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domenica 16 luglio 2017

Il medico che attentò ad un Papa

Battista da Vercelli nacque a Vercelli nella seconda metà del sec. XV.
Si ignora se e dove abbia compiuto regolari studi di medicina.
Anche il suo nome è incerto: comunemente chiamato Battista da Vercelli nei documenti del tempo (ma talvolta anche Giovanni Battista), egli stesso si firmava nelle lettere degli ultimi anni con il cognome di De Ruviere, forse per concessione di un appartenente alla nobile casata.
Secondo alcuni scrittori il suo cognome sarebbe stato invece Vieri o de Viere.
Ben poco si sa anche della famiglia: aveva un fratello, Filiberto, che nel 1509 teneva a Venezia un banco di cavadenti e che negli anni successivi lo accompagnò come assistente nelle varie città italiane dove B. era chiamato per la sua fama di chirurgo; si sa anche che sposò una donna fiorentina dalla quale ebbe alcuni figli.
Nel 1502 B. era a Venezia, dove godeva una notevole fama per la sua abilità nel curare il "male della pietra", tanto da ottenere dalla signoria il titolo di cavaliere di San Marco e da raggiungere una notevole agiatezza economica.
Nel novembre del 1508, però, venuto a diverbio, non si sa per quali motivi, con un collega, il chirurgo Girolamo da Verona, lo uccise, incorrendo nelle sanzioni della Quarantia Criminale, che nel gennaio dell'anno successivo ne ordinò l'arresto e il processo per omicidio premeditato.
Egli si difese sostenendo di non aver avuto l'intenzione di uccidere il rivale e che il fatto era avvenuto inopinatamente durante una rissa.
Questa difesa sostenne anche sotto la tortura, alla quale venne ripetutamente sottoposto: ciò nonostante la Quarantia Criminale lo condannò a due anni di "prison forte" e al bando perpetuo.
Non risulta se B. scontò effettivamente la condanna; comunque nella primavera del 1512 era a Siena, dove godeva di grandissimo prestigio, sia per la sua abilità nell'estrazione della pietra, sia per i notevoli risultati ottenuti da un rimedio di sua invenzione per la cura del "mal francese".
Fu soprattutto in grazia di questo sistema di cura che egli si guadagnò la stima e la protezione del signore di Siena, Pandolfo Petrucci, e dei suoi figli Borghese e Alfonso; ma stimolati dalla fama di tante portentose guarigioni ottenute da B. - egli stesso assicurava di aver guarito con i suoi specifici circa quattrocento persone a Firenze - si sottoposero alle sue cure anche il marchese di Mantova, il cardinale Ippolito d'Este, il vescovo di Worcester Silvestro Gigli, ambasciatore d'Inghilterra presso la Santa Sede, nonché il fratello di Leone X, Giuliano de' Medici.
Quest'ultimo gli fu tanto grato delle cure prestategli che lo raccomandò al pontefice perché ottenesse dalla Repubblica di Venezia la revoca del bando al quale B. era stato condannato nel 1509; lo stesso Leone X intervenne con un breve presso la Signoria veneta alla fine del 1513e affidò poi le trattative all'internunzio Pietro Dovizi da Bibbiena.
La Repubblica non volle opporsi al desiderio del potente protettore di B. e finì per revocare il bando.
B. godeva anche di altre importanti relazioni alla corte pontificia, in particolare con il cameriere papale Luigi de Rossi e con il cubiculario Giulio Bianchi.
La protezione della famiglia Petrucci gli procurò il 20 luglio 1515 la cittadinanza di Siena e l'esenzione da ogni imposta; probabilmente in questa medesima occasione la città toscana coniò in onore del chirurgo vercellese una medaglia con la sua effigie [vedi sopra]: un esemplare è conservato nel Museo del Bargello di Firenze.
Nel marzo del 1516, però, estromesso da Siena Borghese Petrucci, B., forse per timore che l'amicizia con il deposto signore lo facesse vittima di qualche rappresaglia, abbandonò la città, rifugiandosi a Roma presso il fratello di Borghese, il cardinale Alfonso.
Nell'estate successiva, diffusasi la notizia della grave malattia che aveva colpito Leone X, si prodigò per ottenere di essere ammesso al posto di chirurgo del pontefice, rimasto vacante dopo il licenziamento di Iacopo da Brescia.
Assicurava di essere in grado di curare efficacemente la fistola della quale il pontefice era affetto, ma né la fama delle precedenti esperienze né le potenti protezioni su cui egli poteva contare indussero Leone X a servirsi di lui: probabilmente il pontefice non nutriva troppa fiducia nel familiare di coloro che egli aveva scacciato da Siena, sicché preferì richiamare Iacopo da Brescia. [integriamo con una glossa = in questi secoli solo meno della professione di medico ostetrico ed ancor più di "commare", ostetrica e poi balia la professione dei medici era guardata con sospetto specie negli alti casati per il timore di medici prezzolati da nemici che perpetrassero degli avvelenamenti (non per nulla in questi che furon detti secoli dei veleni fu creata la particolarissimia figura del servo assaggiatore di cibi) e a maggior ragione era giudicata rischiusa la professione di chirurgo data l'elevata mortalità connessa sia alla strumentazione ancora primitiva che all'assenza di anestetici, antidolorifici e antibatterici adatti a casi particolarmente gravi].
B. si trasferì allora a Firenze, dove lo attendeva la sua famiglia, ma venne arrestato per ordine del pontefice nel maggio del 1517.
Si erano concluse infatti le indagini sulla congiura, vera o presunta che fosse, dei cardinali Petrucci, Sauli [cugino di A. Giustiniani = G. B. Spotorno cita proprio il Giustiniani a dar contezza degli eventi della congiura con il concorso di Battista da Vercelli, contro alcune ipotesi del Bonino autore della Biografia Medica Piemontese] e Riario contro Leone X.
Nel corso degli interrogatori, ma soltanto dopo essere stato ripetutamente sottoposto alla tortura, il maestro di casa del cardinale Alfonso Petrucci, Marco Antonio Nino, aveva confessato che il suo padrone aveva progettato di uccidere il pontefice valendosi dell'opera di B., il quale, una volta ammesso a curare il papa, avrebbe dovuto avvelenarne la fistola mescolando il tossico all'elleboro bianco con cui Leone X usava curarsi.
Questa accusa contro i tre cardinali, che l'Ariosto riteneva valida ancora al tempo della sesta satira (cfr. Opere minori, Milano-Napoli 1954, p. 566, n. 117), venne formulata per la prima volta nell'interrogatorio del Nino il 27 apr. 1517 e pare che fosse in seguito confermata dalla scoperta di un gruppo di lettere scambiate nell'estate del 1516 tra il Petrucci e il Nino, con espressioni compromettenti sulla cura cui B. avrebbe dovuto sottoporre il pontefice.
Il processo contro il chirurgo piemontese, condotto dal procuratore fiscale Mario Perusco, che estorse all'inquisito una piena confessione con la tortura, si concluse con la condanna a morte.
Il 27 giugno 1517 B., assieme al Nino, fu pubblicamente torturato con tenaglie roventi, quindi impiccato e squartato presso ponte Sant'Angelo.


