"La lavanda, / alta di folte spighe... sovrasta / insultatrice e baldanzosa ai campi " (Bergantini, I, 439).
Così il poeta; ma ciò che è semplice per la lirica lo è meno per la botanica e quanto può sembrare una monade si rivela un artificio di comodo o un'effetto dell'ignoranza sotto la cui illusoria apparenza si celano più entità, diversissime seppure somiglianti.
Così il poeta; ma ciò che è semplice per la lirica lo è meno per la botanica e quanto può sembrare una monade si rivela un artificio di comodo o un'effetto dell'ignoranza sotto la cui illusoria apparenza si celano più entità, diversissime seppure somiglianti.
Sino al XII secolo l'unica specie di lavanda conosciuta in Italia è la Lavandula stoechas probabilmente introdotta dai Focesi nel 600 a.C. Il più antico cenno alla lavanda (non possiamo sapere di quale specie) compare nella Bibbia dove ne è descritto l'uso, in associazione col mirto per profumare gli altari.
Parecchi secoli più tardi il medico latino Pedanio Dioscoride registra in una sua opera alcune considerazioni meno generiche sulla pianta (cfr. P. MATTIOLI, Pedanii Dioscoridis de materia medica libri sex XXVII) e scrive: "Abbiamo ancora in Italia il nostro nardo, il quale chiamiamo spigo, ancor che di più debile virtù").
Nel Medioevo tutte le specie di lavanda sono univocamente denominate Pseudonardus o Spicanardus per distinguerle dal Nardus indica (Nardostachys indica, famiglia delle Laminacee) e dal Nardus celtica (Valeriana celtica, famiglia delle Valerianacee).
Le lavande latifolia e officinalis sono citate specificatamente in un erbario del XII secolo intitolato Hortum sanitatis ed attribuito alla badessa benedettina Santa Ildegarda.
Nel capitolo De Lavandula la latifolia compare sotto il nome di Spica mentre l'officinalis è indicata col lessema Lafander.
Le due specie, che crescono frammiste, sono spesso confuse nel passato, con la conseguenza di grossolani equivoci.
I naturalisti dei secoli XV, XVI, XVII sono però gia consapevoli delle differenze morfologiche esistenti tra le due specie: "lo spigo e quello spigo che si denomina lavanda, son differenti. Questa ha le foglie più morbide e delicate né si distendono i suoi rami frascoluti et il suo fiore è più corto" (cfr. SODERINI, II, 365).
Nel XVIII secolo Linneo definisce la questione sotto il profilo botanico, identificando entrambe le specie come Lavandula spica e distinguendole nelle varietà Alfa (l'officinalis) e Beta (la latifolia).
Nonostante questa illustre precisazione si dovrà attendere l'opera più recente di botanici sistematici per giungere alla denominazione scientifica in precedenza riportata, certo più corretta, esauriente e meno equivoca di quella di Linneo.
La confusione a livello dei fitonimi è anche dovuta al fatto che, quasi ovunque, ai nomi scientifici si preferiscono quelli volgari di spigo e lavanda, con frequenti interferenze dell'uno sull'altro.
Ancora oggi è radicata in Liguria l'usanza di nominare le due più importanti specie di lavanda con nomi arcaici, veicolati in genere a livello di vernacolo.
La latifolia è infatti detta spigu a Genova, sciarmantin a Montalto (IM), busomo ad Alassio (SV) e steccadea a Camporosso (IM); l'officinalis è conosciuta a Savona come spigo di S. Giovanni.
Il lessema lavanda (dal latino lavanda) ha avuto meno fortuna popolare del corrispettivo spica, spicum poi spigo in volgare tramite lenizione settentrionale della C in G.
Parecchi secoli più tardi il medico latino Pedanio Dioscoride registra in una sua opera alcune considerazioni meno generiche sulla pianta (cfr. P. MATTIOLI, Pedanii Dioscoridis de materia medica libri sex XXVII) e scrive: "Abbiamo ancora in Italia il nostro nardo, il quale chiamiamo spigo, ancor che di più debile virtù").
Nel Medioevo tutte le specie di lavanda sono univocamente denominate Pseudonardus o Spicanardus per distinguerle dal Nardus indica (Nardostachys indica, famiglia delle Laminacee) e dal Nardus celtica (Valeriana celtica, famiglia delle Valerianacee).
Le lavande latifolia e officinalis sono citate specificatamente in un erbario del XII secolo intitolato Hortum sanitatis ed attribuito alla badessa benedettina Santa Ildegarda.
Nel capitolo De Lavandula la latifolia compare sotto il nome di Spica mentre l'officinalis è indicata col lessema Lafander.
