|
Fonte: Wikipedia |
La vita di Quinto Orazio Flacco
(Venosa 65 a.C. - Roma 8 a.C. ) è ricostruibile in maniera sufficientemente facile
attraverso la biografia a lui dedicata da Svetonio e l'opera stessa del
poeta, che continuamente ha parlato di sé (anche se le sue "confidenze"
col lettore mai si aprono a vere "confessioni": in questo "gettare
l'esca" alla curiosità del lettore sul conto della propria vita è,
secondo I. Lana, uno dei maggiori motivi di fascino delle opere del
venosiano, e soprattutto delle "Odi").
Come vedremo, questa stessa vita, così inscindibilmente legata
all'attività poetica e culturale, "così scarsa in generale di vistosi
eventi esteriori e così piena di intimità, di raccoglimento, di
appartata contemplazione e meditazione, di semplicità, di gusto
raffinato del bello, riflette pienamente il tono e l'accento vero della
poesia oraziana" [Alfonsi].
Origini umili, ma studi eccellenti. Figlio di un liberto, ch’era
riuscito a racimolare un piccolo patrimonio col mestiere di "coactor
exactionum" (esattore delle pubbliche aste), O. fu portato a studiare
proprio dal padre (quello ch’egli stesso definirà "il migliore dei
padri", suo maestro di vita e di morale) nelle migliori scuole di
grammatica e retorica di Roma (fu allievo, tra gli altri, del severo
grammatico Orbilio), andando a perfezionarsi persino ad Atene versi i
vent'anni (ma il nostro poeta avrebbe sempre sofferto del complesso
d'inferiorità derivatogli dalle sue umili origini).
Il fervore repubblicano e la triste esperienza di reduce sconfitto. Lì
O. aderì all'ideologia repubblicana dei giovani patrizi romani che vi
studiavano, anche perché suggestionato dai temi delle scuole di
retorica: fu coinvolto, così, dalla guerra dei "tirannicidi" Bruto e
Cassio, ai cui comandi si arruolò come "tribunus militum", combattendo
nella storica battaglia di Filippi (42). Si salvò miracolosamente (come
lui stesso racconta, gettò lo scudo e si diede alla fuga: ma si tratta
di una reminiscenza archilochea?), e riuscì a tornare a Roma durante un
armistizio (41), profittando del condono politico di Ottaviano, ma senza
protezioni politiche. Le sostanze lasciategli dal padre erano state
inoltre confiscate: così, dopo aver sperimentato anche la povertà, per
vivere s’impiegò come contabile nell’amministrazione statale ("scriba
quaestorius").
L'incontro con Virgilio e Mecenate. In seguito, frequentò a Napoli la
scuola epicurea di Sirone in compagnia di Virgilio. Iniziata l’attività
poetica con gli "Epodi" e le "Satire", nel 39 fu presentato proprio da
Virgilio a Mecenate, che ben presto lo legò a sé come amico e gli donò
(33?) un podere nella Sabina: un'amicizia che non poté non alimentare le
invidie e le malelingue dei ricchi romani del tempo.
La svolta cesarista. O. intellettuale "allineato". Il nostro poeta,
così, tradendo la sua giovanile fede politica, fini con l'abbracciare,
con sempre più convinzione e dedizione, le cause del cesarismo: Augusto
gli offrì addirittura un lusinghiero posto di segretario, ma O. declinò
l’invito, con molto garbo ma con altrettanta fermezza, assecondando
tuttavia il programma del princeps sia sul piano politico sia su quello
letterario: fu un intellettuale, dunque, sostanzialmente "allineato", se
non addirittura "poeta vate". Nel 17 fu inoltre incaricato di scrivere
il "Carmen saeculare" in onore di Apollo e Diana, da cantare appunto
durante i "ludi saeculares": occasione, questa, particolarmente solenne,
dato che quei ludi in quell'anno sancivano ufficialmente l'inizio della
"Pax Augusta". Nel 20, O. iniziò a pubblicare le "Epistole"; nell’8
a.C. scrisse 4 libri di Odi.
La morte. Ma nel sett. dell’8 a.C., Mecenate moriva: O. si sentì
perduto, tanto che anche lui di lì a poco si spense, forse a causa di
un'emorragia cerebrale. Già da 5 o 6 anni, tuttavia, non componeva o
pubblicava quasi più nulla, preferendo un completo "otium" di
riflessione e di ricerca puramente speculativa. Fu sepolto proprio
accanto alla tomba dell'amico e protettore, "la metà dell’anima sua",
com'egli stesso lo definì.