domenica 9 luglio 2017

Il controllo dei libri - ed altro ancora - da Roma Antica all'età barocca


Sin dai tempi di Roma Antica [quando praticamente vide gli albori la vera editoria - trattandosi anche di editoria privata - non solo sotto forma di pubblicazione di libri, benché manoscritti, ma anche sotto specie di distribuzione con relativa pubblicizzazione e conservazione come - ma certo non soltanto - nel caso dei pur effimeri Acta Diurna Populi Romani, sorta di protogiornalismo periodicamente divulgato anche nell'Impero e con un certo successo; ma dopo che gli Editori ne avevano depositato un esemplare presso l'Archivio di Stato] nelle Biblioteche, ma anche presso le Librerie, la "Ricerca dei Libri" (per acquisto o lettura) si svolgeva appuntandosi, da parte dei bibliotecari o dei librai, il titolo, specie se trattandosi di opera non troppo richiesta o comunque da individuare tra le tante, a testimonianza di una consuetudine tramandatasi per millenni. Del resto, ad ulteriore singolare coincidenza nell'Editoria attraverso i secoli, merita una nota attenta che divulgazione e spedizione degli Acta potesse avvenire solo dopo una sorta di "Licenza concessa dal Praefectus Urbis". Cosa questa che manca nella forma ed anche nella sostanza [fatti salvi comunque possibili provvedimenti censori avverso pubblicazioni contrarie o al decoro, od alla religione ed allo stesso Imperatore di consonanza] con la Censura Ecclesiastica e la Congregazioni dell'Indice [al limite seppur con tanta cautela vale l'asserzione ovidiana di una personale sfortuna per l'Error ed il Carmen, ove nel Carmen si è vista l'edizione dell'Ars Amandi opera nei contenuti certo contraria al processo augusteo di moralizzazione] ma che ha indubbie convergenze con la Licenza od Autorizzazione degli Stati a stampa e distribuzione, per esempio nel XVII secolo nei casi della Repubblica di Venezia e della Repubblica di Genova con tanto di doveri precisi da rispettare da parte degli Editori verso lo Stato.
Già dai tempi di Roma antica la salvaguardia di libri e documenti era comunque un principio importante dato il loro valore ed in "segreteria" quanto nelle sale di lettura si esposero regolamenti e normative. Tali provvedimenti continuarono attraverso i millenni...

Rispetto ai tempi pregressi quando variamente si pubblicava su manoscritti ed utilizzando questo vario materiale resta assolutamente fuor di qualsiasi dubbio che l'invenzione della stampa rappresentò un evento eccezionale e planetario ai fini della documentazione e della dstribuzione della cultura affatto inferiore a quello che oggi si attribuisce ai "Media" e alla "comunicazione informatica on line" ma tale straordinario evento attivò anche fenomeni sgraditi all'elitaria, anche culturalmente, società del tempo. Per esempio l'invenzione della stampa fu esaltata dallo stesso Martin Lutero costituendo essa la possibilità di dare alla luce un assai più considerevole materiale di lettura con notevoli effetti pubblicistici e capaci di alterare la paludosa inerzia intellettuale di grandi strati di popolazione.
In forza della cresciuta facoltà di divulgazione la stampa divenne quindi celermente un potente mezzo di dispute, come detto non più elitario, ma certo capace di incidere sulla vita socio politica come attesta e giurisdizionale il dibattito tra Paolo Sarpi e Francesco Bellarmino ovverossia tra Venezia e Roma.


