Busto di Nino Bixio al Gianicolo in Roma - Fonte: Wikipedia |
Nino Bixio ebbe notoriamente un animo irruento, che caratterizzò alcune sue gesta, anche all’epoca della “spedizione dei Mille”: lui stesso sottolineò in alcune circostanze questo suo limite caratteriale e, nella lettera scritta ** (altre missive di Bixio marinaio a questo link) alla moglie da Melbourne il 15/IV/1856 (n. LXXVIII dell'Epistolario curato dalla Morelli *), non casualmente fece cenno alla “collera che mi prende spesso, e sempre più vivamente”. L’impulsività, che di per sé giammai è atteggiamento emozionale positivo, non di rado può interagire, alternativamente, con stati di momentanea esaltazione che seguono o precedono attimi, a loro volta più o meno durevoli, di sfiducia se non, in situazioni drammatiche o patologiche, di depressione. Molte giustificazioni sottostavano però alla possibile esasperazione caratteriale di Bixio, in particolare la consapevolezza di aver impegnato quasi tutte le sue risorse economiche nell’allestimento della “Società di navigazione” con la conseguenza d’aver lasciata l’amatissima moglie Adelaide, che non godeva di salute eccellente e comunque ancora allattava la piccola Giuseppina, in ristrettezze economiche. Dalla consapevolezza di ciò e da una palese incertezza che le scelte fatte potessero fruttificare, e proficuamente, a tempi brevi, come peraltro esigeva la contingente situazione di famiglia (al modo che si legge nelle lettere LXXVIII, LXXIX ed ancora LXXXII e LXXXIII dell’Epistolario, tutte indirizzate alla consorte) la menzionata, costituzionale impulsività di Bixio risentiva in maniera inevitabile, anche per un latente ed assai mal mascherato senso di colpa, di una forte inarcatura emozionale. Così chi oggi legge con superficialità l’Epistolario, che finisce comunque per essere un vero e proprio resoconto di viaggio meritevole di più ampie rivisitazioni, può anche maturare un giudizio di immotivata imprevedibilità a riguardo del capitano genovese attesa la lontananza tra le piuttosto distinte valutazioni da lui espresse, volta per volta, su una direttrice diacronica non ampia per quanto intensa: Bixio appare infatti ottimista sulla “linea di partenza” al porto di Genova, speranzoso nel corso del viaggio verso l’Australia, entusiasta di Melbourne nonostante qualche pensamento sulle reali possibilità commerciali del suo carico (che definisce pure “paccottiglia”), poi sfiduciato per la perigliosa navigazione del ritorno, ed alla fine appena un po’ sollevato da nuovi contatti mercantili e quindi da quanto imbarcato a Manila.
Come visto, non gli mancavano umanissime ragioni per far succedere alla speranza la delusione e viceversa: nel testo si è prima scritto che al suo arrivo in Genova era soddisfatto dell’impresa e che stava già ideando altre gesta avendo intuito le potenzialità del mercato australiano. Ciò non risulta, di fatto, in contraddizione con i citati periodi di scoramento, Bixio era realmente sicuro di aver individuato nuovi orizzonti commerciali e, anche se non era riuscito a mercanteggiare come nelle sue aspettative, aveva verisimilmente maturata la convinzione, certo ulteriormente suffragata dal contatto con l’area di casa e dal crescente ottimismo vista la prospettiva di imminenti ricongiungimenti affettivi, di straordinarie prospettive mercantili “australiane”, seppur a patto di una più agile ed impegnata linea operativa della sua “Società armatoriale”.
In siffatto contesto merita quindi di essere letto, ma con diversa e meditata “filosofia”, quanto scrisse al Rosellini che si era fermato in Melbourne a curare gli affari societari (lettera da Manila del 16/XI/1856, n. LXXXI dell’ Epistolario):”…E qui [a Manila] mi è venuta una lettera della Casa, nostra armatoriale, scritta con stizza; come se a me dovessero il male ti tutte queste porcherie imbarcate alla balorda in Genova senza attenzione, e soltanto perché avuta a respiro…” [da un post scriptum in una lettera alla moglie (LXXXIII dell’Epistolario, datata Manila, 11/XII/1856) di poco posteriore a quella spedita al Rosellini, si evince che la Casa armatrice, per rescritto di certo Colombino, aveva in quell’occasione rimbrottato al Bixio una scarsa efficienza quale mercante del carico assegnatogli e che per sua parte il capitano, a giustificazione del proprio operato, andava sostenendo che quanto gli era stato fatto imbarcare in Genova non era nemmeno semplice paccottiglia ma costituiva un insieme di vere e proprie “porcherie”].
A questo punto vien da chiedersi però come mai il capitano non avesse, già all’imbarco, sottolineata o addirittura messa sotto accusa la povertà mercantile dei prodotti imbarcati alla partenza da Genova.