Opere.
Premessa.
L'attività poetica di O. si svolge su piani diversi e
paralleli, coagulandosi essenzialmente su tre generi: satira esametrica,
poesia giambica e poesia lirica. A tal proposito, si usa generalmente
distinguere 3 fasi, "in prospettiva con l'evoluzione culturale dell'uomo
e con la condizione politica di Roma:
1. la I fase (43-30 a.C. ca) appartiene all'età giovanile del poeta: è
il tempo degli "Epòdi" e delle "Satire" più antiche, in cui emerge lo
stato di agitazione e di sconforto del poeta, ed irrompe il suo
risentimento verso i nemici politici dopo Filippi.
2. la II fase (30-23 ca) coincide praticamente con la composizione delle
"Odi", e più esattamente dei primi 3 libri: è il momento in cui vengono
a ridimensionarsi la dialettica e la lotta politica, e quasi di
conseguenza il poeta, che aveva già cominciato ad usare nelle satire
ultime (ossia nella maggior parte di quelle del II libro) un tono più
moderato e bonario, si dedica decisamente alla lirica. E' così che egli
scopre se stesso, e la sua tecnica si fa soggettiva ed introspettiva;
lasciati da parte odii personali e contingenze particolari, eleva il
tono universale della sua poesia, tripudiando per il successo di
Ottaviano ad Azio, che pone fine alle lacerazioni delle guerre civili;
3. la III fase (23-13 ca), infine, è quella della piena maturità del
poeta, emulo, come già Virgilio nell' "Eneide", della composizione di
versi paradigmatici per i fasti della sospirata Pace augustea.
Appartengono a questo periodo i 2 libri delle "Epistole", il "Carme
secolare" e il IV libro delle "Odi". " [libero adattamento da
Fiordelisi]
Per una migliore presentazione delle opere, dei loro contenuti e delle
loro considerazioni in chiave umana e poetica, preferisco tuttavia
procedere per mero ordine cronologico di composizione o di
pubblicazione, esponendo le stesse opere in brevi monografie singole.
Abbiamo, così:
Epòdi. Gli "Epòdi" (41-30 a.C.) sono 17 componimenti (O. li chiama
"iambi"), ordinati metricamente, secondo la consuetudine alessandrina e
neoterica. Il nome di "epodon liber", o più brevemente "Epòdi" (come
appare nei manoscritti, ma forse solo dal III sec. d.C.), fu loro
assegnato dagli antichi evidentemente per il fatto che, nelle strofe
distiche dei primi dieci carmi, ad ogni trimetro segue un dimetro
giambico detto, appunto, "epodo".
O. emula i giambografi greci, Ipponatte e soprattutto Archiloco (ma ne
mutua - in modo peraltro decisamente originale - più che altro i metri e
l’ispirazione aggressiva, non già i contenuti), anche se il suo "furor"
è, in verità, talvolta alquanto o soltanto letterario. Tuttavia, gli
"Epòdi", malgrado una certa ridondanza stilistica, sono fondamentalmente
più violenti delle "Satire" (come vedremo), e più amari: il poeta vi
deplora le disgrazie della patria e afferma la propria indignazione per
alcuni scandali derivati dalle guerre civili (lo "scelus", la "culpa",
il delitto originario, che diviene nella sua epoca la colpa di tutta una
generazione). Il tutto tradisce, come dire, la matrice e l'ispirazione
ancora giovanili di questa poesia.
Ora, quindi, sono appunto le ansie per il pericolo della guerra civile
(epòdi VII e XVI); ora invettiva contro un abietto tribuno militare
(IV), contro un ringhioso codardo (VI), contro un poetastro (X), contro
una vecchia libidinosa (VIII e XII), contro una strega (V e XVII).
Tuttavia, in fondo, anche qui affiora la proverbiale "mitezza" di O.:
timidamente in I e IX, indirizzati a Mecenate (il massimo ed unico
dedicatario della sua poesia) al tempo di Azio e oscillanti tra ansia e
fiduciosa serenità; più decisamente nei rimanenti, e soprattutto nel II,
dove malgrado l’ironia finale c’è un forte gusto per la vita agreste;
infine, nel XIII compare, forse per la prima volta, un altro tema
caratteristico della sua poesia: quello della fugacità della vita.
