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mercoledì 29 marzo 2017

Un giurista-letterato sabaudo del XVIII secolo

A prescindere dalle pubblicazioni giuridiche che lo resero famoso, nel XVIII secolo scrisse anche pubblicazioni di matrice solo letteraria o d'occasione l'illustre giurista-letterato sabaudo Giovanni Francesco Arcasio del quale esistono ancora rarissimi scritti estranei al principale filone giuridico di cui qui, se ne rammentano due digitalizzati da Biblioteca Privata: e specialmente nella II di queste composizioni si evidenziano dati preziosi = come note quasi misconosciute sul funzionamento delle Università (nel caso quella di Torino), osservazioni specifiche sull'importanza attribuita alle dissertazioni delle Lauree ed ancora, nel caso almeno, essendo comunque soliti presenziare al solenne momento studentesco personaggi di una certa rilevanza socio-economica e culturale se non militare, il fatto che alla dissertazione in questione abbia presenziato il nobile e potente Carolus Willelmus dux Brunswich-Wolffenbuttel: la cui fama, oltre per motivi artistico culturali qui menzionati, era dovuta, sin dalla gioventù, dall'aver combattuto al servizio del leggendario generale al servizio dell'Impero Principe Eugenio di Savoia nelle guerre, ancora frequenti, contro l'Impero Turco.
1 - Joh. Francisci Arcasii ... Orationes pro clarissimo equite Thoma Hyacintho Gianatio a Pamparato Regiae Academiae alumno.... ]Pubblicazione 19, [1] p. ; 4o Note generali · Vignetta con stemma e monogramma MB xilogr. sul front. - Impronta · umu- s.me uen- lyan (3) 1768 (R) - - 1 esemplare in TO1203 UTOBB Biblioteca Norberto Bobbio dell'Università degli Studi di Torino - Torino - TO (in merito all'evento accademico rimane una raccolta intitolata Poesie per la laurea nell'una e nell'altra legge del signor cavaliere Tommaso Giacinto Gianazio di Pamparato, l'anno 1768, in Torino, nella stamperia di Giambattista Fontana, in 8° conservata Biblioteca del Museo nazionale del Risorgimento italiano - Torino - TO) )]
2 - Ad Carolum 1. ducem Brunswich-Wolffenbuttel. Johannes Franciscus Arcasius in regio Taurinensi athenaeo juris civilis antecessor August Taurinorum : ex Typographia regia Descrizione fisica [6] c. ; 4° - Note generali · Dopo aver servito sotto il Principe Eugenio di Savoia Carlo I si dedicò principalmente dal 1735 alle cure dello Stato giuntogli per successione dinastica = la breve pubblicazione bilingue fu stampato presumibilmente in occasione del viaggio in Italia del di lui figlio Carlo Guglielmo Ferdinando di Brunswick-Wolfenbüttel, celebre come valente stratega ma parimenti al padre amanate delle arti e della cultura [mentre il padre lasciò presto la carriera militare per la successione al trono (vedi il personaggio qui effigiato in un ritratto): Carlo Guglielmo Ferdinando di Brunswick-Wolfenbüttel si dedicò a qualificare l'ereditato suo dominio e visitò vari luoghi per approfondire le sue competenze su come altrove si gestivano gli studi e le università ma anche per approfondire le proprie competenze su arte e collezionismo = il figlio pur non abbandonando gli impegni di guerra incentivò la politica riformistica e culturale del padre non evitando di comportarsi come molto tempo prima fece Giulio Mazzarino Reggente di Francia nell'investigare o far investigare -nel caso dal "Naudeo"- sulla organizzazione delle Biblioteche (anche di quella dell'Aprosio) volendo potenziare al meglio, come avvenne, la Biblioteca Augusta o Biblioteca Ducale voluta dalle scelte paterne].
In merito alla pubblicazione, inviata dall'Arcasio al di lui padre qual complimentazione per tal figlio, di cui sopra si è detto essa è caratterizzata da una utile traduzione italiana alle carte [5-6] in cui, verso la conclusione, l'Arcasio fa anche cenno alla duplice valenza di Carlo Guglielmo Ferdinando di Brunswick-Wolfenbüttel sospeso tra guerra ed arte cioè tra Marte e Minerva = venendo scritto "Estimator, che tra l'opre di Marte, / e di Minerva gli suoi studi parte " = dal punto di vista biblioteconomico seguono questi altri dati: Impronta · m.na todo o.a, giga (C) 1766 (Q) - esemplari in MI0185 MILNB Biblioteca nazionale Braidense - Milano - MI - [consistenza] due esemplari - TO0240 BCT01 Biblioteca civica centrale - Torino - TO - [consistenza] 2 esemplari - TO1203 UTOBB Biblioteca Norberto Bobbio dell'Università degli Studi di Torino - Torino - TO - [consistenza] 1 esemplare
L'esemplare qui proposto comporta altre 10 pagine che portano invece la dicitura Carolo Willelmo Ferdinando Principi Brunswich-Wolffenbuttel e concenernente la dissertazione alla presenza del celebre personaggio di un allievo dell'Arcasio (che come qui si legge ne fece la commendatio che si potrebbe definire "perorazione") vale a dire il nobile Pietro Antonio Francesetti di Mezzenile = Su questi documenti allegati all'onorifica menzione del patrizio nordico contribuisce a far qualche luce G. Casalis nel suo "Dizionario Geografico - Storico - Statistico - Commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna", Maspero-Marzorati, Torino, 1855, vol 27, p. 508 scrivendo = "Al brevissimo cenno che facemmo (nel vol. II, pa. 345) del Senatore Giovanni Franceso Alessandro Arcasio di Bistagno, aggiungeremo che egli nache in questo luogo il 23 gennaio del 1712. Fu discepolo del Dani, del