Elio Lentini ed Antonio Aniante - Fonte: Associazione Culturale Antonio Aniante - Elio Lentini |
Nelle Memorie di Francia Antonio Aniante tratta di Filippo De Pisis nel capitolo - appunto! - Con De Pisis a Montparnasse. Dopo un inizio, che pare preludere a qualche rimbrotto all'antico ed ora fortunato compagno di avventure, la narrazione procede non senza espressioni d'affetto, entro un reticolo di notazioni, più giornalistiche, anzi più intimistiche che propriamente biografiche, in cui una sgarbatezza palese od ancora le sfaccettature ambigue di De Pisis non alterano la sostanza di un rapporto amicale, pur se il catanese - evidentemente in relativa sintonia col maestro - qualche frecciata pungente - volontariamente od in linea subliminale - se la lascia sfuggire sulla sua vita irregolare e sulla sua condizione di omosessuale:
CON DE PISIS A MONTPARNASSE (pp.55 - 59)
I critici non hanno ricordato del mio caro, indimenticabile amico e scrittore Comisso, il patetico libro consacrato a De Pisis, edito da Livio Garzanti.
Più di una volta mi ero detto di raccontare a Comisso un episodio della vita parigina dell'illustre pittore ferrarese, con preghiera di innestarlo in una eventuale ristampa.
Nel 1932, a trentadue anni quando mi furono tagliati i ponti e quindi fui costretto a vivere d'espedienti, improvvisai in un umido sotterraneo di Montparnasse, una galleria d'arte, che chiamai: "Juene Europe".
Mi recai da de Pisis, che cominciava allora a godere di un po' di notorietà (non come poeta, quale era il suo sogno, da ragazzo, ma come pittore), e gli proposi una mostra, da me, dei suoi più recenti dipinti.
Fin dal 1914 ero un suo ammiratore, cioè dal tempo in cui avevo in cassetto il suo primo libro di versi: "La città dalle cento campane".
L'accordo fu presto concluso, ma non senza avergli giurato che i miei rapporti con il regime erano eccellenti. Se gli avessi detto la verità, l'affare sarbbe andato in fumo e svanita la speranza di appuntellare le vacillanti finanze con la vendita dei suoi quadri.
Non troppo sicuro delle mie affermazioni, Filippo, mi anticipò tuttavia, le spese; e pochi giorni dopo, radunò le sue tele nella mia galleria.
Mi affrettai a stampare i manifesti e gli inviti che, insieme, diramammo, con in testa ambasciatori e consoli del nostro e dei Paesi alleati.
Ma due ore prima della vernice, de Pisis arrivò in taxi, non certamente solo; staccò le tele dalle pareti e se le portò via.
Io mi ero assentato dalla "Jeune Europe" da un quarto d'ora appena! Senza dubbio, Filippo aveva posto ai due angoli della strada due sentinelle, che lo avrebbero avvertito in caso di mio arrivo.
Era avvenuto questo: comuni amici di Montparnasse, andati a trovarlo con pezze d'appoggio in mano, lo avevano persuaso del pericolo in cui incorreva frequentandomi.
Alla vista delle pareti nude mi sentii venir meno. Gli invitati e i critici affluivano. Raccolte le mie recondite energie, che son propio quelle della disperazione, mi precipitai nei tre più vicini caffè, il "Dome", la "Rotonde", e la "Coupole", e lì con poche parole, ma quanto mai efficaci, persuasi una dozzina di giovani pittori ebrei, freschi arrivati a Montparnasse dai lontani ghetti, a volare nei loro studi, a prendere le loro migliori tele ed a portarmele nella mia galleria subito. Come tanti daini si dispersero ai quattro venti e ritornarono a me immediatamente, senza il minimo ritardo per il semplice fatto che le loro tele le avevano depositate qua e là nello stsso tratto del nostro boulevard.
Il successo fu tale che tutte le opere esposte andarono a ruba, e parecchi clienti comprarono i quadri dei piccoli ebrei, pensando che fossero di de Pisis: non solo ma pure alcuni critici elogiarono de Pisis che aveva saputo così bene illustrare il ghetto di Varsavia.
La sera della vernice raccontai a un collega la mia disavventura, chiusasi, meno male, felicemente per le mie finanze.
- Io al vostro posto, - mi consigliò - mi recherei da un avvocato e chiederei il risarcimento dei danni materiali e morali.
- Sì, - gli risposi - ottima idea, la vostra.