Giammai bisogna poi dimenticare che dati gli equilibrismi del potere strutturato entro un'ambigua ma efficiente sinergia tra Stato e Chiesa la custodia dei libri e soprattutto la verifica dei loro contenuti poteva contestualmente coinvolgere, magari anche su piani diversi, tanto la Stato che la Chiesa.
Le postulazioni di Lutero come di vari suoi seguaci che principalmente parevano interessate e giustificate nell'agevolare il proselitismo religioso, specialmente nel caso più eclatante e combattuto delle "Diocesi Usbergo" o "Diocesi di Frontiera", donde potevano penetrare libri anticattolici, finivano, più o meno volutamente, sotto forma di propaganda parallela per materializzarsi contestualmente in idee alternative alla sanzione dell'immutabilità dello "statu quo" degli Stati, con la Chiesa, reputato custodia dello stato sociale ufficialmente riconosciuto quale perfetto, cioè dell'immobilismo dei ruoli ben distinti di egemonia quanto di subalternità.
Per quanto possa parere oggi sorprendente atteso che prevale certo attualmente la disanima sui "Massimi Sistemi", sui loro martiri e sui libri proibiti in materia, cioè sulla fiera lotta - non esente da vittime sull'una e sull'altra sponda - tra interpretazioni cosmologiche e quindi tra Scienza Nuova e vecchia Scienza Aristotelica
cosa peraltro indubbia e rilevante, risulta in base a quanto detto e ben oltre il mero fatto socio-morale del tutto destabilizzante rispetto al sistema, anche per l'implicita decadenza di una serie di segni distintivi e di sanzioni giuridiche e giurisdizionali, il caso della pubblicistica controriformista a pro delle prostitute reputate ben accolte - dalla diaspora cattolica - nell'ecumene riformato a condizione di convertirsi alle nuove idee.
Sì da diventare agenti dell'idea protestante e quindi dell'eresia, approfittando dell'impudicizia attribuita per via di libelli cattolici ai Riformati. Sin poi in qualità di streghe eretiche giungere al segno di usare i loro artifici di seduzione e fascinazione magica per trascinare dei già ferventi cattolici alla perdizione. Come  scritto dall'agostiniano Henricus Lancelotz che nell'opera Anatomia Christiani Deformati edita ad Anversa per i tipi di Hyeronimus Verduss nel 1613 (in merito all'organizzazione da parte degli eretici di veri e propri sabba di massa, come avrebbero fatto nel 1527, in una località della Svizzera, trecento di loro i quali, al termine di una funzione sacra) che esplicitamente così si espresse = " ....dopo aver cantato le lodi a Dio, spensero le luci e si diedero turpemente a saziare la propria libidine alla maniera degli animali. Poi salirono sopra la montagna più alta, convinti che da lassù sarebbero stati assunti in cielo con l'anima e il corpo. Non c'è da stupirsi d'altronde, dal momento che in precedenza Lutero aveva scritto che l'uomo ha bisogno del coito più che di mangiare e bere e, in altra occasione, disse = 'Se vostra moglie non ci sta, fatevi la serva...'".


sabato 1 luglio 2017

Streghe ed inquisitori del Cuneese

Antica veduta di Cuneo, precisamente L'esercito di Napoleone occupa la fortezza di Cuneo il 28 aprile 1796, Giuseppe Pietro Bagetti - Fonte: Wikipedia
Tra la metà e la fine del secolo XV, in quell’area che ora corrisponde alla Provincia di Cuneo, una cinquantina di persone furono consegnate dall’Inquisizione al Braccio Secolare (istituzione che eseguiva materialmente le pene) e arse vive: e del resto il Basso Piemonte, oltre ad esser permeato di interventi contro le streghe che lo avrebbero infestato, diede i natali ad inquisitori più o meno noti come il cinquecentesco Silvestro Mazzolini.
Nella sola città di Cuneo, in un giorno non precisato dell’anno 1445, vennero arse vive ventidue persone, solo perché considerate eretiche (l’esecuzione avvenne nei pressi dell’attuale l’ospedale S. Croce); i ventidue sfortunati facevano parte di una cospicua comunità valdese dimorante in e nei pressi di Bernezzo, erano chiamati "poveri di Lugano, Gazari o Valdesi", dopo l’esecuzione i loro beni furono confiscati. Gli inquisitori furono frate Giovanni Fiamma e Pietro Bertramo. Il fatto è menzionato da Marco Aurelio Rorengo, in un antico libro di memorie citato da Pietro Gioffredo nel 1650: "…namque tunc pullulabat super Bernecium haeresis pauperum de Lugdano, qui a quibusdam appellabantur Gazari, ab aliquibus Valdenses, et intitulati a Magistris Johanne Fiamma et Bertramo Pere Inquisitoribus haereticae pravitatis; et in summa reperti fuerint XXII relapsi, et in Cuneo condemnati igne cremati sunt, et eorum bona praefatio Domino confiscata… ".
Verzuolo, 26 maggio 1497…si scelgano tre o quattro persone che vadano dall’illustre signore e marchese ad ottenere il permesso per gli uomini di Verzuolo di recarsi a colloquio dall’Inquisitore e giudice delle false teorie eretiche al fine di ricercare gli eretici e le dottrine errate (…) per il bene della Comunità si stabilì che venissero scelte tre o quattro persone per andare a Saluzzo a chiedere all’illustre signor Marchese fino a che punto volesse concedere la facoltà alla Comunità ed alla gente verzuolese di portare a Verzuolo l’Inquisitore delle falsità eretiche per ricercare i sospetti di eresia o gli eretici e le masche ed altre simili persone che sono fuori della religione cattolica, poiché arrecano molto danno nel suddetto paese e nel territorio di questa località… ".
" Verzuolo, 13 luglio 1497…si conviene di scegliere due persone che vadano a Saluzzo a concordare i provvedimenti da stabilirsi col reverendo Signor Inquisitore (…) si diedero disposizioni che venissero scelti… ".
" Verzuolo, 5 agosto 1497…si conviene di predisporre le spese relative al reverendo Signor Inquisitore ed al suo collaboratore che devono svolgere l’incarico di giudici delle false dottrine eretiche nel paese di Verzuolo. Si stabilì che le spese per il reverendo Signor Inquisitore ed il suo collaboratore vengano ascritte alle spese pubbliche per otto giorni e non oltre e che i giudici cerchino due testimoni per procurarsi informazioni dal segretario del reverendo Signor Inquisitore di Savigliano. Parimenti si scelgano tre o quattro persone che saranno sempre presenti e parteciperanno quindi alle indagini da compiersi circa le persone incarcerate o da incarcerare, riguardo alle false teorie delle masche e degli eretici… ".
" Verzuolo, 21 agosto 1497…si convenne che la Comunità si impegnava a sostenere le spese per il reverendo Signor Inquisitore e per il suo collaboratore e ciò fino a che non si trovassero colore che erano caduti nell’errore dell’eresia e si stabilì che ai prigionieri e ai condannati venissero pagati i debiti; e il nostro illustre padrone Signor Marchese promise di aiutare la Comunità e di pagare le spese relative ai suddetti debiti… ".
Verzuolo (CN) - Fonte: Wikipedia
Nel 1497, altri documenti pubblicati da Ferdinando Gabotto nel 1898, ci informano che anche Verzuolo invoca l’Inquisizione contro eretici e streghe (masche): "