Qui possono innescarsi tutte le risposte plausibili: che, per esempio, nonostante alcune perplessità iniziali Bixio, già prostrato economicamente, non avesse potuto intervenire sulle scelte dei soci armatori, o che lui stesso avesse creduto che l’Australia e specificatamente Melbourne vivessero ancora in uno stato di maggiori ristrettezze e risultassero bisognose, contro la realtà effettiva, di ogni sorta di rifornimenti e via discorrendo su questa direttrice di riflessioni. Forse è più corretto affermare, sulla scorta di questa ultima postulazione, che il capitano genovese, come tanti se non tutti, avesse pensato, all’inizio dell’impresa, ad una più agevole dinamica mercantile in Australia, anche per le voci e le non rare dicerie su presunte gravissime carenze strutturali sussistenti in quelle contrade e che di poi (lui stesso nelle lettere più volte menzionate paleserà un aperto quanto inaspettato stupore per il reale sviluppo della regione e della capitale in dettaglio) fosse rimasto deluso dall’impossibilità di liberarsi convenientemente del proprio carico, nel contesto di un mercato australiano già abbastanza esigente, e in maniera speciale di prodotti cui, a onor del vero, un italiano non poteva non credere come l’olio d’oliva, i vini, parecchi manufatti edili e marmorei.
Dalle considerazioni che in seguito comunicherà e che anche editerà, come si scrive sopra in questo nostro libro, in collaborazione con un coautore anglosassone, si evince comunque la lezione appresa dal Bixio e forse da lui, inefficacemente, comunicata ai suoi più sordi Consoci: che cioè per imprese commerciali tanto impegnative fosse necessario investigare prioritariamente sul campo (ecco il perché del soggiorno di Rosellini in Melbourne dal 1856 voluto proprio da Bixio), studiare le esigenze reali dei mercati locali, allestire navi più grandi, veloci e capienti del Mameli, in alcun modo soprattutto abbandonarsi all’improvvisazione e cercare sempre e comunque di rispondere alle reali esigenze del mercato locale.
E' in siffatto contesto, grazie cioè alle postulazioni già maturate al 16 aprile 1856 e poi verisimilmente meditate con superiore quiete emozionale, che si intende compiutamente come, prima di abbandonarsi al quadro sostanzialmente edenico e futuristico dell'Australia, nella più tarda epistola del 24 maggio 1856, da Melbourne alla moglie Adelaide, dopo alcune affettuose convenevolezze Nino Bixio abbia inaugurato il colloquio a distanza con la giovane moglie tramite una sarcina narrativa non priva di allusioni critiche avverso la Società armatrice ma poi sveltamente abbandonata, quasi gli sembrasse argomento da non calcare inopportunatamente al segno di coinvolgere la consorte in possibili gravi turbamenti emotivi.
Il futuro condottiero garibaldino appena presa la penna si concesse infatti qualche autogiustificante rudezza avverso gli armatori scrivendo: "Come vanno le cose del viaggio? dirai tu. Ne bene ne male ti posso dire. Il paese è mille volte migliore di quello che si suppone da noi e quando i nostri lo conosceranno vi potranno fare buoni affari; ma per questa prima spedizione i risultati non possono essere brillanti. I nostri sono sempre così: non vogliono conoscere i paesi coi quali intendono lavorare, non bastava mandare merci, bisognava mandare ciò che conviene e quello che conviene non si può sapere che vedendolo coi propri occhi. La prima cosa da fare è recarsi personalmente. Gli stessi generi guerniti diversamente avrebbero dato un diverso risultato: questo fu da me cantato in musica e inutilmente. Abbiamo portato qui tutto vestito alla spagnuola e voleva essere vestito all'inglese, ciò che è ben diverso. Se sarò inteso le disposizioni che ho preso [impegni commerciali assunti direttamente e poi tramite il Rosellini] frutteranno, per l'avvenire. Ma i miei armatori mi approveranno? Vedremo...".
Speranze, proposte, suggerimenti maturati dall'esperienza, forse una qualche umanissima debolezza nell'ambizione di stornare da sè un fardello di possibili responsabilità: come si è scritto l’impresa di questa sua “Società” non venne meno ma parimenti neppure decollò, forse perché Bixio rimase inascoltato o, più probabilmente, perché le reali risorse della Casa non avrebbero potuto sostenere siffatti impegni su rotte marittime tanto complesse.
E' probabile che tutte le susseguenti difficoltà siano dipese da quel carico iniziale, del Mameli, preso a respiro, come più volte scrisse il Bixio, e magari non tanto per avarizia, alla maniera che lui un poco voleva far trapelare: magari molti soci avevano i suoi stessi problemi economici e forse un poco tutti si aspettavano che, come accadde in vari altri casi, dalla buona sistemazione di quelle merci acquisite sulla fiducia (e che invece Bixio dovette anche qualche volta svendere come all’asta) giungessero alla Società le necessarie risorse economiche onde proseguire nell’iniziativa imprenditoriale.
Nella lettera individuata presso il “Museo della Canzone” di Vallecrosia e sopra riportata si può ben leggere che, contro le aspettative personali, molto di quello che era stato portato valicando l’Oceano a Bixio risultò, per diretta esperienza, poco “spendibile” sul mercato australiano contemporaneo, ma ad onor del vero, ed a giustificazione delle primigenie scelte imprenditoriali, non si trattava di paccottiglia, diversi erano prodotti validi, che vale la pena di rivisitare anche studiando un altro documento inedito emerso sempre dallo stesso faldone donde sono derivati sia lo “Statuto della Società di navigazione” che l’inedito autografo del 16 aprile 1856.