Galea, del Campiani studiando leggi nell'uniersità di Torino: fu ripetitore nella reale accademia pel corso di tre lustri: venne aggregato al collegio di leggi nel 1741, e sette anni dopo fu a lui affidata la cattedra di diritto civile nella stessa università. Il principe Ferdinando di Brunswick Wolfensbuttel venuto in Piemonte nel 1766, volle vedere con quali funzioni si conferissero in Torino le lauree: andò pertanto all'Università mentre un eletto giovine [appunto il mentovato Prolyta Pietro Antonio Francesetti di Mezzenile = Du Cange et al., Glossarium mediæ et infimae latinitatis, Niort : L. Favre, 1883-1887 = PROLYTA, " Quinquennale juris studium, vel de eo litterae ipsae testimoniales ; a Gr. "prolutai", qua voce significabantur ii, qui quintum annum juris studio operam dederant. Hierat. juris Pontificii pag. 42 : Debent promovendi (ad cathedrales Ecclesias) Prolyta ex uno jurium decorari ]" si presentava all'esame pel dottorato in leggi, e l'Accorsio, a cui toccava in sorte, orò alla sua presenza: l'orazione data subito alle stampe fu dall'autore presentata con bellissima dedicatoria al Principe, e mandata al Duca suo padre con un'ode latina accompagnata dalla traduzione si essa in vverso sciolto italiano. Dopo la restaurazione dell'università l'Arcasio fu il primo e solo professore a cui senza dispensarlo dalla cattedra furono date le prerogative di senatore, il che avvenne nel 1777. Egli insegnò la giurisprudenza per lo spazio di quarantacinque anni, e morì in Bistagno sua patria nel 1791".
Giovanni Francesco Alessandro Arcasio vide la luce a Bistagno (provincia di Alessandria) il 23 gennaio 1712. Studiò giurisprudenza a Torino e fu allievo del Dani, del Galea e del Campiani. Laureatosi il 31 luglio 1733, fu nominato dottor collegiato il 12 genn. 1741 e lettore provvisionale di diritto civile (in sostituzione del conte Corte che assumeva il gran cancellierato) nel gennaio del1748. Il 15 settembre dell'anno successivo ebbe la nomina definitiva di professore di diritto civile nella università di Torino. Nell'aprile 1777 divenne senatore, carica che egli conservò insieme alla cattedra universitaria. Si dedicò allo studio e all'insegnamento del diritto con perspicacia e diligenza, proponendosi soprattutto di formare "perfetti giureconsulti": tra i suoi allievi, numerosissimi, si ricordano qui soltanto il Caissotti iunior, il marchese Pallavicino, il Damiani di Priocca, il conte Franchi, il Vernazza, ecc. Esercitò sulla cultura piemontese del sec. XVIII un notevole influsso: le accademie della "Filopatria" e "Sampaolina" lo considerarono come il maggiore esponente dottrinario della scienza giuridica del tempo ed i suoi scritti influenzarono a lungo gli studi in Piemonte. Profondo conoscitore del diritto romano e del diritto comune, mantenne le sue trattazioni sempre al livello dei principi dogmatici, tralasciando lo studio della legislazione dello Stato sabaudo e della giurisprudenza delle magistrature regie, che riteneva aspetti particolari e parziali dell'unico fenomeno giuridico universale che maggiormente lo interessava: l'ius commune. Questa impostazione metodologica domina l'opera principale (Commentarii iuris civilis nec non praelectiones ad idem ius pertinentes, Augustae Taurinoruni 1782-84, tomi VIII, con l'orazione pronunciata nel 1779 per la morte del gran cancelliere Caissotti) che l'A. pubblicò dopo molte insistenze da parte degli allievi. Quest'opera nacque dalle lezioni universitarie tenute dall'A. che già circolavano manoscritte. E' da ritenere che egli le abbia sottoposte a revisione prima di licenziarne la stampa. L'opera, divisa in cinque parti, De legibus et de iudiciis privatis et publicis; De vario statu et iure personarum; De iuribus in personani; De iuribus in rem; De feudis, non risente, però, della sua origine scolastica, e dispiega, in un elegante latino e con sfoggio di cultura ed erudizione, la vasta materia. Nei Commentarii sono pubblicate, inoltre, sedici Praelectiones che svolgono vari argomenti: la prima, De probitate, costituisce la prolusione universitaria dell'A.; le altre, De religione et magistratibus; De pactis publicis, De legum ferendarum difficultate, De iuribus imperii, ecc. furono tenute privatamente nella scuola L'esposizione dell'A. è pervasa da un profondo senso del giusto che egli considera il principio fondamentale della vita di relazione, ma la sua mente logica è attratta più che da problemi di filosofia giuridica, dalla comprensione e interpretazione dei princìpi giuridici che egli si sforza di penetrare e coordinare in una esposizione di estrema chiarezza. I limiti suoi sono quelli propri dell'ambiente culturale della Torino della seconda metà del Settecento: consapevole del rinnovamento illuministico, ma ancora troppo esitante ed incerto, se non reazionario, di fronte agli avvenimenti storici che ne furono lo sbocco. Ci si spiega così come la metodologia immobilizzante dell'A. resti ferma, in sostanza, sullo scorcio del sec. XVIII, alle impostazioni di press'a poco due secoli addietro. Ci restano, inoltre, dell'A. venti Orationes tenute per licenza o laurea o rettorato di alcuni suoi allievi, pubblicate a Torino dal 1755 al 1785; odi e versi latini pubblicati in occasione di nozze o avvenimenti riguardanti la famiglia regnante; due Orazioni funebri in latino...

