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domenica 26 giugno 2016

Quando si credeva che le streghe volassero

Canon Episcopi - Fonte: Wikipedia
Nel Formicarius del Nider, composto nel quarto decennio del Quattrocento, era riportato un caso in cui una donna che sosteneva di recarsi in corpo ai convegni di Diana era stata smascherata in presenza di testimoni da un sacerdote, il quale aveva inteso in quel modo confermare in via sperimentale le affermazioni del Canon Episcopi.
Ma poi, come già sappiamo, nell’atteggiamento ufficiale della Chiesa ci fu una corsa verso il basso, complice la convergenza tra gli interessi di chi mirava a soggiogare la plebe con racconti terrifici sulle conseguenze delle trasgressioni e il popolo stesso, pronto a prestare orecchio ai racconti inverosimili.
Dalla posizione scettica degli autori più antichi si passò così ad affermazioni opposte nella letteratura demonologica ufficiale del secolo XVI, allineata alle tesi espresse nel manuale di Jakob Sprenger e Heinrich Kramer.
Ma anche nel Quattrocento diversi autori si dicevano convinti che le streghe si recassero corporalmente in luoghi lontani, come Alfonso Tostato (1400 ca 1455), Jean Vineti (vissuto circa fino al 1470) e il domenicano Girolamo Visconti (morto verso il 1478).
Quest’ultimo proponeva un ineffabile ragionamento per dimostrare la realtà del convegno diabolico: era chiaro che le cose stessero in quel modo, perché se uno sogna soltanto di volare e spassarsela col diavolo, mica lo si uccide per questo.

Invece le streghe sono consegnate al braccio secolare per essere punite con il giusto castigo: la giusta pena e il rogo, secondo la consuetudine comune ergo è dimostrato come il gioco cui esse si recano sia reale e non un semplice parto della fantasia.
Quanto al Canon Episcopi – proseguiva, arrampicandosi sugli specchi degli artifici retorici – sostiene che sia falso credere al volo delle compagne di Diana, non che esse non siano in grado di volare.
Poco più tardi Silvestro Prierias si arrabattava a dimostrare, da parte sua, come il Canon non vietasse di credere alla realtà del sabba e, in ogni caso, intendeva riferirsi ai fenomeni del suo tempo, in cui ancora non era sorta la setta malefica che imperversò in seguito.
Ad affermare ciò egli non era il solo: si trattava anzi di uno degli argomenti che ricorrevano con maggior frequenza.

Insomma: forse una volta le streghe non volavano sul serio, ma nel frattempo avevano imparato a farlo.

Della medesima opinione era pure Francisco Torreblanca: in fondo - egli sosteneva - erano le stesse interessate a riconoscerlo tam in eculeis is quam spontanea confessione e ad alcune era pure accaduto, per aver deciso di abbandonare la compagnia sul più bello, di essere raccolte per strada sul far del giorno, completamente nude, mentre cercavano di ritornare a casa a piedi.

Si andò così progressivamente codificando lo stereotipo del convegno diabolico, che veniva imposto, spesso attraverso il ricorso alla tortura, nelle confessioni delle streghe e, talvolta, come nel caso dei Benandanti, agli adepti di altre correnti esoteriche.

In realtà ai religiosi stava a cuore soprattutto di non mettere in dubbio le affermazioni dell’autorità: ciò che da essa era sancito doveva di necessità essere vero, secondo la logica della cultura scolastica, che anteponeva la lezione dei maestri all’ evidenza sperimentale.
Se tale era l’opinione dei teologi, tanto meno ai fedeli era concessa la possibilità di orientare in maniera diversa il proprio giudizio: si supponeva perciò che l’empio rito avvenisse immancabilmente nei termini riferiti dai testi in formule che, poco per volta, diventarono sempre più uniformi.
Veniva così raggiunto, con i mezzi del tempo, l’obiettivo caratteristico di tutte le forme di manipolazione ideologica: quello di sostituire le semplici verità, che ognuno ha davanti agli occhi, con affermazioni assai più improbabili, presentate però come le uniche corrette.
Per quanto riguardava l’accusa di confezionare unguenti con i resti dei cadaveri, la faccenda non era del tutto inverosimile e non si può sostenere a priori che si trattasse sempre di calunnie.
E non tanto per il fatto che le leggende abbiano di regola un fondamento di verità, quanto piuttosto per la ragione speculare: perché se l’attesa e i bisogni nascosti della gente coltivavano particolari fantasie, era inevitabile che una certa quota di quello stesso gruppo, piccola ma non insignificante, si facesse carico di realizzarle, disponendosi a interpretare la parte, necessaria in ogni contesto sociale, del fuorilegge.
Non si può quindi escludere che le persone riconosciute come complici del diavolo, ritenendosi colpevoli delle morti loro attribuite, andassero sul serio, qualche volta, a dissotterrare nottetempo le spoglie dei cadaveri, allo scopo di comporre gli intrugli magici che esse, secondo una consolidata tradizione, non soltanto popolare ma ormai anche teologica, dovevano confezionare proprio in quel modo.

Ma nel mito del volo notturno, invece, emergeva l’elemento psicotico allo stato puro: tutto, là, si giocava nell’ambito della pura fantasia.

Eppure, della marea di persone condannate per questa ragione ben poche, probabilmente, erano convinte nel proprio intimo di essere innocenti.
La strega o lo stregone era una figura che veniva a occupare il posto creato, nello spettacolo della vita, da una esigenza collettiva.

Tutti i rituali demoniaci comportavano infatti l’attribuzione di significati accessori ad atti di per sè neutrali, che si ammantavano di contenuti immaginari, ritenuti però effettivi tanto da parte di chi compiva, quanto dal resto della società.
La figura della seguace di Satana serviva dunque a concretizzare l’immagine di una trasgressione che, senza dubbio, era ben radicata nell’inconscio collettivo.
Perché, nelle loro squallide condizioni di vita, i miseri sognavano spesso in segreto, per rancore o per volontà di cambiamento, di ascendere a una condizione di potenza che li mettesse al di sopra degli altri e al di là del controllo dell’autorità costituita.
Ma l’aspirazione, nella grande maggioranza dei casi, non riusciva a ottenere alcun seguito e finiva repressa nell’inconscio. Un risultato almeno era raggiunto: il male veniva visto altrove e l’attenzione era distolta dai maggiori problemi.
Ciò contribuiva ad assicurare l’ordine sociale a un prezzo, tutto sommato, piùche accettabile: bastava estrarre, ogni tanto, un frammento qualunque dal magma indistinto della plebe e, senza nulla cambiare, lasciarcelo ricadere in pasto, per un breve tripudio che costituiva un atto liberatorio avidamente atteso, quasi una versione consentita del sabba.
Ma, affinché ciò non ispirasse riserve nell’animo dei più sensibili era opportuno far credere che l’oggetto del sacrificio non possedesse più le normali caratteristiche umane che l’avrebbero reso uguale, in tutto e per tutto, ai sacrificanti.