Si tratta della Bolla di Carico - qui riprodotta in immagine- datata Genova 20/XI/1855.
Dalla citata "Bolla", controfirmata dai funzionari dell'autorità portuale e dallo stesso Bixio quale capitano della nave imbarcante, si evince una variegata tipologia del carico, sulla cui "spendibilità mercantile" in Australia, il capitano genovese, come anche si legge nella lettera del 16 aprile 1856 darà successivamente giudizi precisi e spesso assai distinti.
Risultano dunque elencati come componenti del "carico" stivato sul Mameli: 44215 mattoni e svariate casse per migliaia di marmette di varia dimensione e forma: il termine marmetta (plurale marmette) deriva da marmo con l'aggiunta del diminuitivo femminile etta e vale ad indicare una piastrella per pavimenti, specialmente quadrata (ma anche non raramente ottagonale come si legge nella menzionata "Bolla"), fabbricata con graniglia o con frammenti di marmo e cemento compresso.
Per quanto ancora si può leggere ed anche intuire scorrendo la citata lettera, tutto questo materiale edile non dovette comportare grandi risultati: anche se Bixio non vi si dilunga, al seguito di siffatta gran quantità di merci destinate alla costruzione stavano parecchi "muratori" (leggendo si intende presto che eran più gente di fatica e manovalanza che specialisti o qualificati in qualche settore, che avevano grandi difficoltà per la non conoscenza della lingua inglese e delle usuali tecniche costruttive: il momentaneo soccorso di preti irlandesi, che parlavano italiano, e l'impiego temporaneo nei lavori per una chiesa cattolica da edificare non impedirono che si trovassero presto disoccupati sì da dover ripiegare, anche fra qualche malumore e reciproco contrasto forse alimentato dalle disilluse speranze, nel duro lavoro delle miniere e delle cave).
Spesso, nella sopra trascritta sua lettera, Bixio parla invece della commerciabilità del "marmo": e tra il suo carico stavano "6 vasi di marmo", "tre lavapiatti in marmo", "Casse quindici contenenti numero 3 Monumenti", "Undici Casse contenenti numero 30 tavole di marmo". Se scrivendo dei "Muratori" Bixio si rivelò pessimista, segnalò invece le buone possibilità di impiego degli "scarpellini", di cui parimenti un certo numero doveva stare tra i passeggeri od emigranti del Mameli.
Dalla "Bolla di Carico" non è nemmeno facile intendere quali potessero quindi risultare le "merci invendibili" da definirsi paccottiglia alla maniera che poi scrisse il capitano genovese: probabilmente tra queste erano da ascrivere, con altre e diverse attrezzature da lavoro, le citate "Dieci gabbie, e d'esse due contenenti venti piedi in ferro fuso". Dalla più volte menzionata lettera inedita di Bixio, come pure da quelle pubblicate nell'Epistolario, non è dato di sapere se per paccottiglia (e poi porcherie), cioè merce quasi incommerciabile, fossero da ascrivere pure la "Cassa una contenente seme di Cipolla o le "casse due contenenti in tutto numero 200 punte".
Il capitano in teoria non avrebbe mai dovuto definire "robaccia" l'"olio di Lucca" in fiaschi, tantomeno le "Casse nove di Bottiglie 50 cadauna Vino di Bordeaux" e neppure le "Ceste Cento di 7 Bottiglie cadauna anisette di Bordeaux" ["anisette" deriva da francese anisette attestato nel 1771, derivato di anis = "anice" stante ad indicare un liquore dolce aromatizzato all'anice].
Fa però sorpresa che, se Bixio alluse nella nostra lettera all'invendibilità del pur pregiato olio di Lucca, nulla addirittura abbia lasciato scritto dei vini di Bordeaux, quasi che, nonostante la rinomanza, non sia riuscito a collocarli e che magari questi prodotti, rimastigli nella stiva per ragioni mai spiegate, siano stati da lui riportati indietro sin a Manila [lettera ad Eugenio Rosellini del 16/XI/1856, numero LXXXI dell'Epistolario] quando con spregio e delusione evidenti scrisse: "Quanto a tutto quello che rimaneva a bordo è molto se posso disfarmene con vendere tutto all'asta pubblica...".
Occorre però dire che nel corso del tormentato ritorno in Europa -solo da Sydney a Manila occorsero 93 giorni di navigazione per trasportarvi il carbone imbarcato e caricare lo zucchero da trasportare a Genova- a Bixio risultò fruttuoso il breve soggiorno a Zamboanga, città di Mindanao, anche da lui nominata Zambonga o Samboanga, ove come scrisse sempre in questa lettera al Rosellini "...vi ho realizzato per circa 300 Colonnati [Colonnato stava ad indicare una moneta creata da Carlo V, recante due colonne con il motto non plus ultra; il Tommaseo nel suo vocabolario, alla voce relativa scrisse:"Colonnato, scudo di Spagna...del valore di poco meno che sei lire italiane"] delle varie porcherie che avevamo a bordo".