da Cultura-Barocca

venerdì 24 marzo 2017

Nino Bixio marinaio

Busto di Nino Bixio al Gianicolo in Roma - Fonte: Wikipedia
Nino Bixio ebbe notoriamente un animo irruento, che caratterizzò alcune sue gesta, anche all’epoca della “spedizione dei Mille”: lui stesso sottolineò in alcune circostanze questo suo limite caratteriale e, nella lettera scritta ** (altre missive di Bixio marinaio a questo link) alla moglie da Melbourne il 15/IV/1856 (n. LXXVIII dell'Epistolario curato dalla Morelli *), non casualmente fece cenno alla “collera che mi prende spesso, e sempre più vivamente”. L’impulsività, che di per sé giammai è atteggiamento emozionale positivo, non di rado può interagire, alternativamente, con stati di momentanea esaltazione che seguono o precedono attimi, a loro volta più o meno durevoli, di sfiducia se non, in situazioni drammatiche o patologiche, di depressione. Molte giustificazioni sottostavano però alla possibile esasperazione caratteriale di Bixio, in particolare la consapevolezza di aver impegnato quasi tutte le sue risorse economiche nell’allestimento della “Società di navigazione” con la conseguenza d’aver lasciata l’amatissima moglie Adelaide, che non godeva di salute eccellente e comunque ancora allattava la piccola Giuseppina, in ristrettezze economiche. Dalla consapevolezza di ciò e da una palese incertezza che le scelte fatte potessero fruttificare, e proficuamente, a tempi brevi, come peraltro esigeva la contingente situazione di famiglia (al modo che si legge nelle lettere LXXVIII, LXXIX ed ancora LXXXII e LXXXIII dell’Epistolario, tutte indirizzate alla consorte) la menzionata, costituzionale impulsività di Bixio risentiva in maniera inevitabile, anche per un latente ed assai mal mascherato senso di colpa, di una forte inarcatura emozionale. Così chi oggi legge con superficialità l’Epistolario, che finisce comunque per essere un vero e proprio resoconto di viaggio meritevole di più ampie rivisitazioni, può anche maturare un giudizio di immotivata imprevedibilità a riguardo del capitano genovese attesa la lontananza tra le piuttosto distinte valutazioni da lui espresse, volta per volta, su una direttrice diacronica non ampia per quanto intensa: Bixio appare infatti ottimista sulla “linea di partenza” al porto di Genova, speranzoso nel corso del viaggio verso l’Australia, entusiasta di Melbourne nonostante qualche pensamento sulle reali possibilità commerciali del suo carico (che definisce pure “paccottiglia”), poi sfiduciato per la perigliosa navigazione del ritorno, ed alla fine appena un po’ sollevato da nuovi contatti mercantili e quindi da quanto imbarcato a Manila.
Come visto, non gli mancavano umanissime ragioni per far succedere alla speranza la delusione e viceversa: nel testo si è prima scritto che al suo arrivo in Genova era soddisfatto dell’impresa e che stava già ideando altre gesta avendo intuito le potenzialità del mercato australiano. Ciò non risulta, di fatto, in contraddizione con i citati periodi di scoramento, Bixio era realmente sicuro di aver individuato nuovi orizzonti commerciali e, anche se non era riuscito a mercanteggiare come nelle sue aspettative, aveva verisimilmente maturata la convinzione, certo ulteriormente suffragata dal contatto con l’area di casa e dal crescente ottimismo vista la prospettiva di imminenti ricongiungimenti affettivi, di straordinarie prospettive mercantili “australiane”, seppur a patto di una più agile ed impegnata linea operativa della sua “Società armatoriale”.
In siffatto contesto merita quindi di essere letto, ma con diversa e meditata “filosofia”, quanto scrisse al Rosellini che si era fermato in Melbourne a curare gli affari societari (lettera da Manila del 16/XI/1856, n. LXXXI dell’ Epistolario):”…E qui [a Manila] mi è venuta una lettera della Casa, nostra armatoriale, scritta con stizza; come se a me dovessero il male ti tutte queste porcherie imbarcate alla balorda in Genova senza attenzione, e soltanto perché avuta a respiro…” [da un post scriptum in una lettera alla moglie (LXXXIII dell’Epistolario, datata Manila, 11/XII/1856) di poco posteriore a quella spedita al Rosellini, si evince che la Casa armatrice, per rescritto di certo Colombino, aveva in quell’occasione rimbrottato al Bixio una scarsa efficienza quale mercante del carico assegnatogli e che per sua parte il capitano, a giustificazione del proprio operato, andava sostenendo che quanto gli era stato fatto imbarcare in Genova non era nemmeno semplice paccottiglia ma costituiva un insieme di vere e proprie “porcherie”].
A questo punto vien da chiedersi però come mai il capitano non avesse, già all’imbarco, sottolineata o addirittura messa sotto accusa la povertà mercantile dei prodotti imbarcati alla partenza da Genova.
Qui possono innescarsi tutte le risposte plausibili: che, per esempio, nonostante alcune perplessità iniziali Bixio, già prostrato economicamente, non avesse potuto intervenire sulle scelte dei soci armatori, o che lui stesso avesse creduto che l’Australia e specificatamente Melbourne vivessero ancora in uno stato di maggiori ristrettezze e risultassero bisognose, contro la realtà effettiva, di ogni sorta di rifornimenti e via discorrendo su questa direttrice di riflessioni. Forse è più corretto affermare, sulla scorta di questa ultima postulazione, che il capitano genovese, come tanti se non tutti, avesse pensato, all’inizio dell’impresa, ad una più agevole dinamica mercantile in Australia, anche per le voci e le non rare dicerie su presunte gravissime carenze strutturali sussistenti in quelle contrade e che di poi (lui stesso nelle lettere più volte menzionate paleserà un aperto quanto inaspettato stupore per il reale sviluppo della regione e della capitale in dettaglio) fosse rimasto deluso dall’impossibilità di liberarsi convenientemente del proprio carico, nel contesto di un mercato australiano già abbastanza esigente, e in maniera speciale di prodotti cui, a onor del vero, un italiano non poteva non credere come l’olio d’oliva, i vini, parecchi manufatti edili e marmorei.
Dalle considerazioni che in seguito comunicherà e che anche editerà, come si scrive sopra in questo nostro libro, in collaborazione con un coautore anglosassone, si evince comunque la lezione appresa dal Bixio e forse da lui, inefficacemente, comunicata ai suoi più sordi Consoci: che cioè per imprese commerciali tanto impegnative fosse necessario investigare prioritariamente sul campo (ecco il perché del soggiorno di Rosellini in Melbourne dal 1856 voluto proprio da Bixio), studiare le esigenze reali dei mercati locali, allestire navi più grandi, veloci e capienti del Mameli, in alcun modo soprattutto abbandonarsi all’improvvisazione e cercare sempre e comunque di rispondere alle reali esigenze del mercato locale.
E' in siffatto contesto, grazie cioè alle postulazioni già maturate al 16 aprile 1856 e poi verisimilmente meditate con superiore quiete emozionale, che si intende compiutamente come, prima di abbandonarsi al quadro sostanzialmente edenico e futuristico dell'Australia, nella più tarda epistola del 24 maggio 1856, da Melbourne alla moglie Adelaide, dopo alcune affettuose convenevolezze Nino Bixio abbia inaugurato il colloquio a distanza con la giovane moglie tramite una sarcina narrativa non priva di allusioni critiche avverso la Società armatrice ma poi sveltamente abbandonata, quasi gli sembrasse argomento da non calcare inopportunatamente al segno di coinvolgere la consorte in possibili gravi turbamenti emotivi.
Il futuro condottiero garibaldino appena presa la penna si concesse infatti qualche autogiustificante rudezza avverso gli armatori scrivendo: "Come vanno le cose del viaggio? dirai tu. Ne bene ne male ti posso dire. Il paese è mille volte migliore di quello che si suppone da noi e quando i nostri lo conosceranno vi potranno fare buoni affari; ma per questa prima spedizione i risultati non possono essere brillanti. I nostri sono sempre così: non vogliono conoscere i paesi coi quali intendono lavorare, non bastava mandare merci, bisognava mandare ciò che conviene e quello che conviene non si può sapere che vedendolo coi propri occhi. La prima cosa da fare è recarsi personalmente. Gli stessi generi guerniti diversamente avrebbero dato un diverso risultato: questo fu da me cantato in musica e inutilmente. Abbiamo portato qui tutto vestito alla spagnuola e voleva essere vestito all'inglese, ciò che è ben diverso. Se sarò inteso le disposizioni che ho preso [impegni commerciali assunti direttamente e poi tramite il Rosellini] frutteranno, per l'avvenire. Ma i miei armatori mi approveranno? Vedremo...".
Speranze, proposte, suggerimenti maturati dall'esperienza, forse una qualche umanissima debolezza nell'ambizione di stornare da sè un fardello di possibili responsabilità: come si è scritto l’impresa di questa sua “Società” non venne meno ma parimenti neppure decollò, forse perché Bixio rimase inascoltato o, più probabilmente, perché le reali risorse della Casa non avrebbero potuto sostenere siffatti impegni su rotte marittime tanto complesse.
E' probabile che tutte le susseguenti difficoltà siano dipese da quel carico iniziale, del Mameli, preso a respiro, come più volte scrisse il Bixio, e magari non tanto per avarizia, alla maniera che lui un poco voleva far trapelare: magari molti soci avevano i suoi stessi problemi economici e forse un poco tutti si aspettavano che, come accadde in vari altri casi, dalla buona sistemazione di quelle merci acquisite sulla fiducia (e che invece Bixio dovette anche qualche volta svendere come all’asta) giungessero alla Società le necessarie risorse economiche onde proseguire nell’iniziativa imprenditoriale.
Nella lettera individuata presso il “Museo della Canzone” di Vallecrosia e sopra riportata si può ben leggere che, contro le aspettative personali, molto di quello che era stato portato valicando l’Oceano a Bixio risultò, per diretta esperienza, poco “spendibile” sul mercato australiano contemporaneo, ma ad onor del vero, ed a giustificazione delle primigenie scelte imprenditoriali, non si trattava di paccottiglia, diversi erano prodotti validi, che vale la pena di rivisitare anche studiando un altro documento inedito emerso sempre dallo stesso faldone donde sono derivati sia lo “Statuto della Società di navigazione” che l’inedito autografo del 16 aprile 1856.