In un simile contesto non c’era molto da sperare nei buoni uffici degli uomini di Chiesa.
Ci saranno stati anche tra loro alcuni convinti che si trattasse solo di leggende, ma quel che potevano fare era di riferire timidamente gli argomenti suggeriti dal buon senso, senza esprimere le proprie conclusioni in maniera esplicita; lasciare aperta solo un riserva mentale, una nicchia in cui mettere al sicuro se stessi, aspettando che i tempi fossero maturi per un ritorno, almeno parziale, della ragione.
Ma loro, le protagoniste del sabba, pensavano davvero di sfrecciare nel cielo con tutto il proprio peso, o ritenevano che fosse una parte incorporea a rappresentarle agli incontri col signore del male?
Stando alle confessioni allegate agli atti dei processi, entrambe le ipotesi appaiono legittime: alcune erano convinte di volare con il corpo, altre si accontentavano dell’idea di muoversi solo in spirito.

da Cultura-Barocca

 

venerdì 17 giugno 2016

Liborio Romano, già ministro borbonico, deputato del Regno d'Italia

Liborio Romano fu uno di quegli incredibili politici di metà ottocento che segnarono la difficile transizione del MERIDIONE ITALIA dal REGNO BORBONICO DELLE DUE SICILIE al moderno REGNO UNITARIO D'ITALIA (1861).
Nato a Patù (Lecce) nel 1798, studiò diritto a Napoli ottenendo presto la nomina di professore di diritto civile presso l'Università partenopea.
Ispirandosi ad idee liberali e costituzionali si impegnò a favore della rivoluzione napoletana del 1820/'21 e per tale ragione, seppur brevemente, venne privato della cattedra ed obbligato alla residenza coatta in Patù: presto comunque ottenne di potersi recare a Lecce per esercitarvi la professione di avvocato.
Nel 1826 venne colpito da un nuovo provvedimento della magistratura e fu arrestato con l'accusa di far parte della liberale associazione degli Ellenisti: dopo aver passato oltre un anno nelle patrie galere egli ottenne ancora di poter esercitare l'avvocatura (1828) anche se sotto il controllo costante delle autorità di polizia.
Fu quindi (1848) tra i firmatari della petizione inoltrata a Ferdinando II di Borbone allo scopo delle concessione di una moderna Costituzione.
In dipendenza di questa egli si presentò come candidato al parlamento napoletano per la provincia di Terra d'Otranto ma non venne eletto.
Non partecipò ai fatti del 15 maggio 1848 ma, riaffermato l'assolutismo nel REGNO DELLE DUE SICILIE, venne ancora imprigionato e quindi cacciato in esilio in terra di Francia ma con l'obbligo di non potersi recare né a Parigi né in alcuna città portuale transalpina donde potesse fuggire alla volta della patria.
Dapprima rispettò le consegne risiedendo a Montpellier ma in seguito si portò a Parigi per entrare in contatto con importanti personalità politiche come Thiers, Guizot, Thierry.
Allorché nel 1854 gli morì la madre fu autorizzato a rientrare in Napoli.
Nel 1860, all'alba dell'invasione garibaldina, il nuovo re borbonico Francesco II tentò la carta estrema di rimettere in vigore con atto sovrano del 25 giugno la Costituzione del 1848 sì da formare il ministero liberale Spinelli; nel contesto di questo disperato tentativo di salvare il trono dei Borboni di Napoli a Liborio Romano venne conferita la carica di prefetto di polizia (27 giugno).
Poco dopo Liborio Romano (15 luglio) venne chiamato a sostituire il ministro dell'interno Del Re, ma non abbandonò la direzione dei corpi di polizia e, nel disperato progetto di rinforzarne l'efficienza, fece l'ardito passo, onde controllare l'ordine pubblico, di inserire fra gli stessi corpi di polizia i capi della Camorra.
Nel generale collasso delle istituzioni Liborio Romano divenne la più autorevole personalità del decadente stato borbonico e, di fronte all'avanzata dei garibaldini, consigliò a Francesco II di abbandonare Napoli, prendendo contestualmente contatto con Cavour grazie ai servigi del barone Nisco.
Quando miseramente fallirono i progetti piemontesi di suscitare in Napoli un moto filosabaudo ed essendo ormai partito il re alla volta di Gaeta (5 settembre), Liborio Romano si trovò nell'obbligo di ricevere Garibaldi che di persona accompagnò a palazzo reale.
Resosi conto dell'autorevolezza del personaggio, Garibaldi scelse di conferirgli la nomina di presidente del consiglio e di ministro dell'interno: Liborio Romano si mostrò sempre favorevole ai principi di un'annessione incondizionata ed una volta che il Bertani, segretario generale della dittatura, con lui in contrasto, venne riconfermato, decise prontamente di dimettersi.
Fu tuttavia richiamato al governo il 17 gennaio 1861 e ricoprì le vesti di consigliere del luogotenente principe di Carignano: quindi nel corso delle elezioni dell'aprile 1861 risultò eletto deputato in ben 8 collegi meridionali.
Era però un personaggio per molti versi compromesso sia per il sostegno dato nel 1860 a Francesco II che ancor più per essersi valso come capo supremo delle forze di polizia dell'aiuto alquanto interessato della Camorra.
Si cercò quindi di farlo dichiarare inelleggibile, ma riuscì ad evitare tale infamia e scelse il collegio di Tricase, andandosi poi a sedere tra gli esponenti del centro-sinistra.
Da quel momento cercò di segnalarsi all'opinione pubblica quale strenuo difensore delle autonomie locali: però, nonostante il conquistato seggio di deputato, Liborio Romano non svolse più ruoli significativamente importanti in ambito politico nazionale, tanto che giudicò inopportuno ripresentarsi alle elezioni del 1865.
Optò per il ritorno alla terra natia, a Patù, ove si ritirò a vita privata impegnandosi nella stesura di quelle Memorie politiche che furono pubblicate dopo la sua morte (1867) a Napoli nel 1873 (per una rassegna più esauriente vedi: R. Moscati, Liborio Romano in "Rassegna Storica del Risorgimento", 1959)

da Cultura-Barocca

venerdì 10 giugno 2016

Zefiriele Tommaso Bovio, medico del Cinquecento, avventuriero, cabalista, scrittore...