Le due specie, che crescono frammiste, sono spesso confuse nel passato, con la conseguenza di grossolani equivoci.
I naturalisti dei secoli XV, XVI, XVII sono però gia consapevoli delle differenze morfologiche esistenti tra le due specie: "lo spigo e quello spigo che si denomina lavanda, son differenti. Questa ha le foglie più morbide e delicate né si distendono i suoi rami frascoluti et il suo fiore è più corto" (cfr. SODERINI, II, 365).
Nel XVIII secolo Linneo definisce la questione sotto il profilo botanico, identificando entrambe le specie come Lavandula spica e distinguendole nelle varietà Alfa (l'officinalis) e Beta (la latifolia).
Nonostante questa illustre precisazione si dovrà attendere l'opera più recente di botanici sistematici per giungere alla denominazione scientifica in precedenza riportata, certo più corretta, esauriente e meno equivoca di quella di Linneo.
La confusione a livello dei fitonimi è anche dovuta al fatto che, quasi ovunque, ai nomi scientifici si preferiscono quelli volgari di spigo e lavanda, con frequenti interferenze dell'uno sull'altro.
Ancora oggi è radicata in Liguria l'usanza di nominare le due più importanti specie di lavanda con nomi arcaici, veicolati in genere a livello di vernacolo.
La latifolia è infatti detta spigu a Genova, sciarmantin a Montalto (IM), busomo ad Alassio (SV) e steccadea a Camporosso (IM); l'officinalis è conosciuta a Savona come spigo di S. Giovanni.
Il lessema lavanda (dal latino lavanda) ha avuto meno fortuna popolare del corrispettivo spica, spicum poi spigo in volgare tramite lenizione settentrionale della C in G.
Eppure la lavanda è nome sicuramente più pertinente con le proprietà e l'uso fatto di tale pianta dall'antichità ad oggi. Questo nome viene attribuito a tale pianta forse per il fatto che "gli antichi la usavano nei loro bagni, o perchè le lavandaie ne mettono ne pannilini imbiancati per farli odorosi "(cfr. TRAMATER s.v.).
Ma il discorso etimologico è estremamente complesso. Rifacendoci sempre a Plinio il Vecchio ed a quanto se ne usò in merito alla complessa evoluzione dell'etimologia del temine Lavanda possiamo registrare in base a ciò che scrisse sul nardo verosimilmente oggetto di una imprevista ed imprevedibile confusione con la pianta che avrebbe assunto la denominazione di Lavanda quanto egli scrisse nel libro da noi usato ma in questo caso al Libro XXI, 135 (pag 231 e sgg.) ove si legge "E siccome certuni, come abbiamo detto, hanno chiamato nardo dei campi la radice del baccaro inseriremo qui anche i medicamenti ricavati dal nardo di Gallia, che nella trattazione degli alberi esotici avevamo rinviato a questo punto. Dunque, contro il morso dei serpenti esso è efficace nella dose di due dracme messe in vino; in acqua, o in vino, giova nei casi di confiore addominale; per il gonfiore del fegato e dei reni, nei casi di travaso di bile e di idropisia, fa bene da solo oppure unito ad assenzio. Fa cessare le mestruazioni troppo violente ed abbondanti. (80) La radice della pianta che nella medesima trattazione abbiamo chiamata phu si somministra, tritata o bollita, in pozione, nei casi di crampi uterini o di dolori al petto o causati dalla pleura. Provoca il flusso mestruale. La si prende insieme con vino".Date queste qualità anche il magismo (XV, XVI, XVII sec.) si impossessa di tale pianta, forse recuperando dai recessi del FOLKLORE e di DIMENTICATE RELIGIOSITA' antichi usi di MATRICE SCIAMANICA.
Come noto il magismo, fuori delle fantasticherie d'uso, è nel passato un modo di vita, una risposta irrazionale ai più negativi stimoli esistenziali. Le streghe sono spesso povere sventurate che apprendono, talora per esigenze personali di sopravvivenza, le proprietà di alcune piante che vendono sotto forma di olii, essenze, decotti, filtri e bevande.
Spesso per insegnamento della MEDICINA POPOLARE si compongono autentiche sozzure ma in alcuni casi si organizzano prodotti terapeutici efficaci: spicca la mistura di rose rosse, violette, melitosio, papavero bianco (2 g), giusquiamo bianco (2 g), finocchio bianco o pseucedano, che viene messa su un telo con cui si benda la fronte di chi e colpito da disturbi nervosi.
Secondo la moderna erboristeria i risultati sono buoni contro le affezioni neurovegetative e la mistura garantisce comunque un sonno tranquillo.
