Powered By Blogger

martedì 22 marzo 2016

Il letterato italiano che ispirò Otello a Shakespeare

Fonte: Wikipedia
Giambattista Giraldi Cinzio (Ferrara 1504 - ivi 1573) compì gli studi universitari a Ferrara (arti e medicina), dove poi insegnò filosofia e, nel 1541, retorica. Il nome Cinzio deriva dall’appellativo Cynthius assunto in gioventù in onore di una donna e mantenuto poi nella forma volgarizzata.

Divenne precettore del giovane Alfonso d’Este, figlio di Ercole II, e in seguito senatore e segretario ducale. Poté dedicarsi allora all’attività letteraria, in particolare alla composizione di tragedie, oltre al suo interesse per la retorica; fu coinvolto in un’aspra polemica con Giambattista Pigna, dal quale fu accusato di aver plagiato una sua “difesa” del Furioso. Esonerato dall’incarico di segretario ducale nel 1561, insegnò prima all’Università di Mondovì, poi, dal 1566, a Torino. Dopo una breve parentesi a Pavia, tornò a Ferrara, dove morì nel 1573.

Autore di tragedie di imitazione da Seneca (con accentuati elementi di orrore), tra le quali la più nota è l'”Orbecche” (del 1541), raccoglie negli “Ecatommiti” (composti già nel 1541 ma editi solo nel 1565) cento novelle fortemente tragiche.

Gli “Ecatommiti” (il titolo è formato con parole greche: “Cento racconti”), che Giraldi Cinzio presenta come “giovenil fatica”, ebbero una lunga gestazione. Principiati nel 1528, furono lasciati da parte per circa trent’anni; nel 1560-63 circolavano manoscritte una settantina di novelle; ripresi dall’autore negli anni successivi, videro la luce nel 1565 (Mondovì, L. Torrentino). Unica edizione moderna integrale è quella Torino, Pomba-Cugioni, 1853-1854.
Si compongono di dieci deche divise in due parti, precedute da un proemio e da una introduzione, che contiene altre dieci novelle, più altre tre che sono narrate come per caso al termine delle giornate terza e quinta per un totale pertanto non di cento, come annuncia il titolo di impronta boccacciana, bensì di centotredici. Ciascuna giornata si conclude con intermezzi che contemplano anche la recitazione di versi. Il proemio, che ricalca quello del “Decameron”, presenta i novellatori che fuggono da Roma, saccheggiata dagli eserciti imperiali nel 1527 e flagellata dalla pestilenza, e si imbarcano a Civitavecchia alla volta di Marsiglia, dove giungeranno dopo avere compiuto varie tappe lungo il viaggio. In una di queste soste, a Genova, prima della sesta deca, sono inseriti tre prolissi “Dialoghi della vita civile”, composti verso il 1550.
La brigata è costituita da dieci uomini e dieci donne, che per distrarsi narrano alternativamente racconti su argomenti diversi, in modo che il computo giornaliero sia sempre di dieci novelle. L’avvenimento tragico all’origine della narrazione ha il corrispettivo nel lignaggio dei personaggi (le donne non sono fanciulle, ma maritate o vedove), negli argomenti trattati, nei quali prevale un fine morale e un intento edificante, nel rigore stesso della scrittura, tesa ad un decoro stilistico alto che riduce la gamma dei registri praticabili.

L’obiettivo dell’opera, come recita l’epigrafe latina apposta dall’autore, è “vitia damnare, vitae ac moribus consulere, sacrosanctae auctoritati ac summae ecclesiae dignitati honorem habere” (“condannare i vizi, provvedere alla vita e ai costumi, onorare la sacrosanta autorità e la somma dignità della Chiesa”). La stessa descrizione del Sacco di Roma, a differenza di quella della peste nel proemio del Decameron, è un insistito panorama degli orrori e delle aberrazioni a cui conduce l’odio per l’ordine costituito e per i princìpi della vera religione, che pone le premesse per una restaurazione di quei valori nell’atto del novellare, non in forma di idilliaca evasione ma di celebrazione dello status quo (cioè la situazione esistente) politico e morale, minacciato da forze perniciose e sovvertitrici.

Ciò risulta anche dagli argomenti delle deche, che si appuntano su virtù o vizi, denunciando l’intento moralistico ed esemplare. Le novelle dell’introduzione vertono sull’elogio dell’amore coniugale e sulla condanna degli amori disonesti. Nella prima deca il tema è libero; nella seconda si ragiona degli amori contrastati dai familiari con fine lieto o infelice; nella terza della infedeltà dei mariti e delle mogli; nella quarta di coloro che ricorrono alle insidie per ottenere ciò che desiderano: nella quinta della fedeltà dei mariti e delle mogli; nella sesta di motti, detti o risposte usate all’improvviso; nell’ottava dell’ingratitudine; nella nona della varietà degli avvenimenti umani e dei casi della fortuna; nella decima di atti di cavalleria.

Nonostante la misura sia per lo più lunga, le novelle presentano talora intrecci ripetitivi e monocordi, evidenziando se non la mancanza d’inventiva generalmente riconosciuta all’autore, almeno la volontà programmatica di reiterare alcuni selezionati nuclei tematici. I registri del tragico e dell’orrido, congeniali all’autore anche per la sua esperienza di autore di tragedie, sono largamente prevalenti nella raccolta sugli elementi realistici e popolari tipici della tradizione toscana, quasi del tutto estromessi dal registro oratorio dominante.

Gli Ecatommiti, sia pure con i limiti che si possono riconoscere all’opera sul piano del giudizio di valore, rappresentano il prodotto più cospicuo della novellistica settentrionale, impegnata in vario modo a elaborare un linguaggio narrativo originale, di forte marca aristocratica, impegnato sul piano etico, stilisticamente elevato, che, al di là della ostentata adesione formale alle modalità boccacciane, va a costituire le premesse del romanzo barocco.

Con la produzione tragica gli “Ecatommiti” condividono trame e motivi: con II 2 l'”Orbecche”; con II 3 l'”Altile”; con II 9 gli “Antivalomeni”; con III 1 l'”Arrenopia”; con V 1 la “Selene”; con VIII 5 l'”Epizia”; con VIII 10 l'”Eufimia”.  

Tra le novelle di maggiore fortuna sono III 7 e VIII 5 che fornirono a Shakespeare le trame rispettivamente dell'”Otello” e di “Misura per misura”.

da Cultura-Barocca