Di Zefiriele Tommaso Bovio (1521-1609), giurista, medico empirico, alchimista e cabalista veronese, esperto anche di botanica e fitoterapista, sostenitore delle cure vigorose e dell'uso di potenti lassativi e di gagliardi vomitivi nelle terapie - onde abbreviare la durata della cura e quindi le possibili sofferenze dei pazienti - poco si sa oggi nonostante la fama che, nel bene e nel male, godette per circa un secolo e ben oltre la sua morte, come si evince dalla ristampa delle sue opere.
Fu oltre che scienziato, anche letterato e soprattutto avventuriero, che non mancò, come lui stesso disse, di partecipare come soldato a varie imprese guerresche.
I dati migliori sulla sua vita si ricavano proprio da una di lui pubblicazione Il Melampigo... e specificatamente da quando rispondendo ai suoi detrattori ritenne doveroso fornire alcune significative indicazioni sulla sua storia personale.

Non tralasciando la discussa questione di un suo quinquennale soggiorno a Genova (come documentano anche due sue lettere a Leonardo Fioravanti - stampate nel Tesoro della vita umana di quest'ultimo, Venetia 1673, p. 248 -, con cui egli, alle prime armi, chiede al più esperto collega qualche consiglio), si può aggiungere che fu a lungo uso a girovagare per varie piazze, esercitando sin nel Ponente ligure e nel basso Piemonte la sua attività di terapeuta.
Certamente, a parte le buone amicizie di cui godette in campo medico, specie in ambito spagirico ed alchemico, non dovette godere di rapporti positivi con la maggior parte dei "Medici razionali", ispirati alle dottrine di Galeno ed Ippocrate. Tuttavia, nonostante scontri di breve durata, l'unica vera polemica fu da lui intavolata per rispondere ad un tal dottore Claudio Gelli di Venezia (il Bovio scrive però "Geli") di cui effettivamente si sa poco e la cui bibliografia è davvero misera: dovette essere un medico razionale, più giovane del Bovio, forse un prestanome per una più nutrita schiera di medici veronesi di maggior nomea. Non sembra mendace il Bovio laddove si interroga sulle qualità professionali e sulla persona stessa del Gelli, sempre ne Il Melampigo... quando, con molta ironia ma senza dubbio con altrettante incertezze, va interrogandosi sulla personalità culturale e dottorale del suo critico.

Una nota su Claudio Gelli: "Si sa solo che dovette fiorire verso il 1585 (non se ne è ricostruita la data di nascita né di morte). La sua bibliografia è minima e solo legata alla polemica con il Bovio.
Nelle biblioteche italiane si sono ritrovati:
Gelli, Claudio, Risposta dell'eccell.dottor Claudio Gelli medico venetiano alle paterne riprensioni dell'eccellente signor Annibal Raimondo Veronese,indirizzate a signori medici rationali, Venetia : ad istantia dell'Autore, 1585, Descrizione fisica: 19, [1] c. ; 4o. Note Generali: Cors.,gr.,rom Marca n.c.sul frontespizio, opera monografica custodita in Biblioteca universitaria Alessandrina - Roma - RM
Gelli, Claudio, Risposta dell'eccellente dottor Clavdio Gelli ad vn certo libro contra medici rationali.Ex malis moribus,optimae leges oriuntur.., In Venetia : ad istantia dell'Autore, 1584, Descrizione fisica:[4], 34, [2] c. ; 4o. opera monografica custodita in Biblioteca universitaria Alessandrina - Roma"
Da una lettera di Bovio a Gelli: "...Voi dite di più, che io mi partì da Verona havendo letto Arnaldo da Villanova nelle cose di Alchimia, et da lui instrutto dell'arte distillatoria, et medicinale, et che vedendo non haver credito nel medicare nella patria, a fine di guadagnar pure qualche danaro, me ne andasse a Genova.
Vi rispondo, che primo che io andasse a Genova, non medicavo molto, nè poco, et andavo in habito di soldato: sì che Don Prospero Martinengo, Monaco dell'Ordine di S. Benedetto, huomo buono, et patrone delle tre lingue principali, Latina, Greca,et Hebraica, Poeta, et Theologo grande, et per tale conosciuto, essendo capitato un mio Poema Heroico De Trinitate, venne a trovarmi per contrahere meco amicitia:& vedendomi in questo habito, rimase tutto maraviglioso; havendosi egli divisato prima nel suo intelletto di veder un huomo grave, con barba longa, faccia squallida,& habito dottorale, per quello, che egli medesimo mi disse allhora:& non poteva satiarsi di addimandarmi, ripetendo otto, ò dieci volte, se io ero quel Bovio compositore di quel Poema cosi bello, tanto dotto,& grave, baciandomi,& ribaciandomi dieci,& più volte.
Et mi fece molta instanza, che aggregassimo i poemi nostri insieme,& gli dessimo alle stampe: ma io fui sempre transcurato nel servar le cose mie,& ne hò perdute,& lasciate tante negli alloggiamenti, ove son capitano di tempo in tempo, che haverei fatto un volume grande, come quello di Homero: a cui (gionto, che gli fù al suo Monasterio) mandai questo esastico, il quale come si conformi alla descrttione vostra di me esaminatelo voi medesimo;& questo Monaco Reverendo è vivo,& sano.
Ad Prosperum Martinengum Monachus.
Quod breve paliolum ex humeris, quodque, ensis Iberus
Miraris vostro pendeat à latere.
Quod vultus hilares, quod sint nostratia verba,
Quodque in omni gestu candida simplicitas,
Aulicolas vito Proceres, declino Agelastos
Vivere me hac vita liberiore iuvas.
La causa dunque del partir mio da Verona fù che il Signor Cosimo da Monte, Vicecollaterale di questo Serenissimo Dominio, non sò da qual spirito condotto, mandò trè Soldati ben armati alla scoperta per farmi un'affronto da' quali (la bontà & gratia del Signor Dio) mi diffesi,& diedi loro delle ferite.
Et quantunque il Signor Capitano Gio. Lodovico suo Zio,& il Signor Antonio Maria suo fratello ne havessero fatto scusa meco alla gagliarda, però dubitando io, che se la la prima volta non gli era riuscito il pensiero, non raddoppiasse un'altra volta la posta, elessi cangiar paese,& assicurar le partite mie, per non accender maggior fuoco tra noi, le case, le famiglie,& amici nostri: cosi guidato da celeste scorta mi condussi in Genova,& ivi rimasi per dispositione divina.
Quivi contrassi amicitia per mezo del Magnifico Camilla, Medico di buon nome, col Signor Marc'Antonio Pallavicino, vecchio,& gottoso,& era otto anni, che non era uscito di casa, et rare volte di letto, per detta indispositione: il quale dilettandosi delle historie,& lettere sacre, trovandomi instrutto di queste,& quelle, come occorre nelli ragionamenti, mi dimandò se lo haverei potuto suffragare nella infirmità sua.
Io (cosi disponendo le cause superiori) gli dissi che sì, et per quanto valeva, me gli offersi, et egli mi si diede in preda.
Lo curai, et con la gratia del Signor Dio lo condussi a passeggiar tra Banchi,et Santo Syro, per tre hore, ove fù abbracciato da innumerabili amici.
Cosi, per cinque anni, me ne passai con la dottrina di Gordonio, prestatomi dal predetto Medico Camilla,& altri libri di Medicina, che quivi parte comperai, parte mi furon dònati....
"
Segue qui l'elenco delle opere del Bovio reperite nelle biblioteche italiane:

Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Horifugia, siue Lusus - Venetiis: Ziletti, Giordano, 1567
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Opere contra medici putaticij rationali del Sig.r Zeffiriele Thomaso Bovio - Padova: Tozzi, Pietro Paolo, 1626
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Fulmine contro de'medici Putatitij rationali di Zefiriele Thomaso Bouio nobile veronese - In Verona: appresso Sebastiano dalle Donne, & Andrea de' Rossi suo genero: Dalle Donne, Sebastiano & DeRossi, Andrea, 1592
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Melampigo ouuero confusione de medici sofisti che s'intitolano rationali. Et del dottor Claudio Geli & suoi complici...di Zefiriele Thomaso Bouio.. - In Verona appresso Girolamo Discepoli,& fratelli: Discepolo, Girolamo & fratelli Palazzolo, Marcantonio, 1585
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Flagello de' medici rationali, di Zefiriele Tomaso Bouio nobile veronese; nel quale non solo si scuoprono molti errori di quelli, ma s'insegna ancora il modo d'emendargli, & correggerli - In Venetia: Nicolini da Sabbio, Domenico, 1583
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Opere di Zefiriele Tomaso Bouio nobile veronese, cioe, Flagello, Fulmine, & Melampigo, contro de' medici putatitij rationali. Con la Risposta dell'eccellentissimo dottor Claudio Gelli - In Venetia: Curti, Stefano, 1676
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Fulmine contro de' medici putatitii rationali di Zefiriele Thomaso Bouio nobile veronese - In Verona: Dalle Donne, Sebastiano & DeRossi, Andrea, 1592
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Melampigo ouero Confusione de' medici sofisti, che s'intitolano rationali, et del dottor Claudio Geli, & suoi complici nuoui Passali, & Achemoni: di Zefiriele Thomaso Bouio nobile patricio veronese nuouo Melampigo - In Milano: Bidelli, Giovanni Battista, 1617
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Fulmine contro de' medici putatitij rationali. Di Zefiriele Thomaso Bouio nobile veronese... - In Milano: Bidelli, Giovanni Battista, 1617
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Flagello de' medici rationali, di Zefiriele Tomaso Bouio nobile veronese; nel quale non solo si scuoprono molti errori di quelli, ma s'insegna ancora il modo d'emendargli, & correggerli- In Milano: Bidelli, Giovanni Battista, 1617
Gelli, Claudio - Risposta dell'eccellente dottor Claudio Gelli, ad vn certo libro contra medici rationali - In Milano: Bidelli, Giovanni Battista, 1617
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Opere di Zefiriele Tomaso Bouio nobile veronese, cioe, Flagello, Fulmine, & Melampigo, contro de' medici putatitij rationali. Con la risposta dell'eccell. dottor Claudio - In Venetia: Baba, Francesco, 1626
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Flagello contro de' medici communi, detti rationali; di Zefiriele Tomaso Bouio ... Nel quale non solo si scuoprono molti errori di quelli: ma s'insegna ancora il modo di emendargli, & correggerli. Di nuouo reuisto, corretto, & dal proprio Auttore ampliato con la tauola delle cose piu notabili - In Verona: Dalle Donne, Francesco, 1601
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Fulmine contro de' medici putatitii rationali; di Zefiriele Tomaso Bouio ... Nel quale non solo si scuoprono molti errori di quelli; ma s'insegna ancora il modo di emendargli, & correggerli. Di nuouo reuisto - In Verona [Verona]: Dalle Donne, Francesco, 1602
Bovio, Zefiriele Tommaso <1521-1609> - Melampigo ouero Confusione de' medici sofisti, che s'intitolano rationali, et del dottor Claudio Geli, & suoi complici nuoui Passali, e Achemoni: di Zefiriele Thomaso Bouio ... Di nuouo reuisto; corretto, & dal proprio Auttore - In Verona: Dalle Donne, Francesco, 1595

da Cultura-Barocca

giovedì 2 giugno 2016

La battaglia di Poitiers

Charles de Steuben, Bataille de Poitiers en octobre 732 (1834-37) - Fonte: Wikipedia
La battaglia di Poitiers avvenne in un giorno imprecisato del 732 fra un esercito mussulmano proveniente dalla Spagna e le forze dei Franchi accorse in aiuto delle popolazioni locali. La località tradizionale di Poitiers invero non trova riscontro nelle fonti che non la nominano ma indicano invece Tours e la Loira.
L'esercito mussulmano era composta da forze raccolte soprattutto nell'Africa settentrionale dall'emiro Abd al Rahman (latinizzato in Abderrahman) e composte in maggioranza da Berberi, popolazione diversa per lingua e costumi dagli arabi, ma comunque anche essi islamici e generalmente confusi con gli arabi. 
Non conosciamo il numero di questi combattenti ma dal contesto generale dobbiamo ritenere che non doveva essere molto elevato: forse ventimila, secondo alcune ipotesi, ma noi riteniamo che fossero forse anche di meno. Combattevano a cavallo e quindi la carica di cavalleria era la loro arma vincente. Al momento della battaglia avevano già ampiamente saccheggiato il sud della Francia e quindi si trovavano impacciati dalle loro prede. Abd al Rahman avrebbe preferito che avessero lasciato il bottino, ma chiaramente non era possibile chiedere che i combattenti abbandonassero tutto ciò che avevano guadagnato e per il quale erano erano venuti alla lontana Africa e lottato: essi infatti non ricevevano nessuna paga e il loro compenso erano le prede che riuscivano a raccogliere nei saccheggi.
 