Le "medichesse popolari" sfruttano spesso, per il conforto di se stesse e dei miserabili, piante attive in diversa misura sull'organismo quali il ginepro, il papavero, lo spigo e il cartamo (scient.: Chartamus tinctorius, cfr. P. MATTIOLI, cit., I, 690: "Solve il cartamo la flemma disotto e parimenti per vomito e similmente l'acquosità del corpo".
Quando però elaborano e combinano piante dalle proprietà stimolanti, quali salvia, santoreggia e spigo, con altre dalle qualità soporifere come il papavero (specie il P. somniferum, varietà setigerum, famiglia delle Papaveracee, che cresce spontaneo in Italia), queste EMPIRICHE, ignorando spesso gli opportuni dosaggi, finiscono per combinare pericolosi decotti.
Questi hanno talora le caratteristiche di droghe leggere, capaci di causare ai loro fruitori lievi effetti allucinogeni, caratterizzati da sogni piacevoli o spaventosi con una sensazione di torpore al risveglio.
Ma il discorso etimologico è estremamente complesso. Rifacendoci sempre a Plinio il Vecchio ed a quanto se ne usò in merito alla complessa evoluzione dell'etimologia del temine Lavanda possiamo registrare in base a ciò che scrisse sul nardo verosimilmente oggetto di una imprevista ed imprevedibile confusione con la pianta che avrebbe assunto la denominazione di Lavanda quanto egli scrisse nel libro da noi usato ma in questo caso al Libro XXI, 135 (pag 231 e sgg.) ove si legge "E siccome certuni, come abbiamo detto, hanno chiamato nardo dei campi la radice del baccaro inseriremo qui anche i medicamenti ricavati dal nardo di Gallia, che nella trattazione degli alberi esotici avevamo rinviato a questo punto. Dunque, contro il morso dei serpenti esso è efficace nella dose di due dracme messe in vino; in acqua, o in vino, giova nei casi di confiore addominale; per il gonfiore del fegato e dei reni, nei casi di travaso di bile e di idropisia, fa bene da solo oppure unito ad assenzio. Fa cessare le mestruazioni troppo violente ed abbondanti. (80) La radice della pianta che nella medesima trattazione abbiamo chiamata phu si somministra, tritata o bollita, in pozione, nei casi di crampi uterini o di dolori al petto o causati dalla pleura. Provoca il flusso mestruale. La si prende insieme con vino".Date queste qualità anche il magismo (XV, XVI, XVII sec.) si impossessa di tale pianta, forse recuperando dai recessi del FOLKLORE e di DIMENTICATE RELIGIOSITA' antichi usi di MATRICE SCIAMANICA.
Come noto il magismo, fuori delle fantasticherie d'uso, è nel passato un modo di vita, una risposta irrazionale ai più negativi stimoli esistenziali. Le streghe sono spesso povere sventurate che apprendono, talora per esigenze personali di sopravvivenza, le proprietà di alcune piante che vendono sotto forma di olii, essenze, decotti, filtri e bevande.
Spesso per insegnamento della MEDICINA POPOLARE si compongono autentiche sozzure ma in alcuni casi si organizzano prodotti terapeutici efficaci: spicca la mistura di rose rosse, violette, melitosio, papavero bianco (2 g), giusquiamo bianco (2 g), finocchio bianco o pseucedano, che viene messa su un telo con cui si benda la fronte di chi e colpito da disturbi nervosi.
Secondo la moderna erboristeria i risultati sono buoni contro le affezioni neurovegetative e la mistura garantisce comunque un sonno tranquillo.
Le "medichesse popolari" sfruttano spesso, per il conforto di se stesse e dei miserabili, piante attive in diversa misura sull'organismo quali il ginepro, il papavero, lo spigo e il cartamo (scient.: Chartamus tinctorius, cfr. P. MATTIOLI, cit., I, 690: "Solve il cartamo la flemma disotto e parimenti per vomito e similmente l'acquosità del corpo".
Quando però elaborano e combinano piante dalle proprietà stimolanti, quali salvia, santoreggia e spigo, con altre dalle qualità soporifere come il papavero (specie il P. somniferum, varietà setigerum, famiglia delle Papaveracee, che cresce spontaneo in Italia), queste EMPIRICHE, ignorando spesso gli opportuni dosaggi, finiscono per combinare pericolosi decotti.
Questi hanno talora le caratteristiche di droghe leggere, capaci di causare ai loro fruitori lievi effetti allucinogeni, caratterizzati da sogni piacevoli o spaventosi con una sensazione di torpore al risveglio.