In questi carmi, sono usati vari metri: strofe giambica, alcmania, archilochea, piziambica.
Satire.
Le "Satire", dette dal poeta stesso "Sermones" (ovvero
propriamente "conversazioni", e dunque scritte con stile e lingua
studiatamente quotidiani), composte in esametri dattilici, sono divise
in 2 libri: il I (35-33 a.C.) ne comprende 10, il II (30 a.C.) 8.
Difficile ne è la cronologia interna.
Abbandonate le inquietudini e il disadattamento degli "Epòdi",
attraverso certo i temi della predicazione filosofica (in specie, quelli
della diàtriba cinico-stoica, ma stemperati dal loro rigido moralismo) e
la lettura di poeti quali Lucilio (di cui vuol essere versione moderna,
ma altresì originale: satire I4 e I10), O. cerca di elaborare in forma
piana e discorsiva (si tratta di componimenti misurati, caso mai vivaci,
ma come detto non sfoghi moralistici) un suo ideale di misura (il
cosiddetto "giusto mezzo", I1 e I2) che lo salvi dalle tensioni interne e
non gli precluda il godimento della vita ("autàrkeia" ["bastare a se
stessi"] e "metriòtes" ["misura"]).
Il poeta insomma ricerca una morale di autosufficienza e di libertà
interiore, valendosi di uno straordinario senso critico e autocritico,
oltre che del suo tatto e della sua conoscenza del mondo: il
ragionamento si mantiene sempre sul piano psicologico-umano, e la
polemica non è tanto contro i vizi in sé, quanto contro la loro vera
radice, ovvero l’eccesso: come dire che egli si propone non certo di
cambiare la società romana ed il modello etico di riferimento, ma almeno
di fornire qualche utile elemento di riflessione per intervenire sulla
coscienza dei singoli.
Inoltre, nelle prime "Satire", O. si sforza di dimostrare che la morale
epicurea non è in disaccordo con i valori tradizionali di Roma:
moderazione, saggezza, rispetto dei costumi, eccetera. Insiste anche
sulla semplicità dell’esistenza rurale quale condizione della felicità,
parlando, in questo senso, un linguaggio simile a quello di Virgilio e
precisamente nello stesso periodo, all’incirca, in cui questi componeva
le sue "Georgiche". Affinità vi sono anche col linguaggio di Tibullo.
Inoltre, l’amicizia da lui spesso elogiata non è scambio di favori, e
ancor meno schiavitù (come spesso avveniva a Roma quando gli amici erano
di condizioni ineguali), ma una comunione profondamente spirituale o,
anche, ideale.
Appare chiaro, insomma, che i "Sermones" toccano una straordinaria
pluralità di temi, che non si lasciano imbrigliare in una sterile
didascalia; mi limito, così, a ricordare le satire ritenute dai più le
più rappresentative, oltre quelle già accennate. Così, ad es., un'altra
satira programmatica è la II1, dove O. risponde alle critiche rivolte a
se stesso e al genere satirico. Spunti autobiografici, invece, si
riscontrano nelle satire: I4 (sul padre adorato); I6 (sulla
presentazione a Mecenate); I5 (sull'avventuroso viaggio a Brindisi al
seguito di Ottaviano); II6 (in cui esprime la gioia per la villa
donatagli). Satire più propriamente etico-filosofiche sono invece: I2
(sull’adulterio; vigorosa); II3 (sulla pazzia degli uomini, eccetto il
filosofo; briosa); II6 (vi si trova l’apologo del topos campagnolo e del
topos urbano, con cui il poeta esprime simbolicamente l'angoscia che
prova in città ed il desiderio di rifugiarsi nella tranquillità della
campagna).
"Dunque, le satire di O. non sono un'astrazione teorica, ma una
proiezione della realtà, sia rispetto alla vitae ratio seguita dal
poeta, sia rispetto alle sue dottrine letterarie, sia infine come quadro
d'ambiente, che ci riporta al "Satyricon" di Petronio e agli
"Epigrammi" di Marziale: hanno un valore di trasmissione culturale dei
vizi sociali" [Fiordelisi].
Odi.