L'esercito dei Franchi comprendeva anche contingenti degli Alemanni ed era guidato da Carlo, detto poi Martello, figlio di Pipino della casa di Heristall: egli ricopriva la carica di "maestro di palazzo" del re dei Franchi dei discendenti da Meroveo (Merovingi), che ormai non si occupavano più degli affari di stato che erano lasciati completamente nelle mani dei "maestri di palazzo". Pertanto Carlo era l'effettivo detentore del potere dei Franchi.
L'esercito franco era formato sostanzialmente da soldati appiedati che combattevano in file serrate in modo da formare un solido muro di ferro irto di punte: era una tattica che ricordava quella adottata nel mondo antico e portata alla perfezione dai Romani.
I mussulmani si trovarono di fronte all'esercito dei Franchi quando stavano per dirigere su Tours per saccheggiarla.

I due eserciti si schierarono l'uno contro l'altro ma per sette giorni nessuno dei due iniziò la battaglia in quanto a nessuno dei due conveniva attaccare. I Franchi appiedati non potevano attaccare un esercito a cavallo senza scompaginare le proprie file e d'altra parte i cavalieri mussulmani sarebbero stati in difficoltà ad affrontare le strette falangi dei Franchi. 

Alla fine furono le bande indisciplinate dei Berberi ad attaccare. I Franchi allora sostennero fermamene l'urto delle cariche di cavalleria che si succedettero per tutta la giornata.
A un certo punto ,verso la fine della giornata, nelle file arabe si diffuse la falsa notizia che alcuni Franchi avevano aggirato le posizioni e si erano introdotti nel campo mussulmano dove si trovavano le prede di guerra. Un certo numero di cavalieri mussulmani allora volle dirigersi verso gli accampamenti. Abd al Rahman vide il pericolo e si precipitò in prima fila per dissuadere i propri combattenti da una mossa tanto avventata. Si trovò però a un certo punto circondato da guerrieri nemici e cadde trafitto dalle lance. I Franchi non si resero conto di chi avessero abbattuto.

La notte separò i contendenti e ciascuno si ritirò nei propri accampamenti. La morte dell'emiro poneva ai mussulmani una gravissimo problema. Il loro non era un esercito regolare come quelli moderni o quelli romani nei quali, caduto un generale, se ne nominava subito un altro. Si trattava di truppe raccogliticce, tenute insieme dal prestigio personale dell'emiro che riusciva a imporre la disciplina e non senza difficoltà, come abbiamo prima visto. La morte del condottiero metteva in pericolo la disciplina e pertanto la salvezza stessa dell'esercito ed era abbastanza normale in queste condizioni, in quei tempi, che caduto il capo, l'intero esercito si ritirasse. Pertanto i mussulmani che, comunque, avevano già raccolto una notevole preda, presero la decisione più opportuna: ritirarsi. Nella notte, silenziosamente, senza che i loro nemici se ne accorgessero, lasciarono le tende e si ritirarono con tutto quello che potevano portare con loro.

All'alba, alle prime luci del mattino, i Franchi si schierarono ancora in ordine di battaglia sicuri di dovere ancora affrontare le terribili cariche di cavalleria dei nemici. Ma nell'incerta luce del mattino non si vedevano nemici e gli accampamenti di fronte a loro apparivano vuoti. Naturalmente non sapendo della morte dell'emiro e degli avvenimenti della notte, essi pensarono a un tranello temendo di vederli sbucare da chi sa dove. Gli esploratori subito inviati riferirono effettivamente che gli accampamenti erano vuoti. Cercarono allora dappertutto, fra boschi e valli dove quei temibili cavalieri potevano essersi nascosti ma nulla, non erano da nessuna parte.
 
I Franchi non potevano inseguire i nemici tanto più mobili sui loro cavalli e non ne avevano nè la voglia nè la necessità: bastavano loro che quel flagello si fosse allontanato. L'esercito si smobilitò rapidamente, tutti tornarono alle loro case contenti di non dover più affrontare quel terribile flagello.
In seguito la battaglia di Poitiers fu celebrata come una grande vittoria della cristianità sull'Islam. La cavalleria nei secoli seguenti si impadronì di essa rivendicandola come propria gloria: in realtà ai tempi di Poiters la cavalleria non esisteva ancora. Nacque una leggenda esaltatrice i cui primi momenti possiamo vedere nella cronaca di S. Denis. Tuttora incontriamo molte fantasiose ricostruzioni della battaglia che non hanno alcun fondamento storico.
Dal punto di vista scientifico della ricerca storica mettiamo in risalto alcuni punti:
A) Non si è trattato propriamente di una sconfitta mussulmana: essi si ritirarono semplicemente per la morte accidentale del loro condottiero e non perchè battuti in campo.
B) Non fu vissuta dai protagonisti, specialmente da parte cristiana come di una guerra religiosa. La fonte cristiana di S. Isidoro non definisce mai i Franchi come "cristiani" ed usa definizioni geografiche e non religiose: si parla di "uomini del nord " e anche curiosamente di "europei", termine del tutto insolito, per distinguere i combattenti di Carlo da quelli che venivano dal sud e dall'Africa in riferimento ai Berberi dell'emiro.
C) La battaglia ebbe modesta eco: in realtà attualmente abbiamo solamente una fonte cristiana e una mussulmana che ne parlano in modo attendibile e in ambedue i casi il fatto d'armi non assume particolare rilievo. D'altra parte dobbiamo tener conto della estrema povertà culturale dell'Europa del tempo, per cui tutti i fatti storici del periodo hanno pochissimi riscontri scritti.
Generalmente si ritiene che la battaglia di Poitiers rientri nel numero di quelle poche battaglie della storia da cui è dipesa la sorte del mondo. Infatti se i musulmani avessero dilagato in Francia avrebbero potuto raggiungere l'Italia e Roma, sede del pontefice, avrebbero potuto convertire all'Islam tutta la Europa barbarica appena e superficialmente guadagnata al cristianesimo e quindi la storia del mondo sarebbe stata diversa.
Alcuni storici invece ridimensionano sostanzialmente la portata della battaglia. Ritengono infatti che i musulmani fossero semplicemente dei predoni che non avevano nè i mezzi nè la volontà di invadere veramente l'Europa cristiana. Infatti essi si ritirarono alla prima difficoltà e non ritentarono più l'impresa in seguito. D'altra parte sarebbe stata insormontabile la resistenza delle popolazioni europee che erano ancora barbare ma proprio per questo bellicose e forti.
Da parte nostra consideriamo fondate queste osservazioni ma riteniamo soprattutto che non si possano prevedere le conseguenze a lungo termine di un fatto storico. 

giovedì 26 maggio 2016

Sui monaci antoniani

 
 
I monaci antoniani (così detti dall'anacoreta egiziano Sant'Antonio abate) o, come saranno poi denominati dalla loro base europea di espansione, i CANONICI REGOLARI di Sant'Antonio, arrivarono in Italia da VIENNE nel contesto di una STORIA TANTO ANTICA quanto talora ABBASTANZA CONTROVERSA, procedente dalla tormentata AFFERMAZIONE DEL CRISTIANESIMO TRA LIGURIA E PROVENZA e quindi passata attraverso l'ESPANSIONISMO ISLAMICO E QUINDI L'AFFERMAZIONE DELL'IMPERO TURCO...