Si tratta della Bolla di Carico - qui riprodotta in immagine- datata Genova 20/XI/1855.
Dalla citata "Bolla", controfirmata dai funzionari dell'autorità portuale e dallo stesso Bixio quale capitano della nave imbarcante, si evince una variegata tipologia del carico, sulla cui "spendibilità mercantile" in Australia, il capitano genovese, come anche si legge nella lettera del 16 aprile 1856 darà successivamente giudizi precisi e spesso assai distinti.
Risultano dunque elencati come componenti del "carico" stivato sul Mameli: 44215 mattoni e svariate casse per migliaia di marmette di varia dimensione e forma: il termine marmetta (plurale marmette) deriva da marmo con l'aggiunta del diminuitivo femminile etta e vale ad indicare una piastrella per pavimenti, specialmente quadrata (ma anche non raramente ottagonale come si legge nella menzionata "Bolla"), fabbricata con graniglia o con frammenti di marmo e cemento compresso.
Per quanto ancora si può leggere ed anche intuire scorrendo la citata lettera, tutto questo materiale edile non dovette comportare grandi risultati: anche se Bixio non vi si dilunga, al seguito di siffatta gran quantità di merci destinate alla costruzione stavano parecchi "muratori" (leggendo si intende presto che eran più gente di fatica e manovalanza che specialisti o qualificati in qualche settore, che avevano grandi difficoltà per la non conoscenza della lingua inglese e delle usuali tecniche costruttive: il momentaneo soccorso di preti irlandesi, che parlavano italiano, e l'impiego temporaneo nei lavori per una chiesa cattolica da edificare non impedirono che si trovassero presto disoccupati sì da dover ripiegare, anche fra qualche malumore e reciproco contrasto forse alimentato dalle disilluse speranze, nel duro lavoro delle miniere e delle cave).
Spesso, nella sopra trascritta sua lettera, Bixio parla invece della commerciabilità del "marmo": e tra il suo carico stavano "6 vasi di marmo", "tre lavapiatti in marmo", "Casse quindici contenenti numero 3 Monumenti", "Undici Casse contenenti numero 30 tavole di marmo". Se scrivendo dei "Muratori" Bixio si rivelò pessimista, segnalò invece le buone possibilità di impiego degli "scarpellini", di cui parimenti un certo numero doveva stare tra i passeggeri od emigranti del Mameli.
Dalla "Bolla di Carico" non è nemmeno facile intendere quali potessero quindi risultare le "merci invendibili" da definirsi paccottiglia alla maniera che poi scrisse il capitano genovese: probabilmente tra queste erano da ascrivere, con altre e diverse attrezzature da lavoro, le citate "Dieci gabbie, e d'esse due contenenti venti piedi in ferro fuso". Dalla più volte menzionata lettera inedita di Bixio, come pure da quelle pubblicate nell'Epistolario, non è dato di sapere se per paccottiglia (e poi porcherie), cioè merce quasi incommerciabile, fossero da ascrivere pure la "Cassa una contenente seme di Cipolla o le "casse due contenenti in tutto numero 200 punte".
Il capitano in teoria non avrebbe mai dovuto definire "robaccia" l'"olio di Lucca" in fiaschi, tantomeno le "Casse nove di Bottiglie 50 cadauna Vino di Bordeaux" e neppure le "Ceste Cento di 7 Bottiglie cadauna anisette di Bordeaux" ["anisette" deriva da francese anisette attestato nel 1771, derivato di anis = "anice" stante ad indicare un liquore dolce aromatizzato all'anice].
Fa però sorpresa che, se Bixio alluse nella nostra lettera all'invendibilità del pur pregiato olio di Lucca, nulla addirittura abbia lasciato scritto dei vini di Bordeaux, quasi che, nonostante la rinomanza, non sia riuscito a collocarli e che magari questi prodotti, rimastigli nella stiva per ragioni mai spiegate, siano stati da lui riportati indietro sin a Manila [lettera ad Eugenio Rosellini del 16/XI/1856, numero LXXXI dell'Epistolario] quando con spregio e delusione evidenti scrisse: "Quanto a tutto quello che rimaneva a bordo è molto se posso disfarmene con vendere tutto all'asta pubblica...".
Occorre però dire che nel corso del tormentato ritorno in Europa -solo da Sydney a Manila occorsero 93 giorni di navigazione per trasportarvi il carbone imbarcato e caricare lo zucchero da trasportare a Genova- a Bixio risultò fruttuoso il breve soggiorno a Zamboanga, città di Mindanao, anche da lui nominata Zambonga o Samboanga, ove come scrisse sempre in questa lettera al Rosellini "...vi ho realizzato per circa 300 Colonnati [Colonnato stava ad indicare una moneta creata da Carlo V, recante due colonne con il motto non plus ultra; il Tommaseo nel suo vocabolario, alla voce relativa scrisse:"Colonnato, scudo di Spagna...del valore di poco meno che sei lire italiane"] delle varie porcherie che avevamo a bordo".
Fa sorpresa -si diceva precedentemente- e di sicuro risulta strano ma, nonostante il quantitativo di vini e liquori di Bordeaux caricato sul Mameli, Bixio mantenne per tutta la corrispondenza un sorprendente silenzio, giammai facendo cenno a possibili e nemmeno improbabili svendite quanto a totali loro insuccessi durante approdi più o meno concertati come quelli di Zamboanga o di Manila.
Nell'inedito sopra trascritto egli parlò semmai di altri vini e liquori.
Per esempio in Genova aveva imbarcato, come detta la "Bolla", ben "Barili Cinquanta da litri 50 cadauno Vino Marsalla" (ma il Marsala non risultava vino commerciabile in base ai gusti australiani) ed ancora centinaia di cassette di "Liquori diversi": alle bottiglie confusamente inserite entro questa "miscellanea" di prodotti si riferiva verisimilmente il capitano genovese citando il "Curry"(che però, in base alle norme australiane, non si poteva sbarcare in bottiglie ma solo in barili da 20 galloni), il Cognac ed il Ginepro (che dichiarò di non aver neppure sbarcato per la scoperta invendibilità sulla locale piazza commerciale di Melbourne).
In effetti parlando di vini e liquori Bixio non risulta sempre preciso sì da suscitare qualche difficoltà di interpretazione critica: ad esempio scrisse che i vini di Spagna, ed il Porto al pari del francese Kirsh si commerciavano benissimo, ma per nulla annotò se facessero parte del suo carico, magari custoditi entro quelle tante casse di "Liquori diversi".
E del resto, a riprova di queste sue incongruenze documentarie, è da rilevare come, dopo aver scritto della necessità di riportare via dall'Australia il "Ginepro" (acquavite che si ottiene mediante la distillazione di cereali fermentati in presenza di coccole di ginepro) si sia poi fermato a precisare che esso si sarebbe però venduto assai bene, al pari dell' "Assenzio", se entrambi questi liquori fossero stati conservati in bottiglie di buon aspetto e correttamente provviste di etichette.
Chissà che forse, rovesciati i termini della questione, proprio la gran quantità di liquori e vini siano stati, più o meno sorprendentemente, il "fardello" di carico invenduto che il Mameli dovette "riportarsi a casa"; Bixio certo non ci aiuta con la sua scrittura a volte telegrafica: alla base del mancato successo commerciale, oltre al fatto d'aver privilegiato "gusti spagnoleggianti" e non "anglosassoni", possono anche esservi stati alcuni locali e non conosciuti divieti doganali, certe proibizioni tipologiche in merito ai contenitori stessi, magari una particolare riluttanza dei mercanti di Melbourne più propensi, per varie ma anche comprensibili ragioni, a valersi dei servigi di Case di importazioni rette da connazionali...e forse, in definitiva, riassumendo tutti gli ostacoli pensabili quanto imprevedibili del commerciare in alcolici vale quanto a guisa d' epitaffio, magari senza perdersi in troppe o troppo scomode precisazioni scritte, annotò lo stesso Bixio nella lettera a Pratolongo e Vignolo del 16/IV/1856: "...si è che i liquori [sul mercato australiano] non convengono credo mai, a meno che non si voglia fare il Contrabbando che è facilissimo, ma nello stesso tempo pericoloso assai."
Un segnale in merito potrebbe essere dato dal fatto che alla fine di tutto, nella prospettiva di un vero, costruttivo e soprattutto economicamente fruttuoso rapporto commerciale con l'Australia cui il capitano genovese dimostrò sempre di credere, ai posti eminenti dei prodotti da mercanteggiare in Melbourne per suo, indubbiamente esperimentato parere, erano semmai dai collocare quali merci da importazione: il marmo, i vini di Spagna, tessuti di lino, frutta, l'oppio [oppio, termine noto dal 1347 e derivato dal latino opiu(m) a sua volta proveniente dal greco opion, der. di opios cioè "succo", un lattice estratto per incisione delle capsule di alcune piante delle Papaveracee, spec. del papavero bianco, contenente numerosi alcaloidi con proprietà narcotiche, tra cui la morfina, usato a scopo terapeutico o come droga: con il termine di guerra dell'oppio si indica ciascuno dei due conflitti sostenuti verso la metà dell'Ottocento dalla Gran Bretagna e dalla Francia contro la Cina, per imporle l'apertura al commercio europeo], i velluti, la seta.