Cinquecentina - Fonte: Comune di Barcellona Pozzo di Gotto
Nella bibliografia del Mazzolini, lo studio della stregoneria ebbe un posto importante: se ne occupò nel dizionario teologico Summa summarum, nella voce Haeresis, pubblicato a Bologna nel 1514 e che ebbe numerose ristampe. In questo testo l’autore pone in evidenza alcuni aspetti fondamentali della stregoneria, limitandosi ad indicarli come temi ricorrenti, ma non ancora approfonditi. Le streghe, per l’inquisitore, erano esponenti della cultura contadina, generalmente donne che accettavano di partecipare al sabba, non solo per il piacere di entrare in possesso di conoscenze e poteri straordinari, ma spesso per disperazione e necessità di scorgere una possibilità per sfuggire alla propria condizione precaria.
Nel trattato De strigimagarum demonumque mirandis, che fu stampato nel 1520, troviamo invece una trattazione più articolata e complessa. Tra le note originali della ricerca, il termine coniato dal Mazzolini per definire le donne che di notte si ritrovavano al sabba: strigimagae. Nella voce Haeresis, suddivisa in otto punti, non si trova ancora il riferimento alle strigimaghe, rinvenuto invece nel più articolato studio monografico che però ebbe scarso successo e del quale si conosce solo una prima stampa. Come già detto, Mazzolini si limita a sottolineare che le streghe sono "gente di campagna e di sesso femminile", datesi al diavolo "per piacere e disperazione", ma non approfondisce la questione, fermandosi ad una considerazione epidermica. Di contro, dal secondo punto in poi analizza con precisione quasi maniacale documenti storici fondamentali per la lotta contro la stregoneria, come il Canon Episcopi , il Formicarium del Nider e il Malleus Maleficarum che considera " Magni viri ". Nel De strigimagarum demonumque mirandis riportiamo alcuni frammenti che ci pare possano offrire delle preziose indicazioni sulla riflessione teologica, coadiuvata dall’indagine sul territorio, del Prierias. Di certo sono innegabili le connessioni con il patrimonio culturale coevo, in particolare per quanto riguarda l’aspetto eminentemente giuridico, mentre sul piano dell’interpretazione dei fenomeni, si può ritenere degno di nota il tentativo dell’inquisitore piemontese di tracciare una nitida separazione tra le streghe adepte di Satana e le appartenenti a sette in cui erano individuabili le reminescenze di tradizioni cultuali precristiane." Le due sette, quella seguace di Diana e quella odierna delle strigimaghe, concordano in quanto a genere: eresia, superstizione e illusione diabolica, ma differiscono quanto specie. Dunque il Canon sembra proibire che le strigimaghe vengano portate realmente al sabba. Sebbene esso non parli di strigimaghe ma piuttosto di un’altra setta, come si è mostrato, sembra tuttavia accennare ad esse, in quanto entrambe le sette credono nella realtà del trasporto. Tuttavia sono del parere che in realtà il Canon non sostiene ciò: non lo si può argomentare dal testo, se non per ignoranza. Anzitutto, non v’è dubbio alcuno che in quel luogo la setta delle strigimaghe non era ancora nata, in quanto si formò circa nel 1404, al tempo di Innocenzo VIII, coma appare dalla sua Bolla (...). Sovente fanciulli e fanciulle di dodici o otto anni, per ammaestramento o esortazione degli inquisitori si ravvedono, ad essi viene comandato, a miracolo di un così grande fatto, di danzare come fanno al sabba. Questi bambini danzano in modo tale che nessun esperto potrebbe negare che sono stati ammaestrati da qualche arte superiore, che trascende da quella umana. Infatti queste danze sono in tutto dissimili da quelle umane, in quanto in esse la femmina si sostiene dietro la schiena del maschio e si balla non avanzando ma indietreggiando. Alla fine del ballo, quando si deve riverire il diavolo che presiede il sabba, gli offrono le terga e inchinano la testa non davanti ma dietro e non piegano indietro il piede, ma davanti, sollevandosi in alto. Compiono tutto ciò con tanta grazia ed eleganza che è impossibile averlo appreso subito e in così tenera età (...). Io desidero tantissimo che qualcuno dei nostri reverendissimi cardinali si prenda l’incarico di far giungere a Roma dieci di questi fanciulli e fanciulle (il che è facilissimo) per offrire anche a quella città un grande spettacolo e togliere agli increduli il velo alquanto esteso di cecità "  