Alle origini della loro vicenda terrena gli Antoniani gradualmente si espansero dall'area provenzale nel Ponente Ligure (entro il contesto dell'espansionismo monastico pedemontano verso il mare e i tragitti della fede) non solo per dare ricetto a viandanti e pellegrini della Fede nei Luoghi Santi della Cristianità, ma soprattutto col fine (caratterizzato sulla loro veste dalla presenza del celebre TAU) di assistere e soccorrere i malati in particolare di ERGOTISMO E/O DI HERPES ZOSTERS.

L'Ordine fiorì in Liguria occidentale: la sua fortuna si sviluppò in modo direttamente proporzionale all'aumento dei traffici in quelle contrade, con una sempre maggior frequenza di individui " foresti" malati o sospetti di "portar contagio", temutissimi lebbra e peste. 

La sua opera assistenziale perdurò fin al XVIII secolo quando ne sopraggiunse la soppressione.

Gli "Antoniani" non erano a livello della loro genesi un Ordine cavalleresco religioso organizzato secondo una regola, ma piuttosto una confraternita laica;  che venne poi approvata da papa Urbano II nel 1095 e confermata da papa Onorio III con bolla papale nel 1218. 

L'Ordine ospedaliero dei canonici regolari di S. Agostino di S. Antonio abate di Vienne, detto comunemente degli Antoniani Viennois o di Vienne o, nel regno di Napoli, di Vienna, fu in effetti istituito - con conseguente emancipazione dall'autorità dei Benedettini - solo nel 1297 da papa Bonifacio VIII, con la bolla Ad apostolicae dignitatis, sotto la regola di S. Agostino. 

Alle origini la confraternita era formata da infermieri e frati laici, che avevano come superiori religiosi i Benedettini dell'abbazia di Montmajeur presso Arles, sottomissione che provocava continui litigi e discussioni, a casusa dell'autorità che questi ultimi esercitavano sugli infermieri e i frati laici "antoniani". 

La cura per via di "terre medicamentose" è antichissima e si potrebbe riandare ai tempi degli ospedali militari romani e del medicus castrensis oltre che della letteratura medica di cui potevano avvalersi...

Nel Duecento i monaci antoniani ebbero il merito di tentare nuove strade diagnostiche e curative contro queste malattie epidermiche ed oltre ad acque termali ed argille curative si valsero delle proprietà salutari attribuite al grasso della carne di maiale: durante il Medioevo, la tradizione e le discipline mediche del passato vennero riscoperte...  specie ad opera degli ordini monastici ed al loro recupero dei testi classici. 

Sulla direttrice dei movimenti monastici, all’inizio del X secolo, la Scuola Salernitana, la più antica istituzione medievale dell’Occidente europeo per l’esercizio e l’insegnamento della medicina, recuperò parte di quegli antichi e rivisitati insegnamenti. Per esempio nel capitolo IX del Regimen sanitatis o Flos medicinae Salerni si fa cenno alle proprietà nutrienti della carne di maiale attribuendole, nel capitolo XXV, una valenza terapeutica. In effetti in parecchie chiesuole del ponente ligure esistevano un tempo affreschi impressionanti (fatti poi ricoprire dai Parroci) di uomini disperati dal volto suino (quelle immagini eran correlate per alcuni alla tradizionale equivalenza simbologica maiale-demone, mentre a giudizio non trascurabile di altri costituirebbero un ricordo delle grandi affezioni dermatologiche contro cui quei monaci combatterono, acquisendo il diritto di immunità di pedaggio sui pascoli pubblici, pei maiali che allevavano, caratterizzati dal marchio "Tau" tipico del loro Ordine...

E presso la canonica di S. Antonio di Ranverso sulla diramazione della via Francigena, che dall'Europa Centrale tramite il Cenisio portava al mare Tirreno, si nota ancora adesso un eccezionale strumento del lavoro terapeutico degli Antoniani, cioè la stadera per la pesa dei maiali dai quali si estraeva il grasso medicamentoso...

da Cultura-Barocca
 
n.d.r. in data 30 marzo 2024: Gli Antoniani non usarono mai la stadera citata nel precedente articolo. Questo è quanto fa giustamente rilevare il signor Ersilio Teifreto, di cui si riproducono qui di seguito per stralci alcune email, che si sono susseguite dall'agosto 2023, in quanto su Cultura-Barocca non è stato ancora possibile verificare opportune correzioni: "Mi chiamo Ersilio Teifreto, Allievo del defunto Maestro Mons. Italo Ruffini che ha dedicato la sua vita all'Abbazia o Precettoria di Sant'Antonio di Ranverso, e decano Storicista dell'Espansione dell'Ordine Antoniano partendo dalla Casa Madre di Saint Antoine L'Abbaye nell'Isere, con i quali sono associato con l'incarico di rappresentarli in Italia, passando da Ranverso che insiste nei comuni limitrofi di Rosta e Buttigliera Alta (TO).
Ci sono delle rettifiche da apportare sull'articolo dopo i recenti ritrovamenti con punzonature da me ritrovate che attestano la data originale della Stadera catalogata al Museo della Bilancia di Campogalliano Modena.
[...] scelga lei come modificare l'origine della nascita della storica Stadera, si sforzi anche lei come me ed altri studiosi adeguandosi all'Ufficialità del Museo della Bilancia seguendo con un suo Format la mia segnalazione di ritrovamento sulla trave che riporta la data di costruzione del fabbricato Stadera 1864 quando i Monaci ed i maiali non c'erano più, invece lei Erroneamente sull'articolo scrive come altri che immaginavano la Stadera fosse stata costruita ai tempi dell'Ospedale e  serviva per pesare i maiali. Pure noi prima del ritrovamento della punzonatura facevamo ragionamenti diversi sulla Stadera. Infatti, se vi sono degli scritti sono disseminati non trovabili negli archivi dell'Ordine del Mauriziano di Torino, abbiamo aggiornato questa notizia come hanno fatto molti altri studiosi che si sono occupati della straordinaria Stadera.
[...] la Storicità e la Cultura del luogo Antoniano di Ranverso, infatti ufficialmente questo tipo di Bilancia a sollevamento per grossi pesi a catena fu ideato a fine 1700: scusi le modifiche sono accettate da tutti
[...]  invio copie e-mail di scambio di ricerche sulla Stadera di Ranverso effettuate con la Curatrice del Museo della Bilancia di Campogalliano Modena, Signora Lia Apparuti [...] ricavare i dati  punzonati sulla Trave della Stadera da me scoperti e riportano scritto l'anno di Costruzione: il Museo l'ha già catalogata con la nuova data scoperta infatti fu costruita dopo la decadenza dell'Ordine dei Monaci Antoniani con bolla Papale del 1776  [..] contatto con la Dottoressa Lia Apparuti [...] il mio Portale si chiama: www.torinovoli.it [...] un Link del Museo della Bilancia https://www.museodellabilancia.it/annuncio.php?ida=527
[...] https://www.torinovoli.it/2019/08/05/mdccclxiv-numero-romano-inciso-in-una-trave-della-stadera-di-santantonio-di-ranverso-da-ersilio-teiferto-e-sbagliato-attribuire-la-sua-costruzione-in-epoche-piu-remote-inoltre-non-era-come-la-bilanc/
Ersilio Teifreto
( ricercatoreteifreto@libero.it )"