*L’archivista e studiosa del risorgimento Emilia Morelli, fra le tante opere che scrisse nella sua lunga ed operosa vita (1913-1995), annovera la raccolta delle lettere di Nino Bixio. La grande fatica da lei dispiegata, anche per i molteplici interessi del personaggio ed i suoi tanti corrispondenti, non ha impedito la dispersione e l’introvabilità di inediti:
Epistolario di Nino Bixio / a cura di Emilia Morelli. Vol. 1., 1847-1860, Roma/Trento - 1939
Epistolario di Nino Bixio / a cura di Emilia Morelli. Vol. 2., 1861-1865. Vol. 3., 1865 1870, Roma/Bologna - 1942
Epistolario di Nino Bixio / a cura di Emilia Morelli. Vol. 4., 1871-1873, Roma/Torino - 1954
**L’inedito qui proposto, datato Melbourne 16 Aprile 1856, dovrebbe collocarsi nel I volume della Morelli (lettere di Bixio tra il 1847 ed il 1860) dopo la lettera che sempre da Melbourne Nino Bixio indirizzò a Genova alla moglie Adelaide il 15 aprile 1856 (pp.140-143, classificata come "Lettera LXXVIII") cui invece nell’opera di Emilia Morelli segue la celebre epistola (Melbourne, 24 maggio 1856 classificata "Lettera LXXIX", pp.143-146) in cui Bixio, sempre scrivendo alla consorte, riproduce alcune sarcine della lettera da noi sopra editata, depennando le considerazioni commerciali ed inserendo nuove descrizioni del panorama australiano, sia demico che geografico.
L’inedito proposto si può quindi definire, di fatto, la prima descrizione fatta da Bixio dell’Australia: la lettera precedente, del 15 aprile, è infatti soprattutto uno scritto di rassicurazioni per la moglie, un attestato dell’amore del capitano per Adelaide e la figlioletta Giuseppina ancora in fasce, un inno al coraggio delle donne tutte e specialmente delle donne dei marinari, liguri e non, destinate ad attese interminabili di notizie sempre tardive nell’arrivare: l’appassionata lettera del 15 aprile 1856, sostanzialmente uno scritto d’amore per quanto marcato di una certa retorica ottocentesca, pare piuttosto un sincero attestato verso la moglie che vive in precarie condizioni economiche, atteso anche che Bixio nell’impresa della "Società di navigazione" ha profuso ogni risorsa economica della famiglia, sì che quasi, in alcuni punti, sembra patire e volersi scusare di quell’avventura durissima (si ricava l’impressione che scriva in fretta e stanco, senza quasi nemmeno aver messo ancora piede sul nuovissimo continente) in cui ha coinvolto con sé persone di lui assai meno forti.

sabato 18 marzo 2017

L'autore del "Pronostico Universale di tutto il mondo"