domenica 25 giugno 2017

Ipnotismo, sonnambulismo, fascinazione, sibille

Il presunto Antro dell'Averno
La tecnica dell'IPNOSI e dell'IPNOTISMO (nell'età intermedia sempre in bilico tra le ACCUSE DI PRATICA STREGONESCA e di ESERCIZIO CIRCENSE) prima di essere faticosamente riscatta dalla SCIENZA MODERNA) risale a tempi assai remoti: scomodando il complesso, e non sempre decifrato, patrimonio sacerdotale egizio o caldeo, si può per esempio affermare, senza tema di smentimenti, che per molti versi il sonnambulismo, una fra le principali conseguenze dell'ipnosi, era già stato intimamente connesso a pratiche rituali pagane, perseguite dal Cristianesimo primigenio, come le "arti proibite" della Profezia e/o Divinazione [storicamente proprie della cultura oracolare e della tradizione profetica delle SIBILLE (PROFETESSE - PITONESSE -PIZIE) antiche [celeberrimo in particolare l'ANTRO DELLA SIBILLA CUMANA] ormai equiparate dalla pubblicistica ecclesiastica ma anche da interessati medici al rango di a STREGHE]: un rarissimo esempio della sopravvivenza della cultura oracolare delle Sibille (sconosciuto alla cultura inerente ed alle bibliografie ufficiali e comunque ascritto al settore dei "libri eretici" e quindi dei "libri proibiti") è il VOLUME (edito nel 1775 a Viterbo, per lo stampatore Domenico Antonio Zenti, formato in 8°, di pp.6-20-166 con il frontespizio interamente inciso) di Vincenzo Azzolini dal titolo Oracoli Sibillini, libri sei, Tradotti dal Greco in Versi Sciolti Toscani.
Sulle radici di una gloriosa tradizione letteraria il mito della SIBILLA CUMANA peraltro valicò la scomparsa del mondo antico e nel Medioevo si cercò di individuare, secondo la tradizione della poesia virgiliana letta attraverso il commento di Servio, la sede dell'oracolo sibillino: esercitò poi sempre un particolare fascino tra i dotti la leggenda virgiliana della discesa agli inferi di Enea, cioè della sua "missione" all'AVERNO destinata a forgiare e giustificare i destini di ROMA, sotto la guida della profetessa. Su tale direttrice culturale si cercò quindi di individuare l'antro della mitica discesa sulla sponda del LAGO D'AVERNO, localizzandolo presto negli ambienti tuttora caratterizzati dal toponimo GROTTA DELLA SIBILLA.
Per l'intiero Rinascimento non si discusse mai tale identificazione atteso che era stata sostenuta anche dal Petrarca e dal Boccaccio oltre che dagli antiquari locali e dai viaggiatori stranieri.
Scetticismo mostrarono ben pochi studiosi tra cui l'Alberti ed il Capaccio, che rigettarono siffatta localizzazione, in forza d'una analisi critica, esente da qualsiasi principio d'autorità, del testo virgiliano, che li portò ad individuare con giustezza nella GROTTA DELLA SIBILLA un arcaico camminamento tra il Lucrino e l'Averno: eppure nonostante la loro autorità da cui si evolsero i sempre maggiori dubbi degli eruditi, la visita all'ANTRO DELL'AVERNO costituì per molto tempo ancora una delle mete predilette del Grand Tour proprio mentre le rovine dell'Acropoli di Cuma erano degradate nell'indifferenza generale sino ad un secolare abbandono.
Si tratta probabilmente di leggende, connesse alla letteratura -in gran parte oracolare- fiorita intorno alle figure delle Sibille ma nello smisurato campo degli studi sull'aretalogia pagana si individuano vaghissime tracce su una casta sacerdotale femminile, per breve periodo di un certo peso culturale e sociale tra area Mesopotamica ed Oasi di Tineh in Egitto, la cui Sacerdotessa madre avrebbe detenuto il potere dell'Ingadurn, nome che è giunto solo oralmente e in vari esiti, tutti inspiegabili, che per quei pochi dati che è stato possibile mettere insieme parrebbe essere uno fra i tanti nomi dell'arte ipnotica, ma senza uso di filtri e specchi: sarebbe stato un modo d'entrare nelle menti dei più semplici e ricettivi sì da suggestionarli, creando immagini di varia natura, spesso terrificanti o consolatorie. Non si sa di più sulla tecnica dell'Ingadurn per alcuni si tratta solo d'una leggenda alimentata per rendere più temuta la figura della Sacerdotessa madre: per vie insondabili ed inspiegabili, già in epoca romana, alcune maghe di tradizione orientale avrebbero condotto nella capitale, più come un gioco da illusionisti, i rudimenti di tale "pseudoscienza" per far soldi alle fiere ed ai mercati.
Anche nella Grecia classica la condizione pseudonirica dell'estasi poi confusa facilmente con il discusso tema dell'ipnosi [cui peraltro non era estranea l'assunsione di sostanze allucinogene] era peraltro considerata - da una postazione sempre maschilista - più consona alla fragilità emotivo-costituzionale femminile (che si esaltava nel ruolo sacrale della PIZIA (PITONESSA), equivalente della "SIBILLA" O MEGLIO DELLE "SIBILLE") e poco in sintonia con l'aristocratico decoro dei maschi egemoni) o come il "Sonno rituale" o "terapeutico" presso gli antichi templi, contro cui (come avverso il rituale delle "abluzioni curative" nelle Fonti sacre dei Luci o "Boschi sacri", spesso votati alla religione celto-romana delle Matres ed ancor più contro il tema di ascendenza ellenistica ma non ignaro in contesto romano dell'Aretalogia o Miracolistica Pagana nel Sonno Sacro presso i Santuari della Guarigione e comunque connesso alla potenza guaritrice di Apollo e del di lui figlio Esculapio di cui restano importanti attestati archeologici e documentari), in varie fasi dell'evoluzione del cristianesimo, si dovette intervenire, dall'autorità episcopale, per dissuadere fedeli, in cui sopravvivevano, in sinergia e sincretismo cogli elementi base del Cristianesimo, radicate convinzioni idolatriche.
Naturalmente - pur non potendo ignorare questi presupposti cultuali e la storica, soprannaturale fobia per Demoni Incubi e Succubi (in qualche maniera, nell'età intermedia, fobia od ossessione esorcizzata dal Sonno profondo sotto forme di parossistico terrore e spesso posta alla radice probatoria -come Maleficio- di procedimenti per Stregheria) - la storia recente dell'IPNOSI si rifà alle osservazioni parascientifiche di Mesmer da cui poi derivarono distinte interpretazioni, sino alla storica dicotomia tardo ottocentesca tra il pensiero di Charcot (spiegazione neurofisiologica dell'ipnosi) e di Bernheim (interpretazione psicologica), dicotomia alla fine superata da FREUD che rivalutò l'impegno diretto del paziente messo in grado di raggiungere da solo le conoscenze liberatorie.
In termini estesi si può definire l'ipnosi alla stregua di uno stato psicofisico di destabilizzazione della coscienza che viene evocato dall'ipnotizzatore e che decorre durante il rapporto con lo stesso.
In base alla tecnica seguita dall'ipnotizzatore ed in relazione alla particolare condizione emotiva dell'ipnotizzato, il processo di ipnosi è in grado di svilupparsi secondo distinti livelli (dalla vigilanza al sonnambulismo) e quindi assumere caratteristiche anche molto diverse.
Sulla linea delle considerazioni terapeutiche che le si attribuiscono l'ipnosi ha la proprietà di agire per linea diretta sulla persona psicofisica profonda del paziente. Lo stato ipnotico si reputa oggi principalmente quale condizione prevalentemente dinamica e risulta distinto dal predominio di funzioni rappresentativo-emotive in luogo di quelle critico-intellettive e da fenomeni di ideoplastia (cioè di uno stato ipnotico passivo per cui il paziente od il soggetto su cui vien fatto un particolare esperimento ipnotico può ricevere idee e suggestioni dell'ipnotizzatore) e condizioni di relativa dissociazione psichica.
Queste, come detto, sono le osservazioni sulla moderna scienza a riguardo dell'ipnosi, ma si è anche fatto riferimento alla vicenda antichissima di questa "tecnica", in forma elementare utilizzata a livello di alcune antichissime religioni pagane: proprio la capacità di "suggestionare una persona particolarmente predisposta e di inculcarle delle idee contrarie alla sua indole" ha finito per costituire nel passato uno dei pilastri ideologici della Fascinazione, matrice elementare quanto temuta dell'ipnosi vera e propria.
La FASCINAZIONE che si riteneva poter avvenire non solo attraverso la SEDUZIONE DEGLI OCCHI ma pure col concorso di particolari bevande e pozioni o sostanze capaci di modificare la psicologia di un individuo piegandola alla volontà, generalmente malefica, dell'eventuale operatore: anche per questa ragione M. DELRIO potè definire la Fascinazione come un Maleficio d'asservimento, ritenendo che per mezzo di forze distinte, principalmente col potere magnetico degli occhi ma pure servendosi di formule magiche e/o filtri vari, Streghe, Maghi e Vampiri potessero impadronirsi delle coscienze altrui e quindi delle loro stesse anime, inducendone peraltro i corpi, in forma di sonnambulismo (e quindi tramite la riproposizione di condannate esperienze idolatriche e pagane), ad operare in modi contrastanti alla loro stessa consuetudine esistenziale.
Sulla sottilissima linea che per secoli separò la giustezza dell'empirismo da vaghe esternazioni parapsicologiche, FRANZ ANTON MESMER, medico e filosofo tedesco (Iznang, lago di Costanza, 1734-Meersburg 1815) laureatosi in filosofia e in medicina a Vienna con la tesi Dissertatio physicomedica de planetarum influxum (1776), provò dapprima quali effetti potesse avere sull'organismo l'applicazione del ferro calamitato [su un piano diverso di ricerche ma comunque parimenti legato al tema antichissimo (altresì legato al teorema alchemico della FONTE DELL'ETERNA GIOVINEZZA di RINGIOVANIMENTO - IMMORTALITA' E/O ETERNA GIOVINEZZA) si può mettere SERGE VORONOFF, scienziato che ebbe contatti non indifferenti col PONENTE LIGURE e con VENTIMIGLIA in particolare].