E andai a coricarmi con l'intenzione ferma di intentare un processo al pittore. Ma dopo due ore di sonno agitato, mi svegliai di colpo, in un mare di sudore.
- Che pazzia sarebbe la mia - mormorai, voltandomi dall'altra parte - povero de Pisis, un processo a lui che mi ha tanto aiutato? Giammai!
Mi ero ricordato, improvvisamente, del bene che non mi aveva lesinato: e pranzi, e soldi, e quadri, e vestiti, e cravatte, e bastoncini, e di più: circa un mese dopo il mio arrivo a Parigi, avendo lasciato nei vari alberghi le mie valigie al posto del denaro, mi ero ridotto sul lastrico senza più speranza di salvezza. In una lunga lettera manifestai il mio profondo turbamento a de Pisis, e non mi rimaneva altro santo da supplicare- - Non si sa mai, - pensai - potrebbe compiere il miracolo, non si sa mai.
E infatti, e non senza mio stupore, arrivò di corsa e mi sollevò da terra e mi diede vita.
Una volta, entrò e uscì dal "Dome", con la testa fasciata nel cotone idrofilo e nella garza. Finse di non riconoscermi? O non si accorse della mia presenza? Che gli era capitato?
Come e quanto Jean Cocteau, egli prediligeva i giovani marinai delle navi da guerra dei porti di Tolone e di Brest, belli e volgari ragazzi, che, lautamente pagati, posavano per lui. Uno di essi, dopo avergli tolto il portafogli, gli spezzò una bottiglia in testa. Rimasto solo, in un lago di sangue, il pittore si trscinò fino al balcone e si mise a gridare con quel po' di voce che gli rimaneva:
- "Aìta, Aìta!"
Per sua fortuna passava di lì un suo conoscente; gli abitanti della viuzza erano tutti ciechi e sordi. Pagàno di sentimenti e di costumi, Filippo lavorava e viveva in pieno cuore di Saint-Sulpice, quartiere delle chiese, dei conventi, delle librerie cattoliche e dei negozi d'oggetti sacri, al servizio della gente pia; scendeva in pigiama e andava in giro al braccio di giovani marinai avvinazzati, per cui non era per nulla ben visto, per non dire che veniva additato come una autentica Non si era mai accorto dell'ostilità dei vicini; anzi era certo che dalla portinaia al parroco tutti lo stimavano e ammiravano. Nessuno mi leva dalla testa che i gravi disturbi cerebrali, che lo portarono alla tomba e dei quali parla lungamente ma vagamente Comisso nel suo libro, erano dovuti al tremendo colpo di bottiglia che aveva ricevuto sul cranio.
CON DE PISIS A MONTPARNASSE (pp.55 - 59)
I critici non hanno ricordato del mio caro, indimenticabile amico e scrittore Comisso, il patetico libro consacrato a De Pisis, edito da Livio Garzanti.
Più di una volta mi ero detto di raccontare a Comisso un episodio della vita parigina dell'illustre pittore ferrarese, con preghiera di innestarlo in una eventuale ristampa.
Nel 1932, a trentadue anni quando mi furono tagliati i ponti e quindi fui costretto a vivere d'espedienti, improvvisai in un umido sotterraneo di Montparnasse, una galleria d'arte, che chiamai: "Juene Europe".
Mi recai da de Pisis, che cominciava allora a godere di un po' di notorietà (non come poeta, quale era il suo sogno, da ragazzo, ma come pittore), e gli proposi una mostra, da me, dei suoi più recenti dipinti.
Fin dal 1914 ero un suo ammiratore, cioè dal tempo in cui avevo in cassetto il suo primo libro di versi: "La città dalle cento campane".
L'accordo fu presto concluso, ma non senza avergli giurato che i miei rapporti con il regime erano eccellenti. Se gli avessi detto la verità, l'affare sarbbe andato in fumo e svanita la speranza di appuntellare le vacillanti finanze con la vendita dei suoi quadri.
Non troppo sicuro delle mie affermazioni, Filippo, mi anticipò tuttavia, le spese; e pochi giorni dopo, radunò le sue tele nella mia galleria.
Mi affrettai a stampare i manifesti e gli inviti che, insieme, diramammo, con in testa ambasciatori e consoli del nostro e dei Paesi alleati.
Ma due ore prima della vernice, de Pisis arrivò in taxi, non certamente solo; staccò le tele dalle pareti e se le portò via.
