune (come la carota selvatica) possono fungere da abortivo; è quindi possibile che la pianta (vanamente ricercata assieme alla Mummia ed altre sostanze ritenute dotate di grandi proprietà terapeutiche anche nel Medioevo sulle tracce superstiti del Mercato aperto Imperiale Romano) fosse farmacologicamente attiva per la prevenzione o l'interruzione della gravidanza.
 
Da quanto si è scritto si potrebbe pensare che il SILFIO, dalle prodigiose qualità terapeutiche, sia stata solo una leggenda proveniente dal passato remoto: se però, trattando della pianta Ippocrate, Galeno, Dioscoride, Apicio, Plinio Seniore e tanti altri medici ed eruditi, nel campo delle reciproche competenze, parlarono sempre in termini entusiastici, alludendo soprattutto alle straordinarie qualità medicamentose, un fondo di verità nella "leggenda" deve pur esservi stato.
 
Tenendo in particolare conto del fatto che Nerone ne pagò a prezzo elevatissimo l'ultima spedizione e che reclamò per sè alla vigilia dell'estinzione della pianta, e valutando che, già da molto prima, il succo del Silfio veniva conservato, sotto stretta custodia, nel tesoro pubblico e nei templi.

Sull'estinzione del silfio variano le ipotesi: una cita un aumento di pascoli di animali che si nutrivano della pianta in correlazione con un eccesso raccolta sì da determinarne l'estinzione. Per altri il clima del Maghreb inaridendosi avrebbe contribuito in maniera determinante alla scomparsa della pianta. Altri ancora dell'estinzione accusano l'avidità dei governatori di Creta e Cirene per lucro indotti a massimizzare i profitti facendo coltivare il silfio in modo intensivo, ma al punto di rendere il terreno inidoneo per la pianta selvatica, quella che avrebbe posseduto il massimo il valore medicinale (come sostenne Teofrasto - comunque utilizzando una fonte mediata - secondo cui il vero "Silfio" sarebbe potuto crescere solo allo stato selvatico. Recentemente J. S. Gilbert ha ipotizzato che il prodotto esportato - sotto forma di una sorta di gomma - non derivasse solo dalla pianta, ma che fosse il risultato di una miscelazione della pianta trattata con intestini di insetto contenenti cantaridina e con un espediente atto a rendere il gusto accettabile e minimizzare i rischi della cantaridina. 

Una volta però che i governatori romani presero il controllo della regione, per la produzione del silfio si sarebbero avvalsi di schiavi ignari del segreto di trattamento del prodotto al punto da non più ottenere la qualità di un tempo pensandosi così che la vera pianta del Silfio si fosse estinta = Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XIX: 38-46 e XXII: 100-106 - vedi anche = Dalby, Andrew, Dangerous Tastes: The Story of Spices, University of California Press, 2002].

   

Fatto certo è che in merito al SILFIO esiste un solo modo per cercare di ricostruirne la struttura botanica, quello di visualizzarla sulle monete, i tetradrammi (come quello qui riprodotti) di CIRENE dove gli antichi incisori e zecchieri lo immortalarono nei suoi frutti, nei germogli e persino nelle dimensioni, che dovevano essere notevoli se la testa di un cavallo giungeva a malapena alla sua cima.

P.S.
CIRENE (colonia greca fondata forse nel 631 da coloni dori originari di Tera [Santorini] sulle coste settentrionali dell'Africa, donde la regione fu poi detta Cirenaica), a dimostrazione della grande quantità di tali piante così fiorenti nel suo territorio da caratterizzarlo come ne fossero un "simbolo", scelse, per oltre tre secoli (631-300 a.C.) di utilizzare l'immagine della pianta come "marchio della propria identità nazionale": alla stessa maniera di come fecero un pò tutte le altre città stato e colonie greche> celebre e splendido il caso di RODI e della rappresentazione della rosa, caratteristica della pianta, sulle sue monete a decorrere dal tempo (411-407 a.C.) dell'unione dei tre centri antichi dell'isola ("Lindos", "Jaliso" e "Camiro"). 




lunedì 16 novembre 2015

Sulla famosa ode “A Luigia Pallavicini …”

 
Ritratto di LUIGIA PALLAVICINI, Genova, Civica Galleria d’Arte Moderna

La stesura dell’Ode “A LUIGIA PALLAVICINI CADUTA DA CAVALLO” di Ugo Foscolo sarebbe avvenuta in una locanda dove il poeta di Zante, capitano dei volontari cisalpini, stava degente a a causa di una ferita subita durante il fatto d’armi del 30 aprile 1800 comunemente noto come BATTAGLIA DI FORTE DIAMANTE. 
L’ODE, contrariamente a quanto si crede, non nacque come un omaggio estemporaneo e personalissimo ma era destinata, secondo l’uso tipico del ‘600 e del ‘700, a far parte di una “corona di composizioni poetiche consolatorie” destinate a celebrare, con il titolo di “OMAGGIO”, la giovane e bellissima marchesa genovese cui la rovinosa caduta da cavallo, con la conseguenza di un irrimediabile sfregio al volto, compromise il fascino sì da indurla a presentarsi in pubblico velata per il resto della sua esistenza.
L'”OMAGGIO A LUIGIA PALLAVICINI” fu stampato dal tipografo genovese FRUGONI nell’anno VIII della Repubblica Ligure e, oltre all’Ode del Foscolo, conteneva composizioni di altri ufficiali ed amici quali Giovanni Fantuzzi (Belluno 1762 – Genova 1800 [cadde nella difesa della “postazione genovese della Coronata”]), Giuseppe Giulio Ceroni (S. Giovanni Lupatoto [Verona] 1774 – Governolo 1813) e Antonio Gasparinetti (Ponte di Piave [Treviso] 1777 – Milano 1824).
X.P. Fabre, Ugo Foscolo
La “CADUTA NEL DESERTO (SPIAGGIA) DI SESTRI” di LUIGIA FERRARI PALLAVICINI (Varese Ligure 1771 – Genova 1841), sposa diciassettenne del marchese Domenico Pallavicini (morto nel 1805) [nel 1818 passata a seconde nozze col segretario del locale consolato francese Stefano Prier] sarebbe avvenuta tra la fine di giugno e l’inizio di luglio dell’anno 1799: una notizia dell’evento comparve nella “GALLERIA LIGURE” di Angelo Petracchi (citata dalla “Gazzetta ligure” del 14 dicembre 1799) e quindi nell’apologo del Ceroni intitolato “IL PAPPAGALLETTO” ed ancora menzionato dalla “Gazzetta”, numero dell’8 marzo 1800.
Tra leggenda e false attestazioni di completa guarigione è difficile sostenere l’esatta sequenza delle procedure editoriali: al Carrer, che parla di una Pallavici “riavutasi” (contrariamente poi alla realtà di una donna che si presentava velata in pubblico per nascondere i segni sul volto della ferita susseguente alla caduta), sembrano credibili solo per la parte letteraria, che cioè la composizione del Foscolo fosse, come è, di gran lunga la migliore (“Vita di Ugo Foscolo”, p.XXXI, in “Prose e Poesie edite ed inedite di Ugo Foscolo ordinate da Luigi Carrer e corredate della vita dell’Autore, Venezia, co’ tipi del Gondoliere, 1842). Più che un augurio per un COMPLETO RISTABILIMENTO DELLA BELLEZZA della donna, secondo noi si deve intendere l’OMAGGIO, dai testimoni interni redatto nel maggio del 1800, ma evidentemente pubblicato nella II metà di quell’anno, solo come una CONSOLAZIONE ed un AUSPICIO DI COMPLETA GUARIGIONE.


martedì 10 novembre 2015

Massena e l'assedio di Genova del 1800

Una lettera di Massena al Direttorio della Repubblica Ligure circa gli spostamenti delle truppe di Melas poco prima dell'assedio di Genova
MASSENA non fu in grado di risalire sin nella piana dello SCRIVIA e partecipare alla vittoriosa battaglia di MARENGO del 14 giugno 1800. 

Egli si trovò infatti praticamente bloccato in GENOVA ASSEDIATA da preponderanti forze nemiche. Gli imperiali eseguirono peraltro le operazioni belliche con ordine. Mentre da Recco era avanzato il generale Ott, con circa 10.000 soldati, allo scopo, riuscito, di cacciare i francesi dalle difese del torrente BISAGNO verso altri siti del Ponente ligure, il Melas con il grosso delle forze austriache, disposte su più colonne, procedette dal retroterra di Savona verso il mare e quindi prese a risalire verso Genova sempre sulla linea di costa. Per questa manovra le forze repubblicane vennero separate e in particolare restò esposta la divisione al comando del generale francese Suchet, che stava rientrando in territorio francese. 
   