sabato 17 giugno 2017

I Carolingi

Louis-Félix Amiel, Pipino il Breve (1837) - Fonte: Wikipedia
Con l'avvento dei CAROLINGI, i territori che oggi costituiscono la Francia entrano a far parte di un organismo politico che si estendeva molto oltre quelli che oggi sono i confini naturali francesi. L'origine stessa della CASATA CAROLINGIA (i suoi possedimenti si trovavano nella regione mosellana) la portava a gravitare al di là dei confini del regno, verso l'attuale Germania. Fu infatti in questa direzione che sotto PIPINO IL BREVE e poi sotto CARLO MAGNO (768-814) si spinsero i Carolingi nelle loro guerre contro Sassoni, Baiuvari ed Avari. 

Nel contempo i rapporti con il Papato, sanzionati dall' incoronazione di Pipino e la figura di protettori della Chiesa che sempre più i re franchi venivano assumendo, condussero Pipino e Carlo ad intervenire più volte in Italia contro i Longobardi, sino a controllare quasi tutta la parte settentrionale e centrale della penisola. Da queste conquiste e dall'alleanza col Papato derivò quel mosaico politico che fu il SACRO ROMANO IMPERO.
 
CARLO MAGNO, incoronato imperatore a Roma nella notte di Natale dell'800, riunirà nella sua persona la dignità imperiale romana ed aggiungerà ad essa la sanzione sacra del Papato. Gli ideali di restaurazione imperiale e religiosa che si manifestarono nella creazione del SACRO ROMANO IMPERO ispirarono l'opera del successore di Carlo, LUDOVICO IL PIO, e dei suoi consiglieri, tra i quali figuravano i maggiori di quei sapienti cui spetta il merito della ripresa di studi classici nota come "Rinascenza carolingia". L'Impero non tardò tuttavia a rivelarsi una creazione artificiale e provvisoria; anzi al suo interno esso venivano affermandosi formazioni etniche e territoriali ben distinte e caratterizzate. 