venerdì 20 maggio 2016

Koila Upodémata, Krepidoi, Sandalia, Kothornoi: gli antichi Greci e le calzature


Quanto è oggi risaputo sulla manifattura delle scarpe nella Grecia classica, sulla concia di pelli e cuoi destinati a confezionarle e, quindi, sul mestiere di calzolaio, proviene da testimonianze letterarie e da reperti archeologici, in particolare statue e vasi con figure dipinte.

Su un vaso proveniente dall’isola di Rodi, conservato presso l'Ashmolean Museum di Oxford, è effigiato uno sprazzo di vita operosa entro una calzoleria: un artigiano infatti è impegnato a modellare col trincetto un pezzo di cuoio sì da adeguarlo alla conformazione del piede di un giovanissimo cliente ritto sopra il deschetto.

Le pelli venivano conciate con varie sostanze tra cui l’allume, materie grasse quali il grasso di maiale o la morchia d'olio giovevoli per garantirne la morbidezza, estratti tannici derivati da vegetali quali le foglie di more, corteccia di alcune conifere, scorze di melograno, ghiande, radici e bacche di vite selvatica, frutti dell'acacia egiziana e corteccia di quercia.

Gran parte delle pelli erano importate in Grecia dalle regioni bagnate del Mar Nero, dalla Cirenaica e successivamente da Sicilia (Magna Grecia) ed Asia allorquando l’ecumene greco pose le sue basi anche in queste regioni.

E’ facile che in un primo tempo la concia delle pelli venisse finalizzata a livello artigianale dagli stessi calzolai ma, nello sviluppo socio-economico del mondo ellenizzato, si siano affermate concerie di dimensione pseudoindustriale, in cui era sfruttata prioritariamente una manodora di tipo servile: il mestiere del conciatore nell’antichità, attese le sgradevoli emanazioni degli impianti che quasi si fissavano sul corpo degli operatori, godeva infatti di poca stima sociale.

Invero nelle epoche più antiche i Greci, militari compresi, procedevano soprattutto a piedi nudi (benché Omero ci descriva, nel VI canto dell’Iliade una donna che indossa dei sandali), sì che solo in periodi posteriori cominciarono ad usare le calzature, pur continuando a restare scalzi tra le pareti domestiche.

Da poche fonti letterarie si sa poi che i Cretesi usavano stivaletti di cuoio bianco o di camoscio alti fin sopra la caviglia e che i soldati di Orcomeno calzavano stivaletti di cuoio rosso che li distinguevano da quelli di Micene, soliti portare sandali corredati da gambali di cuoio scuro.

In un dialogo letterario tra il calzolaio Cerdone, la procacciatrice di affari Metrò e due clienti, Eroda in qualche modo rende possibile apprendere la molteplicità tipologica e la raffinatezza delle calzature femminili in uso in età ellenistica. Risultano elencate scarpe di Sicione o d'Ambracia gialle o verdi, scarpe senza tacco, pianelle, pantofole, scarpe ioniche, scarpe alte, scarpe da notte, scarpe aperte, scarpe rosse, scarpe argive, calzature da giovinetto e da passeggio.

Secondo l’interpretazione prevalente le prime scarpe greche di grande uso erano chiamate Upodémata ed erano confezionate tramite una suola di cuoio, legno o sparto ancorata al piede da corregge di pelle. Questa foggia generò quindi i Sandalia ed un tipo importante di Sandalia risultavano i Krepidoi scarpe indossate parimenti da uomini (solo i liberi tuttavia avevano diritto di calzare una Krepis con la linguetta intagliata) che da donne e comuni, soprattutto per i viaggi, vista la loro robustezza idonea a sopportare i capricci del tempo, quanto a sostenere tragitti aspri su strade non ancora adeguate dalla tecnologia romana.

I Krepidoi delle donne risultavano comunque di pelle più morbida ed erano molto spesso colorati, per lo più in giallo: oltre aciò gli erano applicate delle suole alte di sughero sia per guadagnare qualche centimetro in statura che per destreggiarsi tra i frequenti pantani di sentieri e vie spesso abbandonati al degrado fuori del centro vitale delle città.

Per Embades si intendevano poi stivaletti parimenti calzati tanto da uomini che da donne e la loro la tomaia era completamente chiusa: questo tipo di scarpe nell’uso di Sicione era di colore bianco mentre in Laconia prevaleva la colorazione in rosso ed oltre a ciò le scarpe quelle femminili risultavano di frequente arricchite da intarsi ed ornamenti fatti da ricami in fili d'oro.

Alle spose si concedeva l’uso delle candide Ninfides mentre erano del tutto meno fini ben altra tipologia di calzatura: ci si riferisce qui a scarpe pesanti impiegate tanto dai soldati quanto da coloro che si dovessero impegnare in viaggi per terreni asperrimi.

A queste solide calzature si dava in genere il nome di Koila Upodémata: esse avevano la suola rinforzata da chiodi e parti di tomaia proteggevano saldamente il tallone e i lati del piede.

Tra le tante calzature della fioritura greco-ellenistica si possono quindi menzionare gli stivaletti detti Endromides (che ricoprivano le caviglie risultando ancorati alla gamba in virtà di corregge di cuoio) ed ancora gli Akatioi, scarpe dalla punta rialzata forse di derivazione ittita.