MASSENA in effetti tentò di forzare quella sorta di blocco strategico, ma i suoi sforzi non approdarono a nulla nonostante le perdite consistenti (circa 5000 uomini, quasi un terzo di quanti egli direttamente comandava). Lasciata la divisione Suchet al suo destino, Massena non poté far altro che ripiegare su GENOVA e, approfittando delle sue fortificazioni, resistervi in attesa dell'arrivo di Napoleone o quantomeno della svolta nuova che questo avrebbe potuto dare alla guerra. 

Le FORTIFICAZIONI di cui Genova disponeva (ed alla cui difesa partecipava un giovane italiano che sarebbe diventato un grande della letteratura: UGO FOSCOLO) garantivano questo progetto, ma nello stesso tempo Massena, i suoi uomini e la stessa popolazione restarono prigionieri di quelle stesse difese, visto il grande spiegamento di forze nemiche operato dal Melas (circa 60.000 uomini) che crearono una sorta di invalicabile cordone intorno alla città fortificata...  anche il porto patì presto il blocco navale ad opera della flotta inglese, che peraltro avrebbe cannoneggiato sulla città. 

Genova, che mediamente contava su una popolazione di 85.000 persone, risentì di un notevole incremento demografico per il sopraggiungere dei profughi dei distretti sì che in breve tempo giunse a contare ben 120.000 residenti. A questi si dovettero poi aggiungere i 10.000 soldati di Massena che, tra l'altro, avevano diritto a priorità del vettovagliamento razionato dalla Commissione degli edili. I magazzini pubblici di derrate alimentari non erano peraltro particolarmente riforniti ... il principale nemico di GENOVA ASSEDIATA non fu costituito dell'armata nemica ma dalla CARESTIA. 

Per quanto non gli riuscì di impedire il bombardamento navale inglese, Massena ottenne di tenere lontani dalle muraglie e dalle colline di Albaro e della Madonna del Monte le forze nemiche e soprattutto le loro artiglierie. 

Massena onde porre un argine alla carestia fece allestire all'aperto delle cucine che rifornivano di zuppe di vegetali in particolare per chi non possedeva nemmeno un fornello. Molta gente, soprattutto gli sfollati delle Riviere, non disponeva neppure di un qualsiasi riparo e così si permise alla folla di ammassarsi nei porticati, sui sagrati delle chiese, lungo le "muragliette" che circondavano il porto. Per aiutare i poveri si pensò di stampigliare a loro vantaggio dei "buoni"... Anche i ricchi erano ormai in crisi e parecchi di loro dovettero adattarsi a ricercare il cibo dove fosse possibile, raccogliendo nei campi erbe commestibili o acquistando dai contadini a carissimo prezzo quei prodotti che in tempi recenti avrebbero invece considerato scarti degni solo di animali da allevamento. Ben presto, dai luoghi soliti della città assediata, svanirono cani e gatti, usati per l'alimentazione, ma la caccia si estese anche ad animali ben ripugnanti come ratti e topi: anche i pipistrelli "caddero vittime" dell'assedio e della conseguente carestia. La crusca, il miglio, lo stesso mangime degli uccelli gelosamente custoditi nelle voliere, e finalmente divorati, divennero una nuova forma di cibo: nelle case signorili i macinini d'argento soliti una volta a triturare le preziose spezie furono adibiti a rendere minute le granaglie che, qualche previdente, nell'ipotesi di un simile cataclisma, aveva messo da parte. 

La mortalità prese a dilagare: nell'ospedale di Pammatone i morti passarono dalla quota delle 197 unità nella settimana finale di marzo ai 590 della seconda settimana di luglio, quando l'assedio ebbe fine. Peraltro, quando giunsero i primi rifornimenti, si ebbe un fenomeno inverso: morirono di indigestione ben 1700 persone in quanto, anziché mangiare moderatamente per riadattare all'alimentazione ordinario un corpo emaciato con le interiora inaridite, si ingozzarono di cibo sì da pagarne conseguenze disastrose. 

E' difficile, vista la carenza dei documenti archivistici, calcolare con precisione il numero dei decessi: per esaltare la gravità dell'evento può in qualche modo contribuire il dato secondo cui lungo le rive del Bisagno vennero sepolti 9.850 cadaveri. 

Vista la latitanza dell'Armata di Riserva Massena si vide costretto a trattare ed accettare la resa. Le operazioni furono rapidissime e si svolsero ad un tavolo sistemato in una cappelletta sita in una cappelletta che al tempo esisteva circa a metà del ponte di Cornigliano. Vi "presero posto" il ministro Luigi Crovetto per la Repubblica Ligure, il generale Ott e l'ammiraglio inglese a rappresentanza delle forze alleate, lo stesso Massena che riservò a Genova e ai genovesi PAROLE DI ENCOMIO. Le condizioni furono favorevolissime e a Massena fu concesso quasi tutto quello che chiedeva. Non sapevano i francesi che tanta accondiscendenza dei vincitori dipendeva da notizie non ancora giunte a Genova, che cioé Napoleone si stava effettivamente avvicinando con l'Armata di Riserva e che Melas insisteva presso i suoi rappresentanti perché chiudessero al più presto la trattativa sì da poter disporre contro il Bonaparte di tutte le sue forze. 

Gli imperiali entrarono quindi a Genova pochi giorni dopo l'inizio delle trattative e cioè il 5 giugno 1800: le loro truppe marciarono sotto archi di trionfo innalzati dai conservatori sostenitaori degli austriaci. Non sarebbero trascorsi 20 giorni che, dopo la vittoria di Marengo, in un identico proscenio di vittoria sarebbero invece entrate nella capitale ligure le truppe francesi al seguito del generale Suchet...



mercoledì 28 ottobre 2015

La Sindone in viaggio per Genova nel 1706



 
Vittorio Amedeo II il 16 giugno 1706 si trovava in gravi difficoltà militari, essendo la città di Torino (proprio all'alba dei nuovi grandi conflitti e di nuove, micidiali tecniche di combattimento) stretta da assedio dai Francesi in occasione della guerra di GUERRA DI SUCCESSIONE SPAGNOLA.
Vittorio Amedeo II, dipinto di Anonimo, custodito nel Palazzo Reale di Torino
Il Duca di Savoia  ritenne utile cercare di mettere in salvo la sua famiglia nella città di GENOVA, che aveva pubblicamente offerta la sua disponibilità (vedi anche il lavoro di A. Neri, "Vittorio Amedeo e la Repubblica di Genova" in "Giornale Ligustico", 1881).
Oltre che per pietà verso i congiunti, la scelta del duca avvenne per ragioni politico-diplomatiche, intendendo egli avere eventuali eredi che, in caso di sua dipartita, potessero avanzare diritti di successione ad un eventuale tavolo di pace.
Il corteo in fuga da Torino risultò quindi composto dalla duchessa madre Giovanna Battista di Savoia Nemours, dalla moglie di Vittorio Amedeo II, cioè Anna d'Orleans, dai figli Vittorio Filippo e Carlo Emanuele, destinato a succedere a Vittorio Amedeo II col titolo di re Calo Emanuele III, dal principe di Carignano Emanuele Filiberto e dalla consorte di questo Caterina d'Este.
Al nobile corteo in fuga Vittorio Amedeo II assegnò anche la SANTA SINDONE, reputata un vero e proprio monumento della capitale sabauda; visto il grave pericolo di distruzione che questa che aveva recentissimamente corso (vedi l'importante saggio di Maria Delfina Fusina, Le Peregrinazioni della Sindone durante l'assedio di Torino (1706) in "Bollettino della Società degli Studi Storici di Cuneo", n.2, 1972, p.153).
Infatti proprio mercoledì 16 giugno una palla di cannone aveva attraversato la Cupola del Santo Sudario quasi per dar sostanza ad una profezia del comandante dei francesi, il colonnello La FEUILLADE, il quale si era ripromesso di celebrare il "Te Deum" in onore di S. Luigi IX Re di Francia il giorno a lui dedicato, cioè il 21 giugno.
Le trattative amichevoli con GENOVA per mettervi in salvo la famiglia il Duca le stava conducendo da un certo tempo anche se in linea del tutto segreta.
 