Fa sorpresa -si diceva precedentemente- e di sicuro risulta strano ma, nonostante il quantitativo di vini e liquori di Bordeaux caricato sul Mameli, Bixio mantenne per tutta la corrispondenza un sorprendente silenzio, giammai facendo cenno a possibili e nemmeno improbabili svendite quanto a totali loro insuccessi durante approdi più o meno concertati come quelli di Zamboanga o di Manila.
Nell'inedito sopra trascritto egli parlò semmai di altri vini e liquori.
Per esempio in Genova aveva imbarcato, come detta la "Bolla", ben "Barili Cinquanta da litri 50 cadauno Vino Marsalla" (ma il Marsala non risultava vino commerciabile in base ai gusti australiani) ed ancora centinaia di cassette di "Liquori diversi": alle bottiglie confusamente inserite entro questa "miscellanea" di prodotti si riferiva verisimilmente il capitano genovese citando il "Curry"(che però, in base alle norme australiane, non si poteva sbarcare in bottiglie ma solo in barili da 20 galloni), il Cognac ed il Ginepro (che dichiarò di non aver neppure sbarcato per la scoperta invendibilità sulla locale piazza commerciale di Melbourne).
In effetti parlando di vini e liquori Bixio non risulta sempre preciso sì da suscitare qualche difficoltà di interpretazione critica: ad esempio scrisse che i vini di Spagna, ed il Porto al pari del francese Kirsh si commerciavano benissimo, ma per nulla annotò se facessero parte del suo carico, magari custoditi entro quelle tante casse di "Liquori diversi".
E del resto, a riprova di queste sue incongruenze documentarie, è da rilevare come, dopo aver scritto della necessità di riportare via dall'Australia il "Ginepro" (acquavite che si ottiene mediante la distillazione di cereali fermentati in presenza di coccole di ginepro) si sia poi fermato a precisare che esso si sarebbe però venduto assai bene, al pari dell' "Assenzio", se entrambi questi liquori fossero stati conservati in bottiglie di buon aspetto e correttamente provviste di etichette.
Chissà che forse, rovesciati i termini della questione, proprio la gran quantità di liquori e vini siano stati, più o meno sorprendentemente, il "fardello" di carico invenduto che il Mameli dovette "riportarsi a casa"; Bixio certo non ci aiuta con la sua scrittura a volte telegrafica: alla base del mancato successo commerciale, oltre al fatto d'aver privilegiato "gusti spagnoleggianti" e non "anglosassoni", possono anche esservi stati alcuni locali e non conosciuti divieti doganali, certe proibizioni tipologiche in merito ai contenitori stessi, magari una particolare riluttanza dei mercanti di Melbourne più propensi, per varie ma anche comprensibili ragioni, a valersi dei servigi di Case di importazioni rette da connazionali...e forse, in definitiva, riassumendo tutti gli ostacoli pensabili quanto imprevedibili del commerciare in alcolici vale quanto a guisa d' epitaffio, magari senza perdersi in troppe o troppo scomode precisazioni scritte, annotò lo stesso Bixio nella lettera a Pratolongo e Vignolo del 16/IV/1856: "...si è che i liquori [sul mercato australiano] non convengono credo mai, a meno che non si voglia fare il Contrabbando che è facilissimo, ma nello stesso tempo pericoloso assai."
Un segnale in merito potrebbe essere dato dal fatto che alla fine di tutto, nella prospettiva di un vero, costruttivo e soprattutto economicamente fruttuoso rapporto commerciale con l'Australia cui il capitano genovese dimostrò sempre di credere, ai posti eminenti dei prodotti da mercanteggiare in Melbourne per suo, indubbiamente esperimentato parere, erano semmai dai collocare quali merci da importazione: il marmo, i vini di Spagna, tessuti di lino, frutta, l'oppio [oppio, termine noto dal 1347 e derivato dal latino opiu(m) a sua volta proveniente dal greco opion, der. di opios cioè "succo", un lattice estratto per incisione delle capsule di alcune piante delle Papaveracee, spec. del papavero bianco, contenente numerosi alcaloidi con proprietà narcotiche, tra cui la morfina, usato a scopo terapeutico o come droga: con il termine di guerra dell'oppio si indica ciascuno dei due conflitti sostenuti verso la metà dell'Ottocento dalla Gran Bretagna e dalla Francia contro la Cina, per imporle l'apertura al commercio europeo], i velluti, la seta.
Come visto, non gli mancavano umanissime ragioni per far succedere alla speranza la delusione e viceversa: nel testo si è prima scritto che al suo arrivo in Genova era soddisfatto dell’impresa e che stava già ideando altre gesta avendo intuito le potenzialità del mercato australiano. Ciò non risulta, di fatto, in contraddizione con i citati periodi di scoramento, Bixio era realmente sicuro di aver individuato nuovi orizzonti commerciali e, anche se non era riuscito a mercanteggiare come nelle sue aspettative, aveva verisimilmente maturata la convinzione, certo ulteriormente suffragata dal contatto con l’area di casa e dal crescente ottimismo vista la prospettiva di imminenti ricongiungimenti affettivi, di straordinarie prospettive mercantili “australiane”, seppur a patto di una più agile ed impegnata linea operativa della sua “Società armatoriale”.