Le "Odi" (titolo secondo i grammatici, "Carmina" per O.) constano
in tutto di 4 libri: i primi 3 (88 odi), dedicati a Mecenate, furono
pubblicati nel 23 a.C., il IV (15 odi: quindi, in tutto 103 odi) nel
14-13 a.C.. O. aggiunse il IV libro dopo molti anni, su richiesta di
Augusto, per celebrare la vittoria di Druso e Tiberio su Reti e
Vindelici.
Il criterio d’organizzazione del libro sembra essere quello della
"variatio": sia dal punto di vista metrico-formale (ben 13 sono i metri
usati, dall'alcaico al saffico all'asclepiadeo), sia per tono e
contenuti (alternanza di temi politici e temi privati, di stile alto e
stile leggero).
L’ispirazione oraziana qui si modifica e purifica in composizioni
raffinatissime, chiuse nel giro di strofe perfette (il modello è nei
poeti classici greci: Alceo, Saffo, ma anche Anacreonte, Bacchilide,
Pindaro…): in questo senso, potremmo dire che le "Odi" si caratterizzano
come un riuscito tentativo di trasferire a Roma i ritmi della poesia
eolica e rappresentano, per molti versi, l'opera più matura del nostro
poeta. Del resto, lo stesso O. altrove aveva precisato la distinzione,
all'interno della sua produzione, tra poesia giambica e poesia lirica
(una distinzione che evidentemente trascendeva il canone meramente
metrico-formale), attribuendo proprio a quest'ultima il merito della sua
gloria di poeta.
Lo stile diventa così esteriormente asciutto, la forma è rigorosa, quasi
fredda; il tutto, insomma, caratterizzato da un lato dalla sapienza
tecnica (la declamata "callida iunctura", cioè l’accorta disposizione
delle parole e l’accurata articolazione del periodo) e dall’altro dal
controllo di impressioni e sentimenti: O. si presenta come discepolo dei
"poeti nuovi", alla ricerca anch’egli della perfezione formale e delle
soddisfazioni derivanti dal superamento delle difficoltà.
Se O. nei "Sermones" era apparso, così, poeta e narratore, nelle "Odi"
si rivela nelle vesti di un sublime "moralista": non perché vada
(neanche qui) predicando una morale, ma perché eccelle nel cogliere e
nell’esprimere in un ritmo, in un accostamento di parole, nella
suggestione di un’immagine, un’ "esperienza" privilegiata che illumina
l’anima e la rivela a se stessa.
La causticità polemica è allora qui abbandonata come giovanile
intemperanza (I16): è invece insistente l’idea della "misura" ("aurea
mediocritas", II10). Essa assume una dimensione nuova: da una parte
viene ancorata saldamente al concetto di felicità con motivi
tradizionali e stilizzazioni (modestia, parsimonia, campagna contro
città, etc…: ad es., I18, II2-3-15-18, III1 e 16), ma con l’aggiunta del
motivo - riflesso certamente autobiografico - della felicità di chi,
oltre che saggio, è anche poeta (II16, III14…); dall’altra, sul piano
della meditazione, è associata all’idea della morte, che tutto rilivella
(II3 e 8, III1 e 24). Il senso della fugacità della vita acquista qui
massimo rilievo e ispira tra le "odi" più celebrate: I11 (v’è il famoso
motivo del "carpe diem"), I24 (in morte del poeta Q. Varo), I28 (sulla
tomba del pitagoreo Archita), II14 (a Postumo), ecc…
Attinto alle correnti filosofiche dell’epoca (in special modo,
l’epicureismo), ma filtrato dalla sensibilità dei lirici greci (ad es.,
Mimnermo), tale senso di fugacità aleggia come malinconia leggera su
questa poesia, che è pure sostanzialmente limpida e serena. Di nuovo,
dappertutto traspare la bonaria umanità, che si esprime soprattutto in
un trepido senso dell’amicizia, nel gusto della compagnia (le cosiddette
"odi conviviali"), nel controllo stesso delle passioni nelle non poche
odi dedicate a donne i cui modi (Lidia, Làlaga, Cloe, Mirtale…) celano
quasi certamente persone (e forse financo vicende) reali (O. aveva già
manifestato a Mecenate la necessità di una poesia che cantasse l'amore:
chiede infatti proprio all'amico di porlo tra i poeti lirici [I 35]).
I temi maggiori delle odi.