Per quanto concerne la Francia si tende a rilevare l'importanza dei GIURAMENTI DI STRASBURGO come prima testimonianza dell'esistenza di una comunità etnica francese distinta da quella germanica. Il fatto che a Strasburgo LUDOVICO DI BAVIERA e CARLO DI AQUITANIA giurassero rispettivamente davanti alle loro truppe in lingua romanica ed in lingua germanica di non concludere una pace separata con il fratello LOTARIO (che di Ludovico il Pio era il primogenito), il quale pretendeva la totalità del potere, ha fatto arguire che nell'ambito dell'IMPERO CAROLINGIO i popoli abitanti la Francia fossero considerati come un complesso etnico distinto da quelli abitanti la Germania. Il trattato di Verdun (843), che pose fine alle contese fra gli eredi di Ludovico il Pio citati sopra, conferma questa postulazione.
A CARLO infatti vennero assegnati i territori dell'Aquitania, della Neustria e della Borgogna corrispondenti a gran parte della FRANCIA moderna.
A LUDOVICO invece toccarono i territori al di là del Reno corrispondenti alla futura GERMANIA.
LOTARIO, oltre il titolo imperiale, ottenne i territori fra il Reno e la Saone, che presero il nome di LOTARINGIA (donde il moderno toponimo di LORENA) e che costituiranno per secoli area contesa tra Francia e Germania.
 
Non si deve credere che alla data del trattato di Verdun la Francia e la Germania fossero delle individualità nazionali ben definite. Sta di fatto tuttavia che la partizione dell'843 si mantenne, sia pure con tante modificazioni, nel corso dei secoli e che d'ora in poi la storia di Francia e Germania procederà per cammini distinti.
I primi tempi del REGNO FRANCO, dopo il trattato di Verdun, non furono facili. CARLO IL CALVO (840-877) ed i suoi successori dovettero continuamente districarsi dalle difficoltà loro create dalla insubordinazione dell'aristocrazia feudale e dalla pressione di invasori esterni.
A meridione sulle coste di Linguadoca e Provenza dovettero affrontare le incursioni dei Saraceni e a nord quelle dei Normanni, che nell'IX secolo devastarono spesso le campagne francesi, assediando la stessa Parigi. Furono respinti dopo aspre lotte, ma riuscirono a stanziarsi stabilmente nella Francia nord-occidentale che da essi prese nome di NORMANDIA, dove istituirono un potente ducato venendo poi assimilati progressivamente alla popolazione indigena.
In questo caotico periodo della storia francese (tra fine del IX e conclusione del X secolo) solo CARLO IL CALVO diede prova di spiccate qualità. I suoi successori non riuscirono che per periodi limitati ad imporre la loro autorità sui vassalli ed ebbero regni brevi e contrastati. Si ripeteva quindi con gli ULTIMI CAROLINGI quel periodo di anarchia e di intrighi che aveva contraddistinto il tramonto dei Merovingi.
Dopo una serie di vicende dinastiche e guerresche la corona pervenne nel 987 ad UGO CAPETO, DUCA DI FRANCIA. Da lui avrebbe preso inizio una dinastia destinata a sostenere una vicenda basilare nella storia della Francia medievale.
Dal punto di vista interno il periodo carolingio fu contrassegnato da uno sviluppo delle tendenze destabilizzanti manifestatesi sotto i Merovingi. L'autorità del re sui suoi vassalli e sui suoi stessi funzionari era limitata. Questi ultimi anzi da servitori del sovrano tendevano a trasformarsi in suoi "fedeli", con un tipo di "fedeltà" che il sovrano doveva comprarsi a prezzo di gravosi "benefici" che ad assottigliarono le risorse di fisco e demanio. Vano fu il tentativo attuato sotto CARLO MARTELLO di compensare queste alienazioni con il sequestro dei beni della Chiesa.
La posizione particolare della CHIESA nel SACRO ROMANO IMPERO e la sua autorità spirituale e temporale non permisero che questo tentativo producesse frutti positivi.
La vita sociale ed economica risultava quindi ancora frantumata nelle villae, divise in una réserve coltivata direttamente dal proprietario con l'aiuto dei suoi servi o la collaborazione "fiscale" dei suoi "uomini" e nelle tenures che questi ultimi coltivavano in proprio pagando un canone (quasi sempre in natura) al proprietario. Tra gli "uomini" ed il signore si istituiva di conseguenza un rapporto contrattuale: gli uni assicuravano la loro prestazione lavorativa sulle terre della réserve mentre il Dominus si incaricava della loro protezione nei confronti di pericoli esterni. Tale tipo di rapporto consensuale si estese dal basso all'alto della scala sociale, sì che i1 proprietario minore finì per cercare la protezione del maggiore, divenendone vassallo, mentre questo per sua parte si raccomandava ad altri più potenti di lui, a un vescovo, a un conte. Al sommo di questa struttura piramidale di relazioni sociali e contrattuali stava quindi il re, considerato supremo souverain fieffé.
Questo nuovo tipo di gerarchia sociale, se ha le caratteristiche di impersonalità e di universalità dello Stato romano, presenta tuttavia in lenta germinazione alcuni aspetti essenziali degli Stati moderni: soprattutto, i principi di contrattualità e consensualità, nelle relazioni tra inferiore e superiore, stavano infatti generalizzandosi ed evolvendosi verso quello della rappresentanza. 