Fonte: Wikipedia
Francesco Barozzi, in latino Franciscus Barocius (Candia, 9 agosto 1537 – Venezia, 23 novembre 1604), è stato un matematico italiano. Proveniva da una famiglia patrizia con importanti possedimenti a Creta, e dopo gli studi all'Università di Padova visse a Venezia, con frequenti viaggi nei suoi possedimenti. 
Non ebbe alcuna posizione accademica, ma si occupò attivamente di studi scientifici e fu in corrispondenza con numerosi matematici contemporanei, tra cui il gesuita Cristoforo Clavio. 
Insieme a Federico Commandino a Urbino, Francesco Barozzi fu capofila negli studi che consentirono la rinascita della geometria sulla base della conoscenza delle opere di Euclide. Tradusse dal greco in latino il Procli Diadochi Lycii in primum Euclidis elementorum librum commentariorum ad universam mathematicam disciplinam principium eruditionis tradentium libri IV, un "Commentario a Euclide" del filosofo neoplatonico Proclo Diadoco (V secolo d.C.), pubblicato a Venezia nel 1560 (l'anno precedente aveva tenuto delle lezioni sull'opera all'Università di Padova). Il libro suscitò vivaci discussioni sulla certezza delle dimostrazioni matematiche, e sul loro rapporto con la logica aristotelica. A Daniele Barbaro dedicò il suo Opusculum: in quo una Oratio et due Questiones, altera de Certitude et altera de Medietate Mathematicarum continentur ("Opuscolo in cui si tratta un Discorso e due Questioni, una sulla Certezza e l'altra sulla Medietà delle Matematiche"). 
Francesco Barozzi tradusse inoltre opere di Erone di Alessandria (I secolo d.C.), di Pappo di Alessandria (IV secolo d.C.) e di Archimede di Siracusa (III secolo a.C.). Si occupò anche di Erone di Bisanzio noto anche come Erone il giovane (per distinguerlo da Erone il vecchio) nome convenzionale attribuito a un matematico e scrittore di cose militari bizantino, vissuto, presumibilmente, nel IX secolo. Molti storici lo chiamano, più correttamente (ma lontani dalla univocità) Anonymus Byzantinus reputato autore di due opere, Parangelmata poliorcetica e Geodasia pubblicate a Bisanzio nel IX secolo (alcune indicazioni astronomiche suggeriscono però l'anno 938). Queste opere sono state tradotte in latino da Francesco Barozzi nel 1572 con i titoli Liber de machinis bellicis e Liber de geodaesia. La "Geodasia" è un'opera sulla geometria e sulla balistica, che fa uso di pratiche sulle mura di Costantinopoli, le cui tecniche sono illustrate con disegni. Il Poliorketikon di Erone è un manuale di poliorcetica o scienza degli assedii che si rifà a quello di Apollodoro di Damasco, che al posto degli schemi bidimensionali statici di quel lavoro presenta una prospettiva tridimensionale con la raffigurazione di figure umane per chiarire meglio i concetti espressi. Vi sono riportati passaggi e tecniche da Ateneo Meccanico, Filone di Bisanzio e Bitone = il manoscritto è stato tradotto in inglese e ora si trova nella Biblioteca Vaticana. In questo manuale ci sono 58 pagine e 38 illustrazioni e citazioni varie concernenti il fuoco greco utilizzato in poliorcetica o arte degli assedii.
Erone include nel suo testo le testuggini, un nuovo stile slavo di testuggine chiamato "laisai" generato dai rami intrecciati e viti, le palizzate, gli arieti, le scale, le reti, le torrette ed i ponticelli. Scrisse inoltre una Cosmographia in quatuor libros distributa summo ordine, miraque facilitate, ac brevitate ad magnam Ptolemaei mathematicam constructionem, ad universamque astrologiam institutens, pubblicata nel 1585, sulla cosmografia e la matematica del sistema tolemaico, ed una Admirandum illud geometricum problema tredecim modis demonstratum quod docet duas lineas in eodem plano designare, quae nunquam invicem coincidant, etiam si in infinitum protrahantur: et quanto longius producuntur, tanto sibiinuicem propiores euadant, del 1586, in cui si descrivono i 13 modi per disegnare due linee parallele.  
La collezione di manoscritti greci accumulata da Francesco Barozzi (ereditata e ingrandita dal nipote Iacopo Barozzi, e portata quindi dopo la sua morte in Inghilterra) fu acquistata nel 1629 dall'Università di Oxford, dove tuttora si trova presso la Bodleian Library. 
Francesco Barozzi ebbe inoltre fama di mago e si occupò di esoterismo, con il "Pronostico Universale di tutto il mondo", una compilazione delle profezie di Nostradamus per gli anni 1565-1570, pubblicato a Bologna nel 1566, che utilizzava traduzioni precedenti. Pubblicò inoltre nel 1577 una speciale edizione degli Oracula Leonis, profezie criptiche attribuite all'imperatore bizantino Leone VI, dedicata al governatore di Creta Giacomo Foscarini ("Codice Bute"). Nel 1572 pubblicò un manuale sulla Rithmomachia, un gioco medioevale legato alle arti del quadrivium, che viene ritenuto antiquissimo givocco pythagoreo. Fu processato dall'Inquisizione una prima volta nel 1583 e una seconda nel 1587: trovato colpevole di aver causato una tempesta a Creta (evidentemente avvalendosi di magia tempestaria), dovette pagare una multa di 100 ducati. A Francesco Barozzi è stato dedicato il cratere lunare Barocius, di 82 km di diametro.

sabato 11 marzo 2017

Sulla lettera da Ventimiglia di Ugo Foscolo

La lettera da Ventimiglia (IM) che Ugo Foscolo attribuì a Jacopo Ortis, infelice protagonista del suo omonimo romanzo, non è fatto solo letterario ma nasce da un’esperienza autobiografica: tante guerre avevano tormentato Ventimiglia dal XVIII secolo e la città aveva patito danni irreparabili, quasi a testimoniare le perplessità nutrite molto tempo prima da uno dei suoi figli più grandi, cioè Angelico Aprosio, la cui “Libraria” giaceva in grave declino.
Ma eran questi i ritmi di una storia che sa essere implacabile…ed ora il protagonista era UGO FOSCOLO o se vogliamo il suo alter ego letterario JACOPO ORTIS!!!

La romanzesca lettera, del 19-20 febbraio 1799 venne in effetti ideata sulla base di due viaggi foscoliani per le contrade liguri.
Uno avvenne nel giugno 1800 (Genova-Pietra Ligure-Nizza Monferrato-Alessandria), mentre quello che gli fece conoscere Ventimiglia si era svolto nel dicembre 1799 (Genova-Ventimiglia-Nizza).

Quest'ultimo fu causato da un grave evento politico, essendo GENOVA provvisoriamente caduta nelle mani delle forze antirivoluzionarie ostili alla Francia: ne derivò una fuga di tutti i filofrancesi e filonapoleonici alla difesa di Genova tra cui, assieme allo sfinito fratello Giovanni Dioniso, anche UGO FOSCOLO, che pure aveva avuto “tempo” di intrecciare una relazione amorosa e poetica con la nobile genovese LUIGIA PALLAVICINI.
Ed a proposito delle “relazioni foscolane” con la LIGURIA giova qui rammentare che su di esse, attraverso il controverso rapporto Vincenzo Monti – Ugo Foscolo, un influsso significativo anche culturale esercitò GIUSEPPE BIAMONTI DI SAN BIAGIO DELLA CIMA (maestro di greco classico di Vincenzo Monti e per tal via entrato tra le conoscenze foscoliane), nei cui riguardi proprio il Foscolo sarebbe diventato debitore di una non banale intuizione protoromantica per il suo celebre carme Dei Sepolcri.
Gli eventi del 1799 influenzarono quindi decisamente la stesura delle “Ultime Lettere di Jacopo Ortis", che essendo romanzo del 1802 ,risultò altresì contaminato dall’esperienza del soggiorno foscoliano del 1800 a Pietra Ligure.
Rispetto ai tempi di Angelico Aprosio, alcune cose non eran comunque mutate: in primis l’assenza di una strada litoranea dignitosa ed in secondo luogo il fatto che il misero percorso che conduceva da Bordighera a Ventimiglia era spesso interrotto da alluvioni e tracimazioni, conseguenza di quelle scarse previdenze epocali nei riguardi di arginature, ripascimento delle spiagge ed igiene pubblica, su cui Aprosio, descrivendo Ventimiglia nel suo repertorio biblioteconomico del 1673, si era già soffermato.
Nella lettera il Foscolo descrive un ambiente invernale: le piogge di fine ’99 e dei primi mesi del nuovo secolo, con fenomeni alluvionali, sono fotografati nel quadro ambientale di Ventimiglia e terre circonvicine. Dall’altura delle Maure egli contemplò le acque in piena del Roia, quindi raggiunse il ponte rinascimentale e da una rotonda all’inizio di questo, che tuttora esiste a fianco sud dell’attuale ponte stradale e pedonale, egli contemplò, come oggi stesso risulta possibile, “i due argini di altissime rupi e burroni cavernosi” che rimandano alle “Gole di Saorgio”.