Vantavano altresì una genesi medio-orientale i Kothornoi provvisti di soldida suola di cuoio e con una tomaia in pelle morbida alta al polpaccio che era allacciata sul davanti della gamba tramite corregge rosse: la loro fama deriva soprattutto dal fatto che sono stati eternati dal primo dei grandi autori tragici greci Eschilo che li fece indossare dai suoi attori inaugurando una plurisecolare tradizione nelle rappresentazioni del teatro.

In effetti i Kothornoi teatrali costituirono un’enfatizzazione voluta della scarpa normale di tale nome: la sublimazione dell’enorme suola, ispessita da strati di sughero e l'altezza valeva a sottolineare la funzione, più o meno carismatica dei vari personaggi: era una sorta di elementare meccanismo scenico per far sì che già nell’immediatezza della percezione visiva, per esempio dei ed eroi , destinati in genere ad egemonizzare le vicende, apparissero più alti dei comuni mortali (lo stesso non avveniva nel contesto delle rappresentazioni comiche i cui attori calzavano le Embades).

Lo storico filospartano Senofonte ci permette poi di apprendere che con lo scorrere del tempo i calzolai univano suole e tomaie con tendini animali seguendo una procedura sempre più uniformata nell'assemblaggio delle calzature: per esempio gli stivali per i cavalieri erano invariabilmente adattati per l’applicazione degli sproni.
Nelle case solitamente non si portavano scarpe; ci si recava sì all’abitazione di un amico, magari per un banchetto, portando scarpe, pure molto robuste, per non giungere imbrattati dall’ospite ma, una volta entrati in casa, già nell’androne della stessa, le calzature venivano dimesse e mediamente uno schiavo od un servo (trattandosi di ambiente sociale elevato) si prendeva cura dell’invitato accorrendo con un catino e tutto l’occorrente per un rapido pediluvio onde liberare il sopraggiunto delle eventuali sporcizie raccolte involontariamente nella passeggiata per strada, permettendogli di conseguenza di recarsi nella sala dei ricevimenti libero dall’impaccio di qualsiasi calzatura.

da Cultura-Barocca

venerdì 13 maggio 2016

Ludus quem Itali appellant il Calcio

 
Come dice la didascalia (Ludus quem Itali appellant il Calcio = "gioco che gli Italici chiamano il Calcio") della stampa di Pietro Bertelli (o del figlio Francesco) - realizzata a Padova a corredo dell'opera dell'accademico Giovanni Bardi,  Discorso sopra il giuoco del calcio fiorentino del sig. Giouanni de Bardi de' conti di Vernio ... da lui gia scritto al Serenissimo gran duca Francesco. Ed ora nuouamen, In Firenze: Insegna della Stella, 1673 -, il CALCIO ITALIANO del XVI secolo si praticava su campo lungo 100 metri e largo 50: ogni squadra disponeva di ventisette giocatori distinti in quindici avanti, in cinque conciatori (posti circa 15 metri dietro gli attaccanti), in quattro datori innanzi (dieci metri indietro a questi ultimi) e finalmente tre datori addietro.
Il punto, detto gaccia (equivalente alla moderna segnatura di un goal), si aveva ogni volta che il pallone era proiettato, con un calcio od un pugno, nel campo avversario segnato da pali.
Si trattava di un gioco ambito tra gli esponenti della società aristocratica, tanto che vi si distinsero in gioventù quei patrizi che divennero pontefici romani col nome di Clemente VII, Leone X ed ancora Urbano VII.
Diverso era il gioco del calcio, Giuoco del calzo che si fa nel Brisaglio a S.to Alvise la Quaresima al quale non giocano se non li gentil' uomini, praticato a Venezia, di cui qui una celebre raffigurazione di Giacomo Franco (nato a Venezia nel 1550 ed ivi morto nel 1620).  In effetti, un'acquaforte (mm 250x170), tratta dalla raccolta "Habiti d'huomeni et donne veneziane…Trionfi Feste Cerimonie pubbliche della nobilissima città di Venetia", che si proponeva di illustrare in ogni aspetto la vita cittadina, inclusi i giochi che dividevano la cittadinanza in due squadre. La raccolta venne pubblicata dopo il 1591...
In ogni caso il GIOCO DEL CALCIO era così celebre a Firenze da godere ancora di una RIEVOCAZIONE STORICA in epoca moderna, ricorrente il 4 del mese di maggio. 
Ma verso il '700 prese a decadere per esser trasferito in Francia, quasi certamente ad opera di mercanti fiorentini. In particolare pare che le prime partite si siano giocate a Lione.
Tuttavia nel territorio transalpino varie regioni si contendono la palma di aver dato i natali al GIOCO DEL CALCIO: un posto di riguardo spetta alla Normandia ove sin da tempi remoti era praticato il GIOCO DELLA CHOULE che si svolgeva utilizzando una palla od un pallone di cuoio, talora riempito di paglia o in altri casi gonfiato d'aria. Era compito dei giocatori quello di indirizzare il PALLONE, con i pugni o con i piedi, verso la parte del campo presidiata dalla squadra avversaria sin a colpirne la parte terminale costituita da un muro o dalla porta di una chiesa.
La CHOULE veniva praticata tra formazioni che rappresentavano spesso le due diverse parrocchie di appartenenza e lo spirito di competizione era così elevato, anche tra i sostenitori, che le autorità furono obbligate a pubblicare delle ordinanze con le quali si proibiva l'esercizio del gioco rendendolo possibile solo nel periodo natalizio ed in quello del primo giorno della Quaresima.
Nella regione di Jumièges il gioco assunse più ampie proporzioni ed i giocatori (CHOULEURS) si rincorrevano per i campi onde impadronirsi del pallone: gli eccessi di violenza e le conseguenti proibizioni fecero però col tempo morire la CHOULE in Normandia come in tutta la Francia.
Il gioco passò quindi in Inghilterra ottenendo grande fortuna; anche se pure qui non mancarono le manifestazioni di brutalità (citate anche da Shakespeare); soprattutto il giorno del giovedì grasso era dedicato alla pratica di questo gioco che, col passare degli anni, assunse toni sempre meno violenti sì che presero ad intervenirvi da spettatrici anche le donne: si giocava dovunque, sulle strade come sulle piazze, senza arbitro e regole.
Finalmente a metà Ottocento sempre in Inghilterra venne fondata la prima associazione di FOOT-BALL e fu tenuto il I congresso in cui si redasse l'originario regolamento del gioco.