L'idea base sarebbe stata quella di condurre la famiglia nella potente BASE MILITARE DI SAVONA, la storica FORTEZZA DEL PRIAMAR.
Stando alle considerazioni del Bagnara si deduce però che la Serenissima Repubblica, rispondendo al Duca, sostenne che la FORTEZZA non era ambiente decoroso per ospitare i membri di una illustre casa regnante.
Per conseguenza la Signoria genovese offrì un'adeguata sistemazione a Genova: secondo la versione del Bargellini ("Storia popolare di Genova", 1854, p. 364) dietro a tale ostentazione di rispetto sarebbe anche risieduto l'intento di impedire al temuto Vittorio Amedeo II di poter accedere ai segreti di una fortezza ritenuta fondamentale per la tutela del genovesato.
Il VIAGGIO TORINO - ONEGLIA - GENOVA comunque si svolse e la sua prima SOSTA avvenne in territorio ancora sotto giurisdizione ducale, cioè a CHERASCO dove la SINDONE sarebbe stata,  stando al contenuto di una LAPIDE COMMEMORATIVA, esposta per tre giorni. Ripresa la spedizione alla volta di MONDOVI', una seconda SOSTA sarebbe avvenuta a CEVA: qui la famiglia ducale sarebbe stata ospitata da Carlo Emanuele Pallavicino, Marchese di Priola e dei Marchesi di Ceva.
Dopo questa tappa, il viaggio sarebbe continuato sulla direttrice di GARESSIO - ORMEA, per entrare finalmente in territorio ligure il 28 giugno quando fu raggiunta la base genovese di PIEVE DI TECO.
 
Questo importante borgo fu il primo di pertinenza della Superba, in cui sostò la SACRA SINDONE con la famiglia ducale, che, stando a quanto riporta il Bagnara, che attinge al lavoro della Fusina, fu accolta "con ogni rispetto e dimostratione".
Sul viaggio da questo paese d'alta valle sin ad ONEGLIA non si son trovati documenti significativi.
Giuseppe Maria Pira (a p. 87 del II volume della sua "Storia di Oneglia") si è limitato a descrivere la festosa accoglienza riservata in ONEGLIA alla famiglia ducale; ricevuta "in mezzo alle accoglienze di un popolo fedele che fiancheggiava la strada ai due lati lungo lo spazio di dodici miglia. La loro entrata in città fu un trionfo festeggiato con lieti suoni di campane, con salve di artiglieria, con replicati viva, con generale illuminazione e con tanta pubblica gioia che scordar facean il motivo della loro venuta e che preannunziavano il futuro trionfale loro ritorno alla capitale".
 
 
 
 
 
 
 
Per raggiungere la BASE PORTUALE DI ONEGLIA, e quindi attraversare il DOMINIO SABAUDO IN LIGURIA OCCIDENTALE, era comunque invitabile attraversare il NODO VIARIO DI CARAVONICA (IM) e, poichè in quel tempo le condizioni metereologiche furono a lungo avverse, non è affatto da escludere che la famiglia ducale con la SACRA SINDONE abbiano sostato proprio nel PALAZZO DELLA CONTESSA DI CARAVONICA.  

Caravonica
Stando alle acquisizioni fatte da Maria Delfina Fusina nel suo citato saggio del 1972 sulle "peregrinazioni della Sindone" è però certo che né a CARAVONICA come in alcun altro luogo del "GENOVESATO", che era pur sempre terra straniera, mai più si procedette ad una PUBBLICA OSTENSIONE DELLA SINDONE, affidata personalmente alla duchessa madre: sulla base delle ricerche della Fusina si apprende infatti che stando agli accordi intrapresi "entrando in terra genovese la Sindone...doveva d'ora in poi viaggiare in incognito".
Peraltro la Signoria genovese, rinforzando le guardie e la sorveglianza alla famiglia reale e quindi alla SINDONE, aveva pienamente aderito all'esplicita richiesta degli inviati del duca sabaudo per cui "il favore della temporanea ospitalità [sarebbe stato maggiore qualora fosse stato praticato] con tutta la più desiderabile cautela e segretezza".
La stagione metereologica fu così aspra, nonostante il periodo estivo, che la partenza dal PORTO DI ONEGLIA avvenne il 16 luglio, allorquando la Corte si imbarcò su 5 galere inviate dalla Repubblica di Genova (assieme alla famiglia ducale, a guisa di ambasciatori della Signoria genovese si imbarcarono anche 15 nobili, alla cui guida stava il Marchese Negroni de Nigra Rivarola, feudatario del marchesato del Mulazzano).
La nobile famiglia fece poi un'ulteriore SOSTA a SAVONA; quindi sabato 17 luglio 1706 alle ore 22 i vascelli con la famiglia ducale giunsero a GENOVA, sbarcando al PONTE REALE, per la circostanza ricoperto di tappeti e circondato da una folla plaudente.
La sistemazione della famiglia di Vittorio Amedeo II solo in un primo momento presentò qualche problema, poi tutto si risolse facilmente.
Per il seguito di cavalieri e paggi la sistemazione fu trovata nel convento dei Bernabiti a S. Bartolomeo degli Armeni, mentre la residenza di Anna d'Orleans, degli infanti e della ducessa madre fu individuata nel palazzo del magnifico Ignazio Pallavicini, detto VILLA DELLE PESCHIERE.
Visto che sussisteva qualche noto attrito tra la DUCHESSA MADRE e ANNA D'ORLEANS, il capo dell'ambasceria genovese Marchese Negrone de Negri in una lettera custodita presso l'Archivio di Stato di Genova, riportata dal BAGNARA, aveva per cautela scritto alla Signoria (ottenendo soddisfazione):" Savona, 13 luglio 1706 a' ore 9/ Non devo tacere a Vostre Signorie Serenissime una notizia che ho et è che queste Principesse vivono tra loro con qualche sorta di gelosia....Di già fra esse, affinché resti totalmente sepolta piccola contesa insorta per l'alloggio costì, resta convenuto che l'appartamento superiore del Palazzo fatto prepararae in Multedo spetterà a Madama la Duchessa e Prencipini e l'inferiore o sia l'appartamento al piano del portico a Madama Reale".
Le duchesse condussero vita abbastanza ritirata, ma ciò non impedì loro di visitare chiese e conventi, spesso suscitando la preoccupazione dei religiosi per l'inevitabile seguito del patriziato genovese.
Poi Torino fu liberata dall'assedio e il 13-IX-1706 degli emissari di Vittorio Amedeo II si presentarono al Doge genovese per i dovuti ringraziamenti; praticamente subito col placet senatoriale fu riconcessa la flotta che aveva condotto da ONEGLIA a GENOVA il corteo regale con la SANTA RELIQUIA.
A capo della missione fu posto ancora il Rivarola e il viaggio di ritorno, che ricalcò alla perfezione o quasi quello di arrivo, si svolse senza problemi: alla partenza le duchesse furono omaggiate, come scrive il Bagnara, con 16 cassette di dolci e di acque d'odore (profumi).
Raggiunsero Torino il 2 ottobre e la SINDONE potè essere ricollocata dal Beato Sebastiano Valfré nella Cappella sua sede designata.
Subito Vittorio Amedeo II, ancora impegnato nella guerra nel campo militare di Cava Corta presso Lodi, fu avvertito del successo del ritorno e del salvataggio della reliquia: fu questo l'ultimo viaggio della SINDONE fino al secondo conflitto mondiale.
 