In siffatto contesto merita quindi di essere letto, ma con diversa e meditata “filosofia”, quanto scrisse al Rosellini che si era fermato in Melbourne a curare gli affari societari (lettera da Manila del 16/XI/1856, n. LXXXI dell’ Epistolario):”…E qui [a Manila] mi è venuta una lettera della Casa, nostra armatoriale, scritta con stizza; come se a me dovessero il male ti tutte queste porcherie imbarcate alla balorda in Genova senza attenzione, e soltanto perché avuta a respiro…” [da un post scriptum in una lettera alla moglie (LXXXIII dell’Epistolario, datata Manila, 11/XII/1856) di poco posteriore a quella spedita al Rosellini, si evince che la Casa armatrice, per rescritto di certo Colombino, aveva in quell’occasione rimbrottato al Bixio una scarsa efficienza quale mercante del carico assegnatogli e che per sua parte il capitano, a giustificazione del proprio operato, andava sostenendo che quanto gli era stato fatto imbarcare in Genova non era nemmeno semplice paccottiglia ma costituiva un insieme di vere e proprie “porcherie”].
A questo punto vien da chiedersi però come mai il capitano non avesse, già all’imbarco, sottolineata o addirittura messa sotto accusa la povertà mercantile dei prodotti imbarcati alla partenza da Genova.
Qui possono innescarsi tutte le risposte plausibili: che, per esempio, nonostante alcune perplessità iniziali Bixio, già prostrato economicamente, non avesse potuto intervenire sulle scelte dei soci armatori, o che lui stesso avesse creduto che l’Australia e specificatamente Melbourne vivessero ancora in uno stato di maggiori ristrettezze e risultassero bisognose, contro la realtà effettiva, di ogni sorta di rifornimenti e via discorrendo su questa direttrice di riflessioni. Forse è più corretto affermare, sulla scorta di questa ultima postulazione, che il capitano genovese, come tanti se non tutti, avesse pensato, all’inizio dell’impresa, ad una più agevole dinamica mercantile in Australia, anche per le voci e le non rare dicerie su presunte gravissime carenze strutturali sussistenti in quelle contrade e che di poi (lui stesso nelle lettere più volte menzionate paleserà un aperto quanto inaspettato stupore per il reale sviluppo della regione e della capitale in dettaglio) fosse rimasto deluso dall’impossibilità di liberarsi convenientemente del proprio carico, nel contesto di un mercato australiano già abbastanza esigente, e in maniera speciale di prodotti cui, a onor del vero, un italiano non poteva non credere come l’olio d’oliva, i vini, parecchi manufatti edili e marmorei.
Dalle considerazioni che in seguito comunicherà e che anche editerà, come si scrive sopra in questo nostro libro, in collaborazione con un coautore anglosassone, si evince comunque la lezione appresa dal Bixio e forse da lui, inefficacemente, comunicata ai suoi più sordi Consoci: che cioè per imprese commerciali tanto impegnative fosse necessario investigare prioritariamente sul campo (ecco il perché del soggiorno di Rosellini in Melbourne dal 1856 voluto proprio da Bixio), studiare le esigenze reali dei mercati locali, allestire navi più grandi, veloci e capienti del Mameli, in alcun modo soprattutto abbandonarsi all’improvvisazione e cercare sempre e comunque di rispondere alle reali esigenze del mercato locale.
E' in siffatto contesto, grazie cioè alle postulazioni già maturate al 16 aprile 1856 e poi verisimilmente meditate con superiore quiete emozionale, che si intende compiutamente come, prima di abbandonarsi al quadro sostanzialmente edenico e futuristico dell'Australia, nella più tarda epistola del 24 maggio 1856, da Melbourne alla moglie Adelaide, dopo alcune affettuose convenevolezze Nino Bixio abbia inaugurato il colloquio a distanza con la giovane moglie tramite una sarcina narrativa non priva di allusioni critiche avverso la Società armatrice ma poi sveltamente abbandonata, quasi gli sembrasse argomento da non calcare inopportunatamente al segno di coinvolgere la consorte in possibili gravi turbamenti emotivi.
Il futuro condottiero garibaldino appena presa la penna si concesse infatti qualche autogiustificante rudezza avverso gli armatori scrivendo: "Come vanno le cose del viaggio? dirai tu. Ne bene ne male ti posso dire. Il paese è mille volte migliore di quello che si suppone da noi e quando i nostri lo conosceranno vi potranno fare buoni affari; ma per questa prima spedizione i risultati non possono essere brillanti. I nostri sono sempre così: non vogliono conoscere i paesi coi quali intendono lavorare, non bastava mandare merci, bisognava mandare ciò che conviene e quello che conviene non si può sapere che vedendolo coi propri occhi. La prima cosa da fare è recarsi personalmente. Gli stessi generi guerniti diversamente avrebbero dato un diverso risultato: questo fu da me cantato in musica e inutilmente. Abbiamo portato qui tutto vestito alla spagnuola e voleva essere vestito all'inglese, ciò che è ben diverso. Se sarò inteso le disposizioni che ho preso [impegni commerciali assunti direttamente e poi tramite il Rosellini] frutteranno, per l'avvenire. Ma i miei armatori mi approveranno? Vedremo...".