Ugo Foscolo a Siestro ed alle Maure era giunto per sentieri di altura, perché al suo Ortis fa parlare di un viaggio verso Ventimiglia “fra aspre montagne”: dice anche che su quei monti sono “MOLTE CROCI CHE SEGNANO IL SITO DEI VIANDANTI ASSASSINATI”. Tale preromantica espressione non corrisponde al vero sia perché non era consuetudine epocale di SEPPELLIRE (PROCEDERE ALLE INUMAZIONI) in tal modo sia per il fatto che nessun notaio ha mai registrato nulla di simile neppure in circostanze eccezionali. Per inciso occorre ricordare come il tema protoromantico dei cimiteri, che portò alla - dal Foscolo contestata nel Dei Sepolcri - seppur sulla base di istanze sentimentali, normativa di Saint Cloud era la dilatazione letteraria di un problema reale, connesso ad una crescente necessità sia di igiene pubblica quanto alla lotta contro perduranti forme di pratiche superstiziose alimentate sia da mancata custodia dei cimiteri che dal lugubre formalismo delle inumazioni (terrori indubbiamente acclarati da un evento epocale di presunti ritornanti connessi ad una supposta epidemia di vampirismo) ed ancora all’esigenza di porre un limite, per carenza di rilevazioni diagnostiche, al non raro seppellimento di persone ancora vive, le così dette vittime, per varie casualità e patologie, delle MORTI APPARENTI.
Quelle che vide erano le CROCI disposte verso gli ultimi anni del ‘600 onde dirimere le CONTROVERSIE DI CONFINE tra il Dominio di Genova e Seborga e tra Ventimiglia ed i borghi rurali o marinari di Camporosso, Vallecrosia, Bordighera, San Biagio della Cima, Sasso, Soldano, Vallebona, Borghetto San Nicolò: siffatti cippi a pseudotumulo correvano a fianco delle vie di altura che - data la loro importanza - erano state contestate nel contenzioso.

 
 Inteso che nel dicembre 1799 il Nervia in piena aveva tracimato e che il ponte non esisteva più o più non serviva, il Foscolo, giunto a Bordighera, deve aver intrapreso la direttrice interna di sublitorale per accedere da tal paese alla valle del Crosa e quindi giungere da Dolceacqua alla deviazione dal Convento della Mota.
Per mezzo di questo percorso egli era quasi certamente giunto in Dolceacqua dalla valle del Crosa, seguendo la deviazione già descritta in una pubblica relazione genovese del 1629.
Poi, superato facilmente per il robusto ponte il Nervia, era passato dal Borgonuovo di Dolceacqua al Convento della Muta donde, inerpicandosi per una mulattiera dovette immettersi sulla strada d’altura sin al punto limite del Convento di Sant'Agostino.
Precisamente, prima di giungere all’area di tale complesso ecclesiale, il poeta di Zante dovette iniziare a discendere dall’altura donde aveva contemplata con tanta efficacia protoromantica sia la natura che Ventimiglia.
Finalmente, avvicinandosi per tappe mai agevoli raggiunse “Li prati delli Frati” da dove facilmente potè accedere al Convento di S. Agostino il cui fronte guardava la “strada romana”.
J.T Wilmore, Ventimiglia - Particolare con il ponte seicentesco (articolo di Erino Viola = "Ventimiglia nel Seicento" dalla Rivista Aprosiana 2007)
Da lì gli giunse oltremodo semplice raggiungere il corso del fiume Roia e finalmente il complesso demico principale della città di Ventimiglia donde non dovette certo creargli problemi una prosecuzione del viaggio alla volta del sicuro territorio di Francia.
"Veduta ottocentesca della chiesa di S. Antonio Abate e di via Garibaldi di Clemente Rovere, 1830" (articolo di Erino Viola con la collaborazione di Andrea Folli e Gisella Merello = "La Strada Nuova e gli altri edifici pubblici cittadini" dalla Rivista Aprosiana 2007)

Sull'editto di Saint-Cloud

Sulla linea del clericalismo tradizionalista ma, in direzione artistica, anche della poesia della "corrispondenza d'amorosi sensi" del Foscolo - oltre che della lirica delle macerie e del passato di Giuseppe Luigi Biamonti di San Biagio della Cima (IM) ed ancora di una poesia cimiteriale più legata a temi civili e patriottici come Un'Ora al Cimitero di Giorgio Briano -, vari provvedimenti anticlericali - ma non solo - di Napoleone Bonaparte vennero intesi blasfemi o quantomeno riprovevoli sia dal clero (vedasi qui l'esempio di Padre Vitaliano Maccario da San Biagio della Cima) che dalla popolazione fortemente cattolica. 
Tra questi atti si possono citare il tentativo dell'introduzione dell'Istituto del Divorzio in Italia e la prigionia francese (1805) di Papa Pio VII, il quale - una volta liberato nel contesto della crisi napoleonica - non a caso attraversò la Liguria tra una folla immensa e festante, di cui si parla entro il basilare Manoscritto Borea.  
Il provvedimento più avversato per molteplici ragioni, é quello passato alla storia come Editto di "Saint-Cloud" del 5 settembre 1806, per la revisione dei regolamenti di inumazione dei cadaveri nei cimiteri (la normativa era già stata regolata in Francia con Editto del 12 giugno 1804). 
In effetti la condizione dei cimiteri e delle inumazioni nelle Chiese era un problema di cui la scienza si era già resa conto, come si legge nel qui digitalizzato "Manoscritto Wenzel".
Problemi di igiene, ma anche di illeciti commerci e paurose superstizioni usuali nei vecchi cimiteri, si riscontrano nella "Relazione" del Medico Giuseppe Gautieri, Delegato del Dipartimento dell'Agogna [Il Dipartimento dell'Agogna (che prende il nome dall'omonimo corso d'acqua) fu uno dei dipartimenti della Repubblica Italiana (1802-1805) e del Regno d'Italia Napoleonico. Il dipartimento comprendeva il territorio delle attuali province di Novara, Verbano-Cusio-Ossola e in parte quello delle province di Pavia e Vercelli].
Analizzando il suo studio, pare indubbio che le considerazioni di Gautieri dal lato scientifico risultano inoppugnabili e per nulla condizionate, ma anche oltremodo utili per evitare il secolare terrore delle morti apparenti e delle inumazioni di individui destinati ad uno spaventoso risveglio. Senza dimenticare il caso della dispersione delle ceneri degli arsi sul rogo come eretici e supposte streghe e delle sepolture scomposte, per rei di sacrilegio non esclusi i suicidi inumati in terra non consacrata con "testa volta all'ingiù".