 


domenica 25 ottobre 2015

Risorgimento inedito

Uno scorcio della Taggia (IM) odierna: al termine del ponte antico, la dimora che appartenne al lato materno della famiglia dei Fratelli Ruffini
Jacopo Ruffini di Taggia (IM) fu arrestato a Genova dalla Polizia Sabauda il 13 giugno del 1833 e venne rinchiuso nelle prigione dello "SCALINETTO" al "PALAZZO DUCALE". 
Jacopo e Giovanni Ruffini, dopo l'arresto di Mazzini dell'11 novembre 1831, si erano impegnati a riordinare le fila della "Giovine Italia" e Jacopo prese decisamente il comando delle operazioni nel corso di una riunione in cui furono presenti, oltre al fratello, anche i patrioti Napoleone Ferrari, Federico Campanella ed il Marchese G.B. Cambiaso, personaggi tutti cui Giovanni avrebbe poi riservato una parte ed uno pseudonimo nel suo romanzo LORENZO BENONI. 
Gli inquisitori si servirono di DELAZIONI di alcuni ex cospiratori, che sorpresi ed arrestati ottennero una mitigazione delle pene colle loro CONFESSIONI. 
Tra gli arrestati vi fu anche il fratello dei due RUFFINI, l'avvocato Ottavio, totalmente estraneo alla causa risorgimentale e per sua fortuna, , non riconosciuto dai DELATORI o PENTITI in una sorta di confronto all'americana. 
Ben diversa fu invece la sorte di Jacopo. Fu posto drammaticamente a confronto col delatore LUDOVICO TURFFS del Corpo Reale di Artiglieria. 
Jacopo Ruffini, nonostante le accuse e le testimonianze avverse, rimase fiero nella sua posizione. Il crollo psicologico avvenne però poco dopo quando il giudice inquisitore gli fece leggere la ben più vasta, dettagliata e gravemente accusatoria PROPALAZIONE DEL TENENTE PIANAVIA VIVALDI (di Taggia). Ricondotto in cella, nella notte tra il 18 e il 19 giugno del 1833, JACOPO si tolse la vita. 
Giuseppe MAZZINI intervenne su questa terribile condotta del PIANAVIA ma usò parole notevolmente compassionevoli per l'antico cospiratore, che si era fatto infame e vigliacco per salvarsi la vita: "Le rivelazioni dell'ufficiale Pianavia Vivaldi sono la principale sorgente di tutti gli arresti. Costui era tutt'altro che agente provocatore; la paura della morte lo ha fatto infame. Sette sergenti gli furono fucilati sotto la finestra in Alessandria mentre egli era in prigione e l'ottavo doveva essere egli stesso ove non rivelasse. Un suo fratello avvocato fu mandato da genova per indurlo a confessare. Ogni specie di tormento morale fu messo in opera ed egli rivelò. Fatto il primo passo sulla via dell'infamia, si vide perduto nell'opinione dei buoni, rovinato con i patrioti e si lasciò trascinare a percorrerla tutta. Ora par preso da una febbre di rivelazioni: il Governo, con continue minacce, con un dirgli incessantemente 'non basta, non potete fuggire alla morte ove non rivegliate altro' lo riduce a false accuse contro chi è innocente. Chi è più infame tra lui e il Governo? Il popolo atterrito dai primi colpi incomincia ora a sollevare il capo, mormora altamente. In Alessandria per tutto vi è fermento, un grido di orrore contro il Governo e contro il Generale Galateri, Governatore della città".



giovedì 22 ottobre 2015

L'aceto dei quattro ladri

Una leggenda della SALVIA come erba medicamentosa sorse nel XVII sec. con un fatto criminale durante un dramma quale l'EPIDEMIA DI PESTE.
Nel 1630 Tolosa era tormentata dalla PESTE ma "sette (o "quattro", secondo un'altra versione) ladri" continuavano a saccheggiare le case ed a depredare i cadaveri degli appestati restando immuni.
I delinquenti vennero alla fine arrestati e furono interrogati.
Fatto il processo vennero condannati a morte: ma il giudice conoscendo le loro prodezze e saputo che, prima di avventurarsi tra le case piene di cadaveri, si strofinavano sul corpo un unguento, chiese loro di cosa si trattasse.
Secondo il francese Messegué, illustre erborista moderno (nel volume "Uomini, erbe e salute"), si sarebbe trattato dell'unguento composto da timo, lavanda, rosmarino e salvia macerati in aceto, destinato a passare alla "storia" col nome di "ACETO DEI QUATTRO LADRI".
E' impossibile che l'intruglio funzionasse contro la PESTE, ma nel '600 ebbe comunque un forte ascendente sul popolo che lo chiamò anche ACETO DEI SETTE LADRI (un'altra variante della formula comportava l'aggiunta di ruta e canfora).
L'"ACETO DEI SETTE (O QUATTRO LADRI)" ottenne comunque una certa rinomanza e fu riutilizzato a Marsiglia quando la città, assieme a tutta la PROVENZA, un secolo dopo fu colpita da altra epidemia: in questo caso l'aceto fu arricchito dall'uso di un'altra pianta ancora, l'AGLIO.

domenica 18 ottobre 2015

Quando l’Europa conobbe il tè

 Un libretto, dal piccolo inconsueto formato 8 x 15 rilegato in pelle bianca, ci porta dal 1600 una testimonianza un poco strana sul : 'Ambrosia Asiatica, seu de virtute et visu herbae the sive cia... Auctor Simon de Molinariis genuensis..., Typis Antoni G. Franchelli MDCLXXII'.
Dopo numerose pagine di dedica e di elogi al cardinale Lorenzo Raggio, ed una prefazione 'ad Lectorem, il Molinari ci ragguaglia sulla Cina, province di Suchuen e Pukiang, e sull'alchimista 'Hoangtro, nomine primum apud eos in hac arte (quella del ) floruisse ferunt bis mille quingentis annis ante adventus Domini... illum parentem habuisse Sem, filium Noe...'.
Bella cosa che un cinese, esperto del intorno a 2500 anni a.C., abbia avuto antenato Sem, figlio di Noè.
Dopo i ragguagli sul nome, che è per 'Sinenses et Malakiani the, Japanenses et Tonkinenses t'sia...' ci informa che '... flores sunt albicantis coloris, odore levi et fragranti nostris rosis simillimi'.
E riferisce il testo italiano di un gesuita che era stato in Oriente: 'P. Bartolus de visu chà haec habet verba: ... si bee il cia, qual è un herba colà famosissima la cui decotione conforta molto e rinvigorisce lo stomaco, e l'han in così gran conto che altro che vasa pretiosa non adoprano per stemperarlo e berlo... Volendo onorare qualche forastiere il conducono alla stanza della casa destinata a condire il beveraggio del Ciàdetto da essi Cianiù, cioè a dire acqua calda per il tè'.
Siamo dunque alla celebrata cerimonia del , legata ai riti del buddismo zen, riassunto di ideali estetici di perfezione.
Anche di un altro gesuita, Bernardino Giomaro, sono riferite analoghe informazioni.
Quanto al cianù in lingua giapponese d'oggi è chà no yu, costruzione inversa, per 'acqua calda del te'.
La bevanda poi la considerò, per esperienza personale, un infuso di fieno, al più utile a coltivar rotiferi e infusori.
Ma i giapponesi la considerano umai, deliziosa, Okakuro Kazuko, nel Libro del Tè, scritto nel 1906, dice: '... uomini nei quali non vi è tè', per indicare persone senza sensibilità,... senza sale in zucca, diciamo noi.
Il Molinari riferisce anche brani di storia cinese, come la truce vicenda dinastica accaduta appena trent'anni prima della stampa del libro: 'Latronis eiusdam sinensis Licungzio nomine de provincia Suchuè immanentem audaciam... extinctam iarn in expugnatione urbis Peking', e deposto il monarca Zungchi... 'coronatum in regale Palatio stantem, nulla spe superstite salutis,... perempta (uccisa) suis manibus unica dilecta filia ne in sui (dell'usurpatore) ludibrium duplici morti interiret, conscito sibi laqueo de viminibus ab arboris prunorum regi viridari pependit (s'impiccò) anno 1644'.
Si tratta degli inizi dell'ultima dinastia, durata fino al 1912.
Ma sono riferite anche ricette farmaceutiche, con varie droghe, assieme agli infusi di tè: '... Perevium corticis, vulgo Cinna (china) tutissimum... periodicae et malignae febris flagellum... quinimo, de hoc eodem cortice prius inscriptum opus a doctissimo Sebastiano Bado, nostrae civitatis medico celeberrimo'...
Amene gratuità si intrecciano nel testo, fino a consigliar ricette come la seguente, pei casi 'calamitosis ac deplorabilibus appoplexiae ac paralisis effectis', che trarranno beneficio dal tè, purché '... addito illi scrupulum I extracti cranii humani', da prepararsi come segue: 'Recipe: pulveris aut limaturae crang humani recentis et violenta morte...'. La qual ricetta ci scoraggia a proseguire nella lettura del Molinarius.
Questo singolare autore sulla diffusione del tè in Europa scrive: 'Huius herba notitia reduces ad nos mercatores Batavi exposuerunt sub annum 1649... potionem vero ab iisdem quidem habuimus primo Amstelodami modo'.
Veramente ben 122 anni prima il veneziano G.B. Ramusio in Della Navigatione e Viaggi (Venezia 1550), nel capitolo Chai Katai, aveva mostrato come il tè fosse ben noto a Venezia.
Anche Paolo Boccone, contemporaneo del Molinari, essendo viaggiatore ed autentico naturalista aveva stampato a Parigi (1672) Recherches et observations naturelles ed Icones et Descriptiones variorum Plantarum, con riferimenti alla pianta del tè.
Comunque entrambi, il genovese Simone Molinari ed il palermitano Boccone, precedettero di un secolo l'importantissimo e metodico Linneo (1753) nella descrizione del .
Nel 1658 comparve a Londra su Mercurius Politicus una prima inserzione pubblicitaria per il tè: '... venduto alla Sultanes Head Coffee House, in Sweeting Plant...'.
 