sabato 10 giugno 2017

Serenissima Repubblica di Genova

Genova - Palazzo Ducale
Nel 1536 Carlo V concedeva a Genova un amplissimo privilegio, che equiparava il Doge nel grado e nelle insegne a tutti i duchi d'Italia e del Romano Impero.
In conseguenza, la Signoria stabiliva, il 27 dicembre 1538, che il berretto del Doge venisse ornato di cerchio d'oro, e che questo e la spada non mancassero nelle cerimonie ufficiali.
Come le insegne del potere, così anche i titoli, il cerimoniale e il punto d'onore assumevano una funzione sostanziale come elemento di valutazione per gli individui e per gli Stati, perché ogni deroga poteva significare proposito di recare offesa o di dimostrare minore considerazione; perciò premessa di ogni azione diplomatica era di ottenere tutti i titoli e i segni di rispetto che si ritenevano dovuti all'ambasciatore e allo Stato rappresentato.
Nel 1580 l'ambasciatore Giorgio Doria aveva ottenuto dall'Imperatore, Rodolfo II, (e nella richiesta era il riconoscimento del principio medievale che poneva nell'Impero la suprema fonte del diritto) la concessione del titolo di Serenissimo per il Doge, per il Senato e per tutta la Repubblica; e nel 1587 fu confermato, contro il parere di Gian Andrea Doria, che fosse attribuito al Doge (era allora Ambrogio Negrone) e ai Supremi Collegi il titolo già assunto da altri capi di Stato, ma con l'aggiunta che a questi non fosse dato se essi non lo attribuivano al Doge e alla Repubblica.
Gli ambasciatori ebbero allora l'ordine di essere inflessibili nel pretendere l'uso di quella denominazione.
Fiere le opposizioni, specialmente del Duca di Savoia, che alla fine fu costretto ad arrendersi: su ben altro terreno doveva portarsi tra non molto il conflitto.
Anche più ostinato il Duca di Toscana.
Interminabili vertenze in materia anche con l'Impero, che negava la reciprocità soltanto per mercanteggiarla con compensi in denaro, e con la Spagna per caparbia ostentazione di superiorità.
Anche se per consuetudine si parla spessosolo di Dominio per Genova ed erroneamente si pensi da molti, anche e colpevolmente da eruditi ed intellettuali, che l'appellativo di Serenissima Repubblica sia stato vanto esclusivo della nemica storica di Genova cioè Venezia, le cose non stanno in questi termini: una vasta cartografia è peraltro a disposizione su questo sito per studiare la SERENISSIMA REPUBBLICA DI GENOVA.
Così per quanto La Serenissima per antonomasia e per abitudine culturale sia stato appellativo di Venezia ed a Genova parimenti per antonomasia ed abitudine culturale sia stato conferito anche più spesso l'appellativo di Superba e/o Dominante a tutti gli effetti giurisdizionali e polici, pariteticamente è corretto parlare di una Serenissima Repubblica di Genova.

da Cultura-Barocca 

venerdì 2 giugno 2017

Il II Concilio di Nicea

Moneta di Costantino V e di suo padre Leone III - Fonte: Wikipedia
Il VII CONCILIO ECUMENICO (II CONCILIO DI NICEA) si tenne dal 28 settembre al 23 ottobre 787 avendo quale tema di base la legittimità del culto delle immagini.
La lunga lotta contro le immagini, manifestatasi nel 726 ed esplosa nel 730, dilaniava l'impero bizantino.
Il partito degli ICONOCLASTI, appoggiato dagli imperatori Leone III (711 - 741) e Costantino V (741-775), era riuscito momentaneamente a trionfare.
Solo i MONACI non si erano piegati, e per questo motivo erano caduti sotto i provvedimenti di Costantino V.
Il favore popolare si era progressivamente volto verso i MONACI ICONOFILI, autoproclamatisi la coscienza della Chiesa di fronte al letargo dell'episcopato.
Le ragioni teologiche si fondevano con scelte sociali, e si trasformavano in orientamenti di politica ecclesiastica.
La Chiesa di Roma e l'Occidente erano contrari all'iconoclasmo ma Costantino V aveva reso possibile un grosso successo del partito iconoclasta quando nel 754 aveva convocato a Iereia in un palazzo imperiale sulla sponda asiatica di Costantinopoli un concilio di 338 vescovi bizantini, autoproclamatosi ecumenico, che aveva condannato il culto delle immagini.
L'assenza dei patriarchi orientali ed il contrario orientamento della Sede romana annullavano tale pretesa qualsiasi decisione presa sul piano della Chiesa universale.
Però nel vasto contesto dell'IMPERO ORIENTALE l'iconoclastia, sino a quel momento sorretta dai soli editti imperiali, poteva ora sentarsi quale dogma della Chiesa e del patriarcato di Costantinopoli.
Allorché, dopo il 780, l'imperatrice Irene volle restaurare il culto delle immagini, accanto alle scelte di ordine politico, fu obbligata ad affrontare lo pseudo concilio ecumenico del 754.
Irene pensò quindi alla possibilità di convocare un concilio ecumenico in grado di abbattere legalmente i contenuti della riunione di Iereia.
Per questo fu indirizzata la scelta del nuovo patriarca di Costantinopoli verso la figura di Tarasio, un laico, abile funzionario imperiale.
Costui, elevato all'episcopato, sarà il prudente orchestratore del concilio.
Irene e Tarasio ebbero per ciò il consenso di papa Adriano, che ratificò la proposta bizantina di un concilio ecumenico sul culto delle immagini, a condizione che venisse riconosciuto il diritto primaziale petrino della chiesa di Roma di confermare o meno le deliberazioni conciliari.
I patriarchi orientali, dal canto loro, diedero il proprio assenso alla celebrazione del concilio.
I lavori iniziarono a Costantinopoli nella chiesa dei SS. Apostoli (agosto 787).
Una parte delle guardia imperiale, ispirata da ufficiali iconoclasti, fece però irruzione in chiesa disperdendo i vescovi.
Irene riuscì a far reprimere la rivolta ma decise di trasferire il concilio in una sede più sicura e optando scelse NICEA anche per il ricordo e il prestigio legato alla sede per NICEA celebre sede del primo concilio ecumenico.
La presidenza legale fu nelle mani dei rappresentanti papali ma in effetti venne esercitata dal patriarca Tarasio.

Vi presero parte all'inizio 238 vescovi che divennero 335 alla conclusione del Concilio.

Le deliberazioni vennero lette alla presenza dell'imperatrice e di suo figlio il 23 ottobre.
Esse constano di ventidue canoni disciplinari e di una definizione di fede: il Verbo di Dio si è fatto uomo, e pertanto può essere rappresentato, così pure i Santi. Le immagini non possono essere oggetto di adorazione (latreìa) in se stesse, poiché essa é dovuta solo a Dio, ma di devota venerazione (timetiché proskunesis).
La venerazione risulta quindi giustificata per l'intima correlazione tra l'immagine eil prototipo (vale a dire la persona o il mistero rappresentato nell'immagine).