Speranze, proposte, suggerimenti maturati dall'esperienza, forse una qualche umanissima debolezza nell'ambizione di stornare da sè un fardello di possibili responsabilità: come si è scritto l’impresa di questa sua “Società” non venne meno ma parimenti neppure decollò, forse perché Bixio rimase inascoltato o, più probabilmente, perché le reali risorse della Casa non avrebbero potuto sostenere siffatti impegni su rotte marittime tanto complesse.
E' probabile che tutte le susseguenti difficoltà siano dipese da quel carico iniziale, del Mameli, preso a respiro, come più volte scrisse il Bixio, e magari non tanto per avarizia, alla maniera che lui un poco voleva far trapelare: magari molti soci avevano i suoi stessi problemi economici e forse un poco tutti si aspettavano che, come accadde in vari altri casi, dalla buona sistemazione di quelle merci acquisite sulla fiducia (e che invece Bixio dovette anche qualche volta svendere come all’asta) giungessero alla Società le necessarie risorse economiche onde proseguire nell’iniziativa imprenditoriale.
Nella lettera individuata presso il “Museo della Canzone” di Vallecrosia e sopra riportata si può ben leggere che, contro le aspettative personali, molto di quello che era stato portato valicando l’Oceano a Bixio risultò, per diretta esperienza, poco “spendibile” sul mercato australiano contemporaneo, ma ad onor del vero, ed a giustificazione delle primigenie scelte imprenditoriali, non si trattava di paccottiglia, diversi erano prodotti validi, che vale la pena di rivisitare anche studiando un altro documento inedito emerso sempre dallo stesso faldone donde sono derivati sia lo “Statuto della Società di navigazione” che l’inedito autografo del 16 aprile 1856.
Si tratta della Bolla di Carico - qui riprodotta in immagine- datata Genova 20/XI/1855.
Dalla citata "Bolla", controfirmata dai funzionari dell'autorità portuale e dallo stesso Bixio quale capitano della nave imbarcante, si evince una variegata tipologia del carico, sulla cui "spendibilità mercantile" in Australia, il capitano genovese, come anche si legge nella lettera del 16 aprile 1856 darà successivamente giudizi precisi e spesso assai distinti.
Risultano dunque elencati come componenti del "carico" stivato sul Mameli: 44215 mattoni e svariate casse per migliaia di marmette di varia dimensione e forma: il termine marmetta (plurale marmette) deriva da marmo con l'aggiunta del diminuitivo femminile etta e vale ad indicare una piastrella per pavimenti, specialmente quadrata (ma anche non raramente ottagonale come si legge nella menzionata "Bolla"), fabbricata con graniglia o con frammenti di marmo e cemento compresso.
Per quanto ancora si può leggere ed anche intuire scorrendo la citata lettera, tutto questo materiale edile non dovette comportare grandi risultati: anche se Bixio non vi si dilunga, al seguito di siffatta gran quantità di merci destinate alla costruzione stavano parecchi "muratori" (leggendo si intende presto che eran più gente di fatica e manovalanza che specialisti o qualificati in qualche settore, che avevano grandi difficoltà per la non conoscenza della lingua inglese e delle usuali tecniche costruttive: il momentaneo soccorso di preti irlandesi, che parlavano italiano, e l'impiego temporaneo nei lavori per una chiesa cattolica da edificare non impedirono che si trovassero presto disoccupati sì da dover ripiegare, anche fra qualche malumore e reciproco contrasto forse alimentato dalle disilluse speranze, nel duro lavoro delle miniere e delle cave).
Spesso, nella sopra trascritta sua lettera, Bixio parla invece della commerciabilità del "marmo": e tra il suo carico stavano "6 vasi di marmo", "tre lavapiatti in marmo", "Casse quindici contenenti numero 3 Monumenti", "Undici Casse contenenti numero 30 tavole di marmo". Se scrivendo dei "Muratori" Bixio si rivelò pessimista, segnalò invece le buone possibilità di impiego degli "scarpellini", di cui parimenti un certo numero doveva stare tra i passeggeri od emigranti del Mameli.
Dalla "Bolla di Carico" non è nemmeno facile intendere quali potessero quindi risultare le "merci invendibili" da definirsi paccottiglia alla maniera che poi scrisse il capitano genovese: probabilmente tra queste erano da ascrivere, con altre e diverse attrezzature da lavoro, le citate "Dieci gabbie, e d'esse due contenenti venti piedi in ferro fuso". Dalla più volte menzionata lettera inedita di Bixio, come pure da quelle pubblicate nell'Epistolario, non è dato di sapere se per paccottiglia (e poi porcherie), cioè merce quasi incommerciabile, fossero da ascrivere pure la "Cassa una contenente seme di Cipolla o le "casse due contenenti in tutto numero 200 punte".