 
 

mercoledì 14 ottobre 2015

Il “Liber Nobilitatis” della nobiltà di Genova

 Il “Liber Nobilitatis” della nobiltà Genovese ha inizio come libro "civitas" nel 1056. In tale periodo Genova è retta da un governo Repubblicano con i suoi Consoli, con due gruppi di famiglie che cercano di primeggiare: le “Viscontili” cioè quelle investite di dignità e feudi dalla Chiesa e le “feudali” cioè quelle che discendevano oneri e privilegi dall’Impero. Nel 1190 finito il Governo Consolare fu stabilita che la suprema autorità doveva essere scelta in un “forestiero” coadiuvato da un consiglio di otto anziani.
Questi otto furono detti “nobili” e le loro famiglie cominciarono così a distinguersi dalle altre dette “popolari”. Qui comincia la divisione in ceti e la costituzione della classe dei “nobili”, cioè coloro che partecipavano al “governo”.
Tale sistema durò fino al 1257, anno in cui fu modificato con la creazione dei “capitani del popolo”, finchè nel 1339 venne abolito il sistema del potestà forestiero e si passò all’elezione a vita di un doge genovese.
Con il periodo podestarile si ha l’inizio della divisione a Genova delle fazioni dei guelfi e ghibellini. I guelfi avevano come capi i Fieschi e i Grimaldi. I ghibellini i Doria e gli Spinola.
Dopo varie lotte per la supremazie, nel 1339 ebbero la meglio i ghibellini che abolirono i potestà e proclamarono Simone Boccanegra, primo doge, “Signore della Repubblica e difensore del popolo”.
Dal governo furono escluse le famiglie guelfe praticamente fino al 1528.
Nel 1339 nacque quindi una nuova categoria di nobili, cioè quelli che partecipando al consiglio del Doge presero parte al Governo dello Stato. Questi nobili furono detti “popolari”. La distinzione “popolare” era tale solo per distinguerli da quelli fino al 1257. Coloro che avevano cariche di governo furono detti “popolari egregi”. I capi popolari furono gli Adorno, i Fregoso, i guachi e i Monaldo.
I popolari si distinsero a loro volta in “Artifices” che esercitavano le Arti e “Mercatores” coloro che vivevano senza esercitare le arti.
I Mercatores ebbero le cariche principali, gli Artifices ne erano costantemente esclusi.
Nel governo popolare ghibellino i Mercatores tennero il potere dal 1339 al 1506, gli Artifices dal 1506 al 1507.
Dal punto di vista formale, dall'inizio del regime comunale in poi, i detentori del potere vengono appellati “Cives”. I primi annalisti usano, infatti, il termine “nobilis” dapprima quale aggettivo di “civis” e poi quale sostantivo.
I “popolari” come i Giustiniani, i Sauli, i Fregoso o gli Adorno, anche se conti palatini, milites, signori feudali o dogi, sono “cives”, qualificati negli atti genovesi come egregii, domini, illustri, spettabili, magnifici, a seconda della posizione sociale o della carica esercitata, ma mai come “nobilies” fino alla riforma del 1528.
Abbiamo quindi varie distinzioni della nobiltà Genovese fino al 1528:
Nobili viscontili e feudali detti “Nobiles Albi”,
Nobili civili detti “Nobiles nigri”,
Popolari mercanti e popolari artefici divisi in Mercatores et Artifices. Albi parteggianti per gli Adorno e Mercatores et Populares nigri parteggianti per i Fregoso.
Ricordiamo inoltre che sin dal 1383 a Genova si costituirono i cosiddetti “alberghi”, delle consorterie che riunivano varie famiglie mediante l’assunzione di un unico cognome in genere quello della famiglia più potente.
L’istituto degli alberghi fu ripreso nella costituzione del 1528.
Nel 1527 i Francesi più volte chiamati e cacciati erano i veri padroni della Repubblica in preda alla più completa anarchia. Dall’esigenza di unificare questi gruppi nobili in un solo corpo organico ("ordo unicum") fu creato il “Liber Nobilitatis Genuensis” con la formazione della nobiltà patriziale nel 1528.
A compiere questa opera di riunificazione fu Andrea D’Oria, già ammiraglio della flotta di Carlo V dotato di grande capacità militare e politica.
Si accordò con Cesare Fregoso e il 22 agosto 1527 espulse gli Adorno da Genova in nome del Re di Francia ed eletti due “riformatori” con pieni poteri per potere riformare tute le leggi che ritenessero opportuno.
Il 2 aprile 1528 sui propoposta di Agostino Pallavicino i riformatori decretarono che: “salva sempre l’autorità del cristianesimo Re si abolisca e sia eletto ogni colore dei nobili come popolari, di guelfi e ghibellini e di caduna altra specie e divisione, e che si faccia e stabilisca uno Corpo di una civiltà qual sia ad unum velle et unum nolle, sotto quelli modi forme e nome quali parranno a quelle persone cui ne sarà data cura; di fare e stabilire questo effetto si dia a quelle persone e a quello numero di cittadini, quali possino parere et occorrere all’illustre Signor Governatore e Magnifici anziani con quelle facoltà, autorità e balia, quali mai ad alcun altro sia stata data per agire e comparire innanzia al Magnifico Ufficio di San Giorgio et potere impugnare et obbligare ogni pegno del Comune si in genere come in specie et ulterius per obviare che il pericoli et mali ect.”.
Per iniziare la riforma il D’Oria volle che la Repubblica fosse indipendente ed il 12 settembre 1528 vennero espulsi i francesi. Rifiutata la corona di Genova la costituzione della Repubblica di Genova fu promulgata l’11 ottobre 1528. 
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Le famiglie che in base alla nuova costituzione ebbero la facoltà di formare un albergo furono 28 di cui 23 nobili e 5 popolari (Giustiniani, Sauli, Promontorio, De Fornari, De Francisci).
Escluse furono le famiglie Adorno e Fregoso di cui si volle cancellare ogni memoria.
I cognomi presenti nel libro sono più di 600. Questo era dovuto all'iscrizioni delle famiglie in albelghi che come detto erano aggregati di più persone con cognomi diversi e per evitare omonimie i nobili venivano trascritti anche con il cognome di origine, anche perchè nonostante la legge i vecchi cognomi non vennero mai seriamente abbandonati.
Gli ascritti (vivi e morti) sono indicati con la sola paternità solo quando si tratta di titolare dell'albergo, mentre è indicato il cognome di origine quando si tratta di aggregati.
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L’amministrazione della Repubblica è affidata a quei cittadini iscritti nel “Liber Nobilitatis” e quindi la custodia e l’amministrazione di questo libro saranno tenuti nella massima considerazione.
Di tale libro saranno tenuti due esemplari originali. Uno presso il Doge in carcia e l’altro presso i procuratori. Ogni variazione sarà effettuata su tutti e due i libri.
Queste in sostanza sono le Leggi del Casale che senza troppe modifiche restauro in vigore fino alla fine della Repubblica Genovese nel 1797, quando Il libro d'oro verrà bruciato in piazza Acquverde il 14 giugno per ordine del governo provvisorio, lo stesso che ordinò di scalpellare o almeno coprire tutti gli stemmi delle famiglie nobili persino nelle Chiese.
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Questo censimento arriva fino al 1554. Poi anche per queste famiglie resta il vuoto tra il 1554 ed il 1562. E' apparso anche evidente, analizzando le copie, che il liber nobilitatis all'inizio era stato compilato in modo molto casalingo, anche perchè una parte dei primi nomi dovevano derivare dall'iscrizione nei libri precedenti in quanto sono privi dell'indicazione della paternità ne della data di iscrizione. Non parliamo poi di tutte le altre indicazioni divenute obbligatorie dalla metà del 1600. Un altra difficoltà è anche che stessi cognomi sono aggregati in alberghi diversi.
Ricordiamo comunque che nella Repubblica di Genova i nobili doveva essere circa 2.000 persone, ovvero nei piccoli centri o anche in città dovevano conoscersi alla perfezione, questo spiegherebbe perchè all'inizio non vi sia stato ritenuto necessario mettere tante precisazioni nelle trascrizioni.
Teniamo inoltre conto che il liber nobilitatis del 1528 comprende anche tutti i nomi contenuti nei libri “civilitatis” precedenti, i cui nomi sono raggruppati non più per albergo ma per famiglia d’origine.
La stesura definitiva del libro e della sua rilegatura venne di fatto terminata nel 1603, ma nel frattempo deve esser stata scoperta qualche froda genealogica, perché nel 1606 ci fu una revisione degli iscritti, con particolare riguardo ad eventuali casi di asserite discendenze da antenati morti in realtà senza prole.
Il libro definitivo viene approvato dal Doge e dai Governatori il 28 dicembre 1621. Il censimento dal 1606 al 1621 è contenuta nella famosa busta 525 dell’archivio segreto di Stato.
Complessivamente dalla Legge del 1528 che aboliva gli alberghi sono passati 45 anni fino alla stesura definitiva: 14 per approvare la legge di attuazione, 13 per l’esecuzione e 18 per il controllo.
La scomparsa e/o distruzione dei precedenti Liber civilitatis, fa venire il dubbio se sia stata effettuata insieme al Liber Nobilitatis dai Francesi o per il desiderio di evitare i controlli.
Dal 1606 in avanti, comunque le Leggi affinano il modo di iscrizione, prescrivendo che venga iscritto anche l’anno di nascita il nome del padre e dell’avo, la data ed il luogo di battesimo e infine le modalità di iscrizione perché figlio di patrizio o di nuova trascrizione.