Tutto questo, pur contribuendo potentemente alla pubblica igiene e alla consistente riduzione di sacrilegi e profanazioni, non impedì comunque il sopravvivere di paure antiche, destinate ad influenzare sia la letteratura lugubre e sepolcrale del preromanticismo quanto ancor più - specie sulla linea del terrore per le Morti Apparenti e più estesamente del tema ancestrale della paura della morte e della lotta per la conservazione del corpo - ad alimentare quella potente letteratura fantastica e orrorifica, che caratterizzò l'Ottocento e che fu spesso incentrata su lugubri sepolcrali vicende e i nomi dei cui autori costituiscono di per sé garanzia di grandezza.



sabato 4 marzo 2017

Viaggiatori di due secoli fa


Nel XVII vol. della silloge ["Raccolta di viaggi dalla scoperta nel Nuovo Continente fino a' dì nostri" (Giachetti di Prato, 1844)] di Francesco Costantino Marmocchi si trova la narrazione di un "Viaggio all'Isola di Francia (Mauritius)" di Bernardin de Saint Pierre, divisa come si legge qui.

Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre (Le Havre, 19 gennaio 1737 - Éragny, 21 gennaio 1814) è stato uno scrittore e botanico francese. Ispirato a Robinson Crusoe, di Daniel Defoe, nel 1787 scrisse il romanzo Paul e Virginie, ambientato all'Île de France, l'odierna Mauritius. La storia narra di due bambini cresciuti sull'isola dalle loro due madri, abbandonate dai rispettivi mariti. Le due famiglie vivono unite come in una sola, in mezzo alla natura e nella devozione cristiana. Divenuti adolescenti, i due ragazzi si innamorano, ma la madre di Virginie decide di mandarla a studiare in Francia presso una ricca e antipatica zia zitella. Durante il viaggio di ritorno dopo alcuni anni di dolorosa lontananza, la nave su cui Virginie si trova, fa naufragio a pochi metri dalla riva d'approdo. Lei muore sotto gli occhi del suo amato, pur di non disonorarsi togliendosi i vestiti per nuotare. Paul si dispera e muore di dolore pochi mesi dopo di lei. Li seguono a breve distanza le rispettive madri, i due vecchi servi africani e il loro cane. La storia è narrata all'autore da un vecchio solitario che dice di aver conosciuto di persona i due fanciulli e si offre di raccontarne le tristi vicende.
 
Fonte: Biblioteca Digital Mundial

Ad integrazione del "Viaggio all'Isola di Francia (Mauritius)", creando anche un poco di confusione per assenza d'una nota specifica, il Marmocchi, cosa peraltro opportuna, inserì una vastissima digressione/traduzione, in cui riprese parti cruciali dell'opera di un viaggiatore francese che, dopo il de Saint-Pierre, visitò il Madagascar e le isole Comore, vale a dire B. F. Leguével de Lacombe, un autore di cui quasi nulla si sa e di cui pochissime opere - in francese - sono in Italia.
 
Madagascar, l'isola, il clima, l'avvento al potere nella descrizione di B. F. Leguével de Lacombe, che riporta, tra l'altro, molte informazioni sul Madagascar, il suo clima, l'ambiente, i popoli, e tradizioni e via discorrendo sino alle riflessioni dell'unificazione ad opera di "Radama I il Grande" del Madagascar nel contesto di un unico regno.


 
Fonte: Wikipedia

Johann Ludwig Burckhardt (Losanna, 24 novembre 1784 - Il Cairo, 15 ottobre 1817) è stato un viaggiatore e orientalista svizzero, noto anche con il nome francese di Jean Louis (da lui preferito) e con quello inglese di John Lewis.

Di origini basilesi, la famiglia, dopo la rivoluzione francese del 1789, fuggì in Germania e Austria. Compiuti gli studi universitari a Lipsia e Gottinga, per i suoi sentimenti anti-francesi Burckhardt dovette nel 1806 emigrare ancora, a Londra.   

Nel 1809 ottenne l'appoggio della African Association per il suo progetto di scoprire le fonti del fiume Niger.
Travestito da mercante arabo, con lo pseudonimo Sheikh Ibrahim Ibn Abdallah, Burckhardt si fermò dapprima ad Aleppo in Siria per conoscere l'Islam (religione che abbracciò) e perfezionare l'araboche aveva studiato, insieme ad altre materie signifiucative per i suoi scopi, in Inghilterra. In Siria tradusse il romanzo Robinson Crusoe in arabo. Divenne grande conoscitore del Corano e del diritto islamico, tanto da essere spesso coinvolto nel dirimere questioni religiose dagli stessi indigeni. Nei due anni trascorsi in Siria Burckhardt fece numerosi viaggi, visitando Palmira, Damasco e il Libano.

Il 22 agosto 1812 si imbattè, probabilmente primo europeo da secoli, nella stupenda Petra, a suo tempo capitale dei Nabatei.

Con l'intenzione di rinvenire finalmente le fonti del Niger, partì poi per il Cairo, dove però non riuscì a trovare carovane che lo conducessero verso ovest. Risalì allora il Nilo e vide nel 1813 il tempio di Abu Simbel.

Nel 1814 fu a Gedda per svolgere il rituale pellegrinaggio alla città santa della Mecca. Si spinse poi verso l'altra città santa di Medina, dove rimase  fino ad aprile 1815, a causa di attacchi di febbre dovuti a parassiti. Nella primavera del 1816, dopo il suo ritorno al Cairo, fece ancora un viaggio per esplorare la penisola del Sinai.

In attesa di ritornare in Europa, Burckhardt ebbe una ricaduta e morì il 15 ottobre 1817. Secondo i suoi desideri fu inumato in un cimitero islamico sotto nome arabo.
I suoi scritti, raccolti in 350 volumi, e la sua collezione di 800 manoscritti orientali rimasero in eredità all'Università di Cambridge.

A questo link su Cultura-Barocca si possono, peraltro, leggere, digitalizzate, alcune delle sue memorie di viaggio in Arabia, così come pubblicate in italiano nel 1844 - a cura del geografo Marmocchi - dall'editore Giachetti di Prato.

Davvero é un peccato che queste opere, con i loro autori, siano cadute nell'oblio, perché offrono spaccati di aspetti di terre, di cui praticamente nulla si sapeva a metà XIX secolo.

Cultura-Barocca ha registrato la digitalizzazione di questi viaggi - al pari di altri -  al fine della conoscenza di una storia tanto importante, quanto, purtroppo, relegata ai margini della cultura.  

da Cultura-Barocca