Il capitano in teoria non avrebbe mai dovuto definire "robaccia" l'"olio di Lucca" in fiaschi, tantomeno le "Casse nove di Bottiglie 50 cadauna Vino di Bordeaux" e neppure le "Ceste Cento di 7 Bottiglie cadauna anisette di Bordeaux" ["anisette" deriva da francese anisette attestato nel 1771, derivato di anis = "anice" stante ad indicare un liquore dolce aromatizzato all'anice].
Fa però sorpresa che, se Bixio alluse nella nostra lettera all'invendibilità del pur pregiato olio di Lucca, nulla addirittura abbia lasciato scritto dei vini di Bordeaux, quasi che, nonostante la rinomanza, non sia riuscito a collocarli e che magari questi prodotti, rimastigli nella stiva per ragioni mai spiegate, siano stati da lui riportati indietro sin a Manila [lettera ad Eugenio Rosellini del 16/XI/1856, numero LXXXI dell'Epistolario] quando con spregio e delusione evidenti scrisse: "Quanto a tutto quello che rimaneva a bordo è molto se posso disfarmene con vendere tutto all'asta pubblica...".
Occorre però dire che nel corso del tormentato ritorno in Europa -solo da Sydney a Manila occorsero 93 giorni di navigazione per trasportarvi il carbone imbarcato e caricare lo zucchero da trasportare a Genova- a Bixio risultò fruttuoso il breve soggiorno a Zamboanga, città di Mindanao, anche da lui nominata Zambonga o Samboanga, ove come scrisse sempre in questa lettera al Rosellini "...vi ho realizzato per circa 300 Colonnati [Colonnato stava ad indicare una moneta creata da Carlo V, recante due colonne con il motto non plus ultra; il Tommaseo nel suo vocabolario, alla voce relativa scrisse:"Colonnato, scudo di Spagna...del valore di poco meno che sei lire italiane"] delle varie porcherie che avevamo a bordo".
Fa sorpresa -si diceva precedentemente- e di sicuro risulta strano ma, nonostante il quantitativo di vini e liquori di Bordeaux caricato sul Mameli, Bixio mantenne per tutta la corrispondenza un sorprendente silenzio, giammai facendo cenno a possibili e nemmeno improbabili svendite quanto a totali loro insuccessi durante approdi più o meno concertati come quelli di Zamboanga o di Manila.
Nell'inedito sopra trascritto egli parlò semmai di altri vini e liquori.
Per esempio in Genova aveva imbarcato, come detta la "Bolla", ben "Barili Cinquanta da litri 50 cadauno Vino Marsalla" (ma il Marsala non risultava vino commerciabile in base ai gusti australiani) ed ancora centinaia di cassette di "Liquori diversi": alle bottiglie confusamente inserite entro questa "miscellanea" di prodotti si riferiva verisimilmente il capitano genovese citando il "Curry"(che però, in base alle norme australiane, non si poteva sbarcare in bottiglie ma solo in barili da 20 galloni), il Cognac ed il Ginepro (che dichiarò di non aver neppure sbarcato per la scoperta invendibilità sulla locale piazza commerciale di Melbourne).
In effetti parlando di vini e liquori Bixio non risulta sempre preciso sì da suscitare qualche difficoltà di interpretazione critica: ad esempio scrisse che i vini di Spagna, ed il Porto al pari del francese Kirsh si commerciavano benissimo, ma per nulla annotò se facessero parte del suo carico, magari custoditi entro quelle tante casse di "Liquori diversi".
E del resto, a riprova di queste sue incongruenze documentarie, è da rilevare come, dopo aver scritto della necessità di riportare via dall'Australia il "Ginepro" (acquavite che si ottiene mediante la distillazione di cereali fermentati in presenza di coccole di ginepro) si sia poi fermato a precisare che esso si sarebbe però venduto assai bene, al pari dell' "Assenzio", se entrambi questi liquori fossero stati conservati in bottiglie di buon aspetto e correttamente provviste di etichette.
Chissà che forse, rovesciati i termini della questione, proprio la gran quantità di liquori e vini siano stati, più o meno sorprendentemente, il "fardello" di carico invenduto che il Mameli dovette "riportarsi a casa"; Bixio certo non ci aiuta con la sua scrittura a volte telegrafica: alla base del mancato successo commerciale, oltre al fatto d'aver privilegiato "gusti spagnoleggianti" e non "anglosassoni", possono anche esservi stati alcuni locali e non conosciuti divieti doganali, certe proibizioni tipologiche in merito ai contenitori stessi, magari una particolare riluttanza dei mercanti di Melbourne più propensi, per varie ma anche comprensibili ragioni, a valersi dei servigi di Case di importazioni rette da connazionali...e forse, in definitiva, riassumendo tutti gli ostacoli pensabili quanto imprevedibili del commerciare in alcolici vale quanto a guisa d' epitaffio, magari senza perdersi in troppe o troppo scomode precisazioni scritte, annotò lo stesso Bixio nella lettera a Pratolongo e Vignolo del 16/IV/1856: "...si è che i liquori [sul mercato australiano] non convengono credo mai, a meno che non si voglia fare il Contrabbando che è facilissimo, ma nello stesso tempo pericoloso assai."