 

lunedì 12 ottobre 2015

La scoperta di una mummia nel 1485

 Una scoperta eccezionale, che confuse Roma tutta e fece vacillare alcune coscienze, fu fatta alla fine del XVI secolo nel corso di lavori casuali di sterro e recupero materiale edilizio sulla via Appia.
Nell'aprile del 1485 alcuni operai scoprirono non lungi da Roma durante uno scavo presso la "via Appia" scoprirono un SARCOFAGO dal contenuto straordinario: in esso stava il corpo mummificato di una ragazza romana di notevole bellezza: il sarcofago, per volere dei "Conservatori della città" venne esposto per due giorni al "Palazzo dei Conservatori", di modo che una folla enorme (oltre 20.000 persone si recarono a visitarlo), spinta dalla convinzione di un fatto miracoloso ed anche dalla superstizione, ritenendosi che presso il corpo fosse stata rinvenuta una lucerna ancora accesa dopo oltre mille anni di inumazione).
Per evitare il crescere della superstizione, Papa Innocenzo VIII ordinò che il corpo di notte fosse di nuovo portato in luogo segreto e disperso nei dintorni di "Porta Pinciana" [non si deve comunque dimenticare che Papa Innocenzo VIII fu uno dei pontefici che maggiormente caldeggiarono la lotta contro il supposto demoniaco; e in particolare la Caccia alle Streghe sì da pubblicare questa sua "Bolla" Summis Desiderantes. E ancora che nel contesto di superstizione rientrava anche un giudizio tanto ambiguamente interessato quanto oscuro e destinato ad alimentare leggende varie sulle Mummie, sul loro presunto potere terapeutico, sul "magnetismo della mummia" ma anche su un suo lucroso commercio connesso addirittura ai Cavalieri Templari , tanto lucroso di giungersi alla contraffazione di irrecuperabili mummie vere con le orribili mummie effimere].
Il DISEGNO DEL CORPO MUMMIFICATO ("disegno a penna colorato all'acquarello, in lettera di B.Fonte a F.Sassetti, Coll. Prof. B.Ashmole, Oxford") è opera di un testimone oculare dello straordinario evento, l'umanista Da Fonte, che ne scrisse all'amico fiorentino "Sassetti", che a sua volta fece resoconto del fatto al dottissimo amico "Lorenzo il Magnifico de' Medici". Così annotò il "Da Fonte": "Bartolomeo Fonte al suo amico Francesco Sassetti salute...
Mi hai pregato di dirti qualcosa sul corpo di donna trovato di recente presso la Via Appia. Spero soltanto che la mia penna sia in grado di descrivere la bellezza e il fascino di quel corpo. Se non ci fosse la testimonianza di tutta Roma il fatto sembrerebbe incredibile...Nei pressi della sesta pietra miliare dell'Appia, alcuni operai, in cerca d'una cava di marmo, avevano appena estratto un gran blocco quando improvvisamente sprofondarono in una volta a tegole profonda dodici piedi. Rinvennero colà un sarcofago di marmo. Apertolo, vi trovarono un corpo disposto bocconi, coperto d'una sostanza alta due dita, grassa e profumata. Rimossa la crosta odorosa a cominciare dalla testa, apparve loro un volto di così limpido pallore da far sembrare che la fanciulla fosse stata sepolta quel giorno. I lunghi capelli neri aderivano ancora al cranio, erano spartiti e annodati come si conviene a una giovane, e raccolti in una reticella di seta e oro.
Orecchie minuscole, fronte bassa, sopraccigli neri, infine occhi di forma singolare sotto le cui palpebre si scorgeva ancora la cornea. Persino le narici erano ancora intatte e sì morbide da vibrare al semplice contatto di un dito. Le labbra rosse, socchiuse, i denti piccoli e bianchi, la lingua scarlatta sin vicino al palato. Guance, mento, nuca e collo sembravano palpitare. Le braccia scendevano intatte dalle spalle, sì che,volendo, avresti, potuto muoverle. Le unghie aderivano ancora saldamente alle splendide, lunghe dita delle mani distese; anche se avessi tentato non saresti riuscito a staccarle. Petto, ventre e grembo, erano invece compressi da un lato, e dopo l'asportazione della crosta aromatica si decomposero. Il dorso, i fianchi e il deretano avevano invece conservato i loro contorni e le forme meravigliose, così come le cosce e le gambe che in vita avevano sicuramente presentato pregi anche maggiori del viso.
In breve, deve essersi trattato della fanciulla più bella, di nobile schiatta, del periodo in cui Roma era al massimo splendore.
Purtroppo il maestoso monumento sopra la cripta è andato distrutto molti secoli or sono senza che sia rimasta neanche un'iscrizione. Anche il sarcofago non porta alcun segno: non conosciamo né il nome della fanciulla, né la sua origine, né la sua età



martedì 6 ottobre 2015

Sull'epidemia di colera del 1835

 Ultima (le prime notizie risalgono al 1817) a giungere in Europa tra le Grandi Patologie che flagellarono l'umanità fu il Colera,  che ripristinò l'avvento di antichi superstiziosi terrori.
La prima epidemia si manifestò in Spagna (Galizia, 1831) e raggiunse quindi la Francia (Parigi stessa nel 1832). 
 
Nel 1832 furono presi i primi provvedimenti profilattici nel Regno di Sardegna.
Rispetto a Parigi e al territorio francese l'epidemia di colera giunse più tardi in Italia, penetrando nel Ponente di Liguria nel 1835. 
 
Tra i primi provvedimenti terapeutici vi è una relazione tenuta durante una frenetica adunanza presso l'Università di Nizza, città all'epoca dipendente dal governo di Torino. E in conseguenza di siffatta adunanza i Commissariati locali di Sanità promulgarono precise ordinanze cui succedette, esplosa la malattia, tutta una serie di espedienti e di terapie nella speranza di sanare gli infetti.
 
Le Autorità non volevano che serpeggiasse la superstizione; e con la superstizione il caos e la violenza. 
 
Era ben noto quanto fosse stata terribile la seicentesca triste storia panitaliana degli Untori sospettati di spargere la Peste e come la popolazione più umile cedesse facilmente a queste false credenze.
 