Come già risulta evidente, all'estrema varietà metrica e ritmica di
quest'opera si associa un altrettanto straordinaria e variegata sequela
di motivi filosofici, personali, amorosi, conviviali, storico-politici
ed ideologici, tuttavia trattati in un'espressione sempre molto misurata
della propria interiorità di poeta: O. trova, insomma, in quest'opera
la sua più alta e completa espressione, con ampiezza di toni e ricchezza
di sfumature. E' possibile, tuttavia, estrapolare alcuni temi che sono
rimasti particolarmente e giustamente celebri per la profondità del loro
insegnamento e per la partecipazione e la chiarezza con cui sono
comunicati. Ad es., una delle intuizioni fondamentali dell’epicureismo
era il valore proprio di ogni istante: O. se ne impadronisce e ne fa uno
dei cardini privilegiati del suo lirismo. Il "carpe diem", nel quale si
è pensato di poter riassumere questa sua "saggezza" (immiserendola, in
questo modo, in una formula angusta e anche un po’ volgare), è
innanzitutto il nucleo di una poetica: non è tanto la ricerca, cioè,
fine a se stessa, del piacere, ma il tentativo di scoprirlo nel puro e
semplice fatto di vivere. In questa prospettiva, O. canta l' "otium",
che è anche e soprattutto quiete dell’intelletto e dell’anima, libertà
interiore: il "carmen" prolunga la strada imboccata col "sermo",
trasfigurando ciò ch’era stato consiglio obiettivo in scoperta
dell’anima. Il pensiero stesso della morte, anziché rivelarsi amaro, dà
tutto il suo valore alla rinnovata presenza della vita.
Forse anche il vistoso apparato mitologico presente nelle "odi" va
inteso, al di là del richiamo alessandrino o degli agganci alla
religione della Roma augustea, come un elemento di voluta fissità, oltre
che di pindarica sublimazione della poesia; epicureo, O. non crede
davvero all’intervento degli dèi nel mondo: egli ne fa un gioco,
allargando la sua sensibilità di poeta alla creazione tutta intera,
senza voler scoprire in essa il segno di una trascendenza divina. Ma, in
fondo, non è un problema che lo interessi molto. Egli onora le divinità
campestri della sua tenuta come presenze familiari che prolungano il
suo personale universo interiore, non per manifestare ad esse la propria
"adorazione".
Quasi sicuramente, infine, nessun latino ha avuto più di O. la coscienza
di essere poeta, di essere cioè in grado di donare l'immortalità con i
propri versi: non per nulla, accettò di divenire uno dei vati ufficiali
del regime di Augusto: ne fa fede l’importante filone etico-politico che
riscontriamo nelle "Odi" (ovvero i 6 componimenti - detti "odi romane",
appunto - con cui si apre il III libro, e che vanno dall'iniziale
esaltazione delle antiche "virtutes" e della religiosità degli avi alla
scansione poetica dei momenti o eventi del mito e della storia di
particolare importanza: ma accenni politici attraversano in verità
l'opera nella sua interezza), nonché il successivo "carmen saeculare".
Carmen Saeculare.
Come già ricordato, Augusto nel 17 a.C. indìce i "ludi Saeculares", nel
momento più adatto, scelto con grande abilità, per celebrare i ludi,
testimonianza di un'epoca di guerre e di lotte civili che si chiude e di
un'era di pace che si apre.
Morto Virgilio nel 19, nessun altro poeta poteva ricevere l'incarico di
comporre l'inno per i ludi, perché nessuno più di O. aveva dimostrato,
specialmente con le odi romane, di saper interpretare l'essenza della
grandezza di Roma. O. accettò l'incarico, che significava per lui
riconoscimento del suo ruolo di poeta nazionale e, più ancora,
consacrazione della sua attività lirica, che appunto dalla composizione
del "Carmen saeculare" trasse nuova linfa e riprese sostanza.
Così, il poeta affida al canto di due cori di giovani, l’uno maschile e
l’altro femminile, il compito di invocare la protezione degli dèi su
Roma.
Il "Carmen" presenta, ovviamente, i difetti propri delle composizioni
eseguite su commissione, ma, se non è sorretto da altissima ispirazione,
è tuttavia opera di altissima dignità artistica e, soprattutto, di
profonda sincerità. Inoltre, in tutti quei luoghi in cui il poeta può
liberarsi dagli obblighi impostigli dalle circostanze o dalla liturgia e
dispiegare liberamente la sua fantasia, egli raggiunge "l'intensità
poetica delle sue liriche più felici, interpretando con severità e
serietà il mito storico di Roma e di Ilio, ma soprattutto esprimendo un
ideale quasi ieratico di potenza e di predominio" [Turolla].