Un segnale in merito potrebbe essere dato dal fatto che alla fine di tutto, nella prospettiva di un vero, costruttivo e soprattutto economicamente fruttuoso rapporto commerciale con l'Australia cui il capitano genovese dimostrò sempre di credere, ai posti eminenti dei prodotti da mercanteggiare in Melbourne per suo, indubbiamente esperimentato parere, erano semmai dai collocare quali merci da importazione: il marmo, i vini di Spagna, tessuti di lino, frutta, l'oppio [oppio, termine noto dal 1347 e derivato dal latino opiu(m) a sua volta proveniente dal greco opion, der. di opios cioè "succo", un lattice estratto per incisione delle capsule di alcune piante delle Papaveracee, spec. del papavero bianco, contenente numerosi alcaloidi con proprietà narcotiche, tra cui la morfina, usato a scopo terapeutico o come droga: con il termine di guerra dell'oppio si indica ciascuno dei due conflitti sostenuti verso la metà dell'Ottocento dalla Gran Bretagna e dalla Francia contro la Cina, per imporle l'apertura al commercio europeo], i velluti, la seta.
*L’archivista e studiosa del risorgimento Emilia Morelli, fra le tante opere che scrisse nella sua lunga ed operosa vita (1913-1995), annovera la raccolta delle lettere di Nino Bixio. La grande fatica da lei dispiegata, anche per i molteplici interessi del personaggio ed i suoi tanti corrispondenti, non ha impedito la dispersione e l’introvabilità di inediti:
Epistolario di Nino Bixio / a cura di Emilia Morelli. Vol. 1., 1847-1860, Roma/Trento - 1939
Epistolario di Nino Bixio / a cura di Emilia Morelli. Vol. 2., 1861-1865. Vol. 3., 1865 1870, Roma/Bologna - 1942
Epistolario di Nino Bixio / a cura di Emilia Morelli. Vol. 4., 1871-1873, Roma/Torino - 1954
**L’inedito qui proposto, datato Melbourne 16 Aprile 1856, dovrebbe collocarsi nel I volume della Morelli (lettere di Bixio tra il 1847 ed il 1860) dopo la lettera che sempre da Melbourne Nino Bixio indirizzò a Genova alla moglie Adelaide il 15 aprile 1856 (pp.140-143, classificata come "Lettera LXXVIII") cui invece nell’opera di Emilia Morelli segue la celebre epistola (Melbourne, 24 maggio 1856 classificata "Lettera LXXIX", pp.143-146) in cui Bixio, sempre scrivendo alla consorte, riproduce alcune sarcine della lettera da noi sopra editata, depennando le considerazioni commerciali ed inserendo nuove descrizioni del panorama australiano, sia demico che geografico.
L’inedito proposto si può quindi definire, di fatto, la prima descrizione fatta da Bixio dell’Australia: la lettera precedente, del 15 aprile, è infatti soprattutto uno scritto di rassicurazioni per la moglie, un attestato dell’amore del capitano per Adelaide e la figlioletta Giuseppina ancora in fasce, un inno al coraggio delle donne tutte e specialmente delle donne dei marinari, liguri e non, destinate ad attese interminabili di notizie sempre tardive nell’arrivare: l’appassionata lettera del 15 aprile 1856, sostanzialmente uno scritto d’amore per quanto marcato di una certa retorica ottocentesca, pare piuttosto un sincero attestato verso la moglie che vive in precarie condizioni economiche, atteso anche che Bixio nell’impresa della "Società di navigazione" ha profuso ogni risorsa economica della famiglia, sì che quasi, in alcuni punti, sembra patire e volersi scusare di quell’avventura durissima (si ricava l’impressione che scriva in fretta e stanco, senza quasi nemmeno aver messo ancora piede sul nuovissimo continente) in cui ha coinvolto con sé persone di lui assai meno forti.
L’inedito proposto si può quindi definire, di fatto, la prima descrizione fatta da Bixio dell’Australia: la lettera precedente, del 15 aprile, è infatti soprattutto uno scritto di rassicurazioni per la moglie, un attestato dell’amore del capitano per Adelaide e la figlioletta Giuseppina ancora in fasce, un inno al coraggio delle donne tutte e specialmente delle donne dei marinari, liguri e non, destinate ad attese interminabili di notizie sempre tardive nell’arrivare: l’appassionata lettera del 15 aprile 1856, sostanzialmente uno scritto d’amore per quanto marcato di una certa retorica ottocentesca, pare piuttosto un sincero attestato verso la moglie che vive in precarie condizioni economiche, atteso anche che Bixio nell’impresa della "Società di navigazione" ha profuso ogni risorsa economica della famiglia, sì che quasi, in alcuni punti, sembra patire e volersi scusare di quell’avventura durissima (si ricava l’impressione che scriva in fretta e stanco, senza quasi nemmeno aver messo ancora piede sul nuovissimo continente) in cui ha coinvolto con sé persone di lui assai meno forti.