La dimostrazione che la superstizione era una vera piaga, assai utile spesso a mantenere saldo il Vecchio Regime in Italia contro le azioni patriottiche e rivoluzionarie, e che si sarebbe spesso riscontrata, specialmente a fronte di eventi apparentemente inspiegabili, si può riscontrare dal seguente episodio: dato che nel Sud d'Italia il colera persisteva ancora nel 1837, il patriota Luigi Settembrini scrisse della diffusa convinzione, alimentata da emissari del morente Governo Borbonico, che vi fossero Untori, diabolici o meno, avvelenatori dei pozzi d'acqua.
 
Anche a parecchi anni di distanza restò sempre viva, specie fra gli intellettuali politicamente impegnati, la lotta contro le sinergie fra interessi economici e/o politici e lo sfruttamento delle false credenze. Specie quando fu sparsa e poi alimentata tra la povera gente, in particolare nei contesti rurali meridionali, la voce, durante la propaganda istituzionale del chinino per combattere la piaga della Malaria che quanti sostenevano giustamente l'efficacia del nuovo medicamento fossero in effetti dei presunti o ben prezzolati Untori: una diceria avallata dai ceti egemoni e latifondisti produttori ad altissimo prezzo del medicamento e fortemente contrari che, monopolizzandone la produzione, il nuovo Regno d'Italia ne calmierasse il prezzo rendendo accessibile a tutti la medicina.
 
Il colera del 1835... come si legge in un manoscritto, il Manoscritto Borea di Sanremo, attaccò in Giugno a Tolone... ripigliò in Marsiglia con Maggiore Stragge nelli ultimi di Luglio ed Agosto in Nizza infuriò. Fu posto il Cordone ("sanitario") che vi restò sino alli 14 alla sera, fu poi levato in Nizza, ne morivano in Villafranca ma il Ducato ("Sabaudo") ne restò preservato. A Cuneo incominciò il Giorno 28 Luglio e li 14 il Totale di Cuneo era 825 morti, secondo i Medici 304 dai Parochi che danno le note al Governatore 422... Alla Spinetta ha fatto molta Strage, la Festa dell'Assunta si è fatta di Devozione solamente riservandosi a fare una Festa di Solennità in Rengraziamento in S. R.° dove ("dal") 20 Luglio a tutto li 17 Ag.osto morti due Etichi, una Asmatica e un di Colpo fulminante.
 
Il colera attaccò anche Genova, che pur poteva usufruire di un valido sistema di ospedali e lazzaretti: ma come in tutte le Province di Liguria poco era fattibile contro la virulenza del male epidemico e nel Giorno 23 fecero la Processione della Croce coll'intervento di tutte le Confraternite, Comunità Religiose anche di Beretta e S. G. (le Processioni avvenivano secondo norme precise che comportavano i vari diritti alle Precedenze tra Clero e Autorità): il male si fecce più serio, morti varij dei Principali, Balbi, Galdi di Finale ed altri molti Professori in Medicina e Cherurgia. Il giorno 29 si contavano 1800 amalati Circa e 800 circa morti,
 
Ma dopo questa emergenza del 1835, i provvedimenti che il Governo Sabaudo e poi quello Italiano  presero nell'evenienza di Pandemie provenienti da Occidente ebbero un perno - essendosi realizzata con l'Unità d'Italia la nuova Frontiera Italo-Francese - nel fatto che la stessa Strada della Cornice e la nuovissima Linea Ferroviaria risultassero sempre e continuamente soggette - prima che viaggiatori dalla Francia entrassero nel territorio di Ventimiglia (IM) - ad attenti controlli. Come ben si evince da un Bando del prefetto della Provincia di Porto Maurizio E. Bermondi che nel 1885 che, sentendosi parlare di Colera in Francia, impose severi controlli tra cui quello in base al quale "Tutti i viaggiatori provenienti dalla Francia, che entreranno nel territorio della Provincia per la strada detta della Cornice o per la Ferrovia, saranno sottoposti, fino a nuove disposizioni, all'Osservazione Sanitaria, ed alle Contumacie per giorni cinque nel Lazzaretto di Latte presso Ventimiglia". 

 
 

venerdì 2 ottobre 2015

I Fogli Volanti

Il documento qui riportato è raro ed importante in se stesso, oltre per la tematica che affronta; ma lo è altresì in quanto appartiene a quella serie di particolarissimi DOCUMENTI, appartenenti al PREGIORNALISMO (CHE VOLENDO PUO' FARSI RISALIRE AGLI ACTA DIURNA POPULI ROMANI).
 
In effetti, dal medioevo al XVII secolo si ricorse per le pubbliche comunicazioni - dato il diffuso analfabetismo -  all'uso di funzionari specifici, detti Cintraci (Cintraco) o Preconi (Precone), che convocavano nei luoghi istituzionalmente deputati (cioè di vasta risonanza sociale, pubblica e religiosa) il pubblico a suono di tromba. Gradualmente, crescendo l'alfabetizzazione, sempre nei luoghi come detto delegati,  si prese - dopo averli però sempre letti ad alta e ben comprensibile voce - anche la consuetudine di affiggere i documenti importanti per la vita pubblica sotto forma di avvertimenti a stampa su sostegni murari. Tra cui le Grida di manzoniana memoria, che costituiscono comunque termine panitaliano per la pubblicazione o attivazione pubblica per mezzo di comunicazione orale ed esposizione a stampa di documenti essenziali...

Non molti lo sanno ma il teorema moderno dello SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA era all'epoca intermedia enfatizzato, come scritto, con una SCENOGRAFIA ORRORIFICA CHE PER SVOLGERE IL SUO RUOLO AMMONITORE SULLA FOLLA UFFICIALMENTE CONVOCATA DA PUBBLICO BANDITORE OBBLIGAVA IL CONDANNATO A PROCEDERE RICOPERTO DEL SANGUE DELLE TORTURE SIN AL PATIBOLO.

Tuttavia, risalendo nel tempo, specie al XVIII secolo, ma ancora ai primi del XIX, si nota che l'informazione su svariati argomenti di vita pubblica e ordinaria venne consegnata ad una vera e propria forma di CRONACA, a sua volta, nei più variegati aspetti, affidata a strumenti particolari detti gergalmente "FOGLI VOLANTI" (MA ANCHE "RAGGUAGLI" E "NOTIZIE" SPESSO SEGUITI COME SOPRA DALL'AREA GEOGRAFICA DI COMPETENZA).

I FOGLI VOLANTI ebbero vita duratura e sopravvissero anche nel periodo in cui i GIORNALI PERIODICI SI ERANO ormai AFFERMATI (ADDIRITTURA PARTENDO DA FRAGILI ESEMPI NEL '600).
Contestualmente i produttori dei citati FOGLI VOLANTI, prima che questi divenissero palesemente obsoleti, cercarono di rivitalizzarli e conferire loro una certa vitalità con l'inserimento di STAMPE; QUALCHE VOLTA ACCOMPAGNATE DA IMMAGINI REALI ED ANCHE ORRIPILANTI, GRAZIE ALL'INVENZIONE ED USO DELLA MACCHINA FOTOGRAFICA: SI POTEVANO INSERIRE NEI SUDDETTI "FOGLI" DELLE RAFFIGURAZIONI DI SPETTACOLI DI GIUSTIZIA, POI USATE ANCHE - SECONDO UN MACABRO USO  OTTOCENTESCO - QUALI CARTE DA VISITA.

Ritornando qui a dissertare dei "FOGLI VOLANTI" è da dire che essi recavano in origine su 4/8 pagine l'esplicazione di vicende varie anche su cataclismi naturali [Distinta relazione ed esatto sincero ragguaglio dell'insorto temporale il Mercoledì 22 Giugno 1763 in Venezia con li danni e ruine cagionate (Venezia, per G.B. Occhi, 1763)]; qualche felicemente avvenimento come il riscatto dai Turchi di schiavi cristiani [Vera, e distinta relazione ossia nota del nome e cognome, e patria di n. 60 schiavi liberati dalla reggenza di Tunesi ( fine '700, verosilmilmente stampato a Venezia)]; resoconti di guerre e battaglie [Notizia autentica della distruzione della squadra francese avuta con lettera da Napoli, Napoli, il dì 3 settembre 1798 (senza luogo ma dello stesso anno)], di eventi mondani [Relazione dell'Ingresso di sua ecclelenza Girolamo Ascanio Giustiniani K.re Amabasciatore ordinario al Sommo Pontefice Clemente XIII. Rezzonico Veneziano Il Giorno 20. Novembre 1763 (Venezia, per G. B. Occhi, non indicata ma stessa data) ] quanto religiosi [Manifesto di ciò che si è veduto nel Gloriosissimo e Superbissimo Ingresso dell'Illustriss., e Reverendissimo Monsig. Federico Maria Giovanelli Patriarca di Venezia il giorno 2 Settembre 1776 (Venezia, per G. B. Occhi, 1776) ], di feste pubbliche e private.