Epistole.
Le "Epistole" sono in esametri e si compongono di 2 libri: il I (di 20
componimenti) dedicato a Mecenate, uscì nel 20 a.C.; delle 2 epistole
del II libro, quella ad Augusto è del 14 o 13, quella a Floro è del 18
ca.
L’epistola in esametri è probabilmente una sperimentazione originale: O.
non si richiama, del resto, ad un inventore del genere. Con essa (di
cui si discute il carattere "reale" o semplicemente "letterario"), il
poeta cerca un dialogo più intimo e raccolto con sé stesso: c’è un
bisogno di calma e di tolleranza, in cui si annida tanta esperienza
umana, interiorizzata in una sorta di ascesi laica (e il tutto
presuppone lo spostamento verso una periferia agreste, che risuona di
memorie filosofiche: quasi un "angulus", insomma, di meritato "otium"): è
il frutto della migliore lezione del suo epicureismo (non vi è dunque
"svolta" in senso stoico, come taluno ha voluto supporre).
Le lettere, così, sono dirette ad una pluralità di personaggi, umili e
potenti, giovani ed adulti, che rappresentano tutto il mondo relazionale
ed affettivo del poeta; esse forniscono uno spaccato del suo mondo
interiore, un punto di sintesi delle sue riflessioni sulla vita, sugli
uomini, sulla filosofia; esprimono, insomma, la voce più matura di O.,
che vive con bonario distacco le vicende dell'esistenza e che
attribuisce ai fragori ed alle inquietudini del vivere un valore ormai
relativo: l'ammonimento a conseguire la saggezza, unico rimedio ai mali
che affliggono l'uomo, è - sotto questo aspetto - il vero e genuino
elemento che percorre tutta la raccolta.
Ars poetica.
Infine, al II libro è aggiunta l’
epistola ai Pisoni, nota come "
Ars poetica"
(17 o 13 a.C.) in base alla definizione di Quintiliano, in 475 esametri
(ma sin dall'antichità, essa andò separata dalle altre epistole, per la
sua natura particolare e anche perché, data la sua lunghezza,
costituiva un volumetto a parte): se ne veda qui il
testo latino integrale.
Ricca di riferimenti a Neottolemo di Pario e ancor più ad Aristotele, l'
"Ars" è impostata sul problema dell’unità dell’opera d’arte e del
rapporto tra contenuto e forma, esaminato prendendo come principale
punto di riferimento il dramma.
Molto si è discusso, e si continua a discutere, se considerare
quest'opera un vero e proprio trattato sull'arte poetica oppure
semplicemente un insieme di riflessioni senza un progetto unitario (il
tono è quello di una conversazione dotta, ma altresì amabile e
confidenziale): comunque, sostanzialmente, essa è composta di due ben
definiti nuclei concettuali, che trattano questioni relative all'arte
del poetare ed alla figura del poeta.
Riguardo il primo punto, due tesi, in particolare, sono rimaste celebri:
la necessità di fondere la spontaneità e l'immediatezza
dell’ispirazione con lo studio metodico e il paziente lavoro di lima; e
il noto principio dell’ "utile dulci", della fusione cioè, diremmo oggi,
fra utile e dilettevole.
Riguardo, invece, la seconda questione (l'"artifex" della poesia), O.
insiste molto sulla conquista della "sapientia": per lui, innanzitutto,
il poeta - come uomo - deve raggiungere un alto grado di consapevolezza e
di conoscenza, erudita e soprattutto interiore; è questo, infatti,
essenzialmente, il presupposto l'inizio e la fonte dello scrivere bene. A
ben vedere, una sorta di testamento umano e letterario che il nostro
poeta ha lasciato ai posteri.
Conclusione.
Infine, questa breve ma icastica considerazione mutuata da I. Lana, che -
volendo - compendia tutto quanto detto finora: "nella dotta Atene O.
poco più che adolescente cercava di apprendere cosa fosse il vero ed il
bene; nella quiete sabina degli ultimi suoi anni cercava ancora che cosa
fossero il vero e il bene; questi, l'aspirazione di tutta la sua vita, e
la sua poesia, la traccia lasciata da un'anima sorridente sì, ma
inquieta".
da
Cultura-Barocca