Io mi ero assentato dalla "Jeune Europe" da un quarto d'ora appena! Senza dubbio, Filippo aveva posto ai due angoli della strada due sentinelle, che lo avrebbero avvertito in caso di mio arrivo.
Era avvenuto questo: comuni amici di Montparnasse, andati a trovarlo con pezze d'appoggio in mano, lo avevano persuaso del pericolo in cui incorreva frequentandomi.
Alla vista delle pareti nude mi sentii venir meno. Gli invitati e i critici affluivano. Raccolte le mie recondite energie, che son propio quelle della disperazione, mi precipitai nei tre più vicini caffè, il "Dome", la "Rotonde", e la "Coupole", e lì con poche parole, ma quanto mai efficaci, persuasi una dozzina di giovani pittori ebrei, freschi arrivati a Montparnasse dai lontani ghetti, a volare nei loro studi, a prendere le loro migliori tele ed a portarmele nella mia galleria subito. Come tanti daini si dispersero ai quattro venti e ritornarono a me immediatamente, senza il minimo ritardo per il semplice fatto che le loro tele le avevano depositate qua e là nello stsso tratto del nostro boulevard.
Il successo fu tale che tutte le opere esposte andarono a ruba, e parecchi clienti comprarono i quadri dei piccoli ebrei, pensando che fossero di de Pisis: non solo ma pure alcuni critici elogiarono de Pisis che aveva saputo così bene illustrare il ghetto di Varsavia.
La sera della vernice raccontai a un collega la mia disavventura, chiusasi, meno male, felicemente per le mie finanze.
- Io al vostro posto, - mi consigliò - mi recherei da un avvocato e chiederei il risarcimento dei danni materiali e morali.
- Sì, - gli risposi - ottima idea, la vostra.
E andai a coricarmi con l'intenzione ferma di intentare un processo al pittore. Ma dopo due ore di sonno agitato, mi svegliai di colpo, in un mare di sudore.
- Che pazzia sarebbe la mia - mormorai, voltandomi dall'altra parte - povero de Pisis, un processo a lui che mi ha tanto aiutato? Giammai!
Mi ero ricordato, improvvisamente, del bene che non mi aveva lesinato: e pranzi, e soldi, e quadri, e vestiti, e cravatte, e bastoncini, e di più: circa un mese dopo il mio arrivo a Parigi, avendo lasciato nei vari alberghi le mie valigie al posto del denaro, mi ero ridotto sul lastrico senza più speranza di salvezza. In una lunga lettera manifestai il mio profondo turbamento a de Pisis, e non mi rimaneva altro santo da supplicare- - Non si sa mai, - pensai - potrebbe compiere il miracolo, non si sa mai.
E infatti, e non senza mio stupore, arrivò di corsa e mi sollevò da terra e mi diede vita.
Una volta, entrò e uscì dal "Dome", con la testa fasciata nel cotone idrofilo e nella garza. Finse di non riconoscermi? O non si accorse della mia presenza? Che gli era capitato?
Come e quanto Jean Cocteau, egli prediligeva i giovani marinai delle navi da guerra dei porti di Tolone e di Brest, belli e volgari ragazzi, che, lautamente pagati, posavano per lui. Uno di essi, dopo avergli tolto il portafogli, gli spezzò una bottiglia in testa. Rimasto solo, in un lago di sangue, il pittore si trscinò fino al balcone e si mise a gridare con quel po' di voce che gli rimaneva:
- "Aìta, Aìta!"
Per sua fortuna passava di lì un suo conoscente; gli abitanti della viuzza erano tutti ciechi e sordi. Pagàno di sentimenti e di costumi, Filippo lavorava e viveva in pieno cuore di Saint-Sulpice, quartiere delle chiese, dei conventi, delle librerie cattoliche e dei negozi d'oggetti sacri, al servizio della gente pia; scendeva in pigiama e andava in giro al braccio di giovani marinai avvinazzati, per cui non era per nulla ben visto, per non dire che veniva additato come una autentica Non si era mai accorto dell'ostilità dei vicini; anzi era certo che dalla portinaia al parroco tutti lo stimavano e ammiravano. Nessuno mi leva dalla testa che i gravi disturbi cerebrali, che lo portarono alla tomba e dei quali parla lungamente ma vagamente Comisso nel suo libro, erano dovuti al tremendo colpo di bottiglia che aveva ricevuto sul cranio.
di Antonio Aniante da Elio Lentini Scultore in Cultura-Barocca