Ed ancora FORME DIVERSE DI PROMOZIONE E PUBBLICITA'; NEMMENO ESCLUSI I "FOGLI VOLANTI" CONTRO LE PROMOZIONI INGANNEVOLI, I FRAUDOLENTI ED IMBROGLIONI, I CIARLATANI ED I "MERCANTI DI MERAVIGLIE",  CHE ALL'EPOCA PULLULAVANO, SERVENDOSI ANCHE DI PUBBLICITA' MENDACI.

E su tutto primeggiavano le notizie di CRONACA e specialmente di CRONACA NERA, specialmente le lugubri ma a loro modo folkloristiche RELAZIONI DETTAGLIATE DI "SPETTACOLI DI GIUSTIZIA", CIOE' DI PUNIZIONI, SE NON ADDIRITTURA ESECUZIONI PUBBLICHE, sia soprattutto la proliferazione di truffatori ed imbroglioni operanti tanto in CAMPO RELIGIOSO; CON BEN ORCHESTRATE TRUFFE TALORA VERTENTI SU MISTIFICAZIONI DI SANTITA' E MIRACOLI, MA TALORA PURE CON LO SFRUTTAMENTO DA PARTE DI TERZI DI PERSONE CONVINTE, PURE PER RAGIONI PATOLOGICHE, DEL LORO STATO DI VEGGENTI O SANTI quanto ancora  in CAMPO CIVILE AD OPERA DI CRIMINALI VARI, IMBROGLIONI, FRAUDOLENTI" .

Non erano esclusi in alcuni "FOGLI VOLANTI",  "RAGGUAGLI" e  "NOTIZIE" , A SCOPO DI PUBBLICA AMMONIZIONE, DI PREMONIZIONE E DI AVVISO CONTRO I VARI POSSIBILI PERICOLI (ma anche per le prime forme di quello che si potrebbe definire un embrione di "scoop" giornalistico capace di garantire vendite e tirature superiori), menzioni ad eventi concernenti la PERSECUZIONE DI MAGHI, STREGHE E VAMPIRI (ancora in essere nel pieno settecento, soprattutto in rapporto alla temuta e studiata presunta settecentesca Epidemia di vampirismo manifestatasi nell'Europa Centro - Orientale).
Siccome il VAMPIRO attirava tutto un complesso discorso sul pericolo del MOSTRO O COMUNQUE DELL'"UOMO NERO", parecchi FOGLI VOLANTI non trascuravano di citare incredibili storie sempre amplificate dalla SUPERSTIZIONE, specie se erano accadute in aree notoriamente poco conosciute e pervase di oscure leggende come la VALACCHIA.

 Questo "FOGLIO VOLANTE" o "RAGGUAGLIO" o "NOTIZIA" reca il seguente titolo Relazione d'un caso orrendo, ed esemplare/ Seguito il 25 del Mese scaduto 1763/ nella villa di Asola Bressana/ di Giacinto Gambin fiorentino/ d' Ann 59 in circa. La vicenda narrata è pregiornalistica, sospesa tra fantasia, mistero, superstizione e magari allucinazioni, ma data per reale vista anche l'epoca in cui la paura per Streghe, Mostri ed ultimamente Vampiri non era affatto venuta meno, anzi andava formando racconti popolari destinati poi in qualche caso ad influenzare oltre che l'informazione spicciola come in questo circostanza anche la letteratura orrorifica. Il rendiconto della vicenda è fatto con la massima serietà, segnalando nomi, luoghi, eventi anche nei dettagli: l'ambientazione, come detta il titolo è nel bresciano e precisamente ad Asola, luogo di lavoro ed affari per un Mercante di "Biade e grassina" che aveva fama di "Superbo Avaro e che, come relazionato, si era arricchito stando i tempi difficili e di guerra vendendo a prezzi smisurati i suoi prodotti. Un giorno però le cose mutarono ed un viaggiatore proveniente da Firenze gli recò la novella secondo cui i conflitti sarebbero terminati e si sarebbe già stipulata la pace. La cosa non giovava agli affari del Mercante che ne rimase profondamente addolorato e che "...diede in bestemmie, dicendo.... piuttosto che questo fosse la verità, vorrei divenir un Diavolo, ed esser scorticato, e della mia Pelle ne formasse tanti tamburi, purché seguitasser le Guerre". La bestemmia si sarebbe però evoluta in una maledizione a suo proprio scapito al punto che nella notte stessa sarebbe avvenuto l'orribile incantamento: molti elementi possono aver concorso, dalla sparizione dell'individuo alla sua probabile relazione d'una visione onirica: nulla è dato approfondire su queste vicende sospese tra sogno e realtà ma puranco ambizione editoriale di quello che oggi si nomina "scoop". La xilografia sul fronte offre l'esempio dell'incantamento avvenuto da vedere da un lato come narrazione di curiosità mondana ed esoterica e dall'altra ancora come forma di ammonimento - quindi con funzioni catartiche e di aperto contesto cattolico conservatore a fronte dell'espansione dell'Illuminismo- nel non proferire Bestemmie e tantomeno praticare sotto qualsiasi forma Invocazioni demoniache. Certo molti lettori prestarono la fede (poca) da darsi ad un consimile evento ma la loro fantasia ne venne eccitata presupponendo l'ampliamento di queste relazioni di presunta vita vissuta nel contesto della futura letteratura orrorifica.

Ancora nel '700 la CONDANNA CAPITALE come indicano gli stessi documenti comportava l'idea che dello SPETTACOLO DI GIUSTIZIA QUALE FORMA DI AMMONIMENTO ALLA RETTITUDINE [ In merito basta leggere il caso dell'esecuzione del ladro Rocco Gallo , condannato verso il 1730 (Torino, Archivio Storico Comunale)].
Tuttavia per superare i limiti del luogo dell'esecuzione (talora segnata da qualche lapide od obelisco "di infamia" come nel caso dei presunti Untori di Milano od ancora del congiurato genovese Giulio Cesare Vachero) e quindi far conoscere ad un pubblico sempre più vasto queste notizie da CRONACA NERA prese velocemente sviluppo presso ogni Stato una sorta di pubblicazione che è durata attraverso il XVIII e XIX secolo e che aveva nome di "DISTINTA RELAZIONE", "RAGGUAGLIO", "NOTIZIA" (anche poi detta "FOGLIO VOLANTE/FOGLI VOLANTI").
Era una sorta di PREGIORNALISMO DA CRONACA non solo NERA in effetti ma assai spesso mirante a dimostrare i successi del POTERE EGEMONE SIA DELLA CHIESA CHE DELLO STATO .
Accenniamo ancora con un esempio al fatto che questi FOGLI VOLANTI abbiano costituito una sorta di PREISTORIA DELLA CRONACA NERA... 
Si tratta di un FOGLIO VOLANTE, editato dal Vedrotti a Bologna verso la prima metà del '700 e, "ornato" di una vignetta figurata in xilografia al frontespizio, che dice già esplicitamente nel titolo la sua sorta di SUMMA offerta agli "appassionati dell'epoca di fatti criminali estremi ed orrorifici": esso detta infatti Nuovo Racconto Del crudele, e compassionevole Caso occorso in Alicante Di una Madre, che ha ucciso il proprio Figliuolo. Leggendolo vi si scopre un piccolo ARCHETIPO DI CRONACA NERA o se vogliamo un SAGGIO di quella che sarebbe divenuta LETTERATURA ORRORIFICA E/O DELL'HORROR. 
E non a caso il TERRIFICANTE FATTO DI CRONACA NERA è gestito in forma di "ballata" sì da sostenere vieppiù un ritmo incalzante e tormentante che sa "catturare e angosciare il lettore anche non attento" , pur nel breve spazio a disposizione...
Leggendo il CITATO FOGLIO VOLANTE tutto risulta, al di là dell'estrema gravità del fatto, amplificato, quasi obbedendo al recitativo d'una nascente sensibilità preromantica, lugubre e cimiteriale, peraltro connessa al crescente evolversi epocale di determinati problemi ed eventi sul tema. Le frasi sono calcate, i tempi disposti con giustezza, l'aggettivizzazione è colorita e più cercata del consueto...