Un uomo,
che si reputava un dio vivente, stava solo, cosa rara, sugli alti piani
del suo immenso palazzo, la reggia dell'Impero, nell'Anahuac, che poi
sarà detto solitamente Messico. Sotto un cielo di smeraldo ed al soffio
d'una lieve brezza, fissava la sua smisurata capitale, gemma dello
Stato.
Meglio se ne parlerà in altra occasione: qui basta rammentare, o forse meglio ipotizzare, che lo sguardo dell' "uomo-Dio" si sia alla fine fissato anche sul brulichio del mercato, più grande di qualsiasi altro in qualsivogli città d'Europa.
V'era ogni cosa, necessaria per la vita della città, popolosa quanto altre mai.
Al Signore dei Mexica, pur detti Aztechi, tormentato da recenti funesti presagi, forse sfuggiva che il suo destino, e quello del suo mondo, stava forse scritto entro le iridescenze d'un fiore pur esistente nei suoi domini ma scoperto dai Gesuiti tra lo smisurato Brasile e lo popolose contrade del Perù orgoglio d'un altro possente dominio, quello degli Inca.
Un bel fiore era, dai missionari collegato a Cristo sotto nome di "Fior della Passione" o Passiflora, la Granadiglia in effetti: per altri, tuttavia, simbolo d'oscuri richiami idolatri e pagani.
Una gemma della natura comunque, destinata a diventare un caso letterario in Europa, entro l'Adone e quindi nella disputa poetica sul "Giardino di Venere" fra Tomaso Stigliani e GianBattista Marino di cui, con tanti, un giovane ambizioso ventimigliese, tal Angelico Aprosio, fu acceso sostenitore.
Le discussioni su un fiore, ambiguamento sospeso da opinioni diverse tra esaltazione del Cristo e sensuale culto di Demoni, furon forse solo metafora d'una "Passione" più estesa, del crollo di Imperi giudicati eterni e invece devastati da "uomini vestiti di ferro e con armi terribili", i quali, aiutati dai tanti nemici che la ferocia di Montezuma II aveva generato, avrebbero presto distrutto, nel sangue di tanti la splendida città dai mercati senza fine e dai tesori inenarrabili: e poi con essa le meraviglie di tutto "Il Nuovo Mondo". Sicché nella piazza deserta degli empori nulla rimase, forse i resti di qualche mercante tardivo alla fuga, esposto al vento, ove una sorta di locuste intralciava il pasto d' uccelli ben pasciuti e, soprattutto, il silenzio, che aveva sopraffatto le mille voci dei faccendieri: un silenzio di morte in cui, giorno dopo giorno, era sempre più facile odorare l'incenso portato dai preti d'un Mondo lontano ed ascoltare litanie, estranee nel senso ma prossime nel ritmo, a quelle degli antichi sacerdoti.
Meglio se ne parlerà in altra occasione: qui basta rammentare, o forse meglio ipotizzare, che lo sguardo dell' "uomo-Dio" si sia alla fine fissato anche sul brulichio del mercato, più grande di qualsiasi altro in qualsivogli città d'Europa.
V'era ogni cosa, necessaria per la vita della città, popolosa quanto altre mai.
Al Signore dei Mexica, pur detti Aztechi, tormentato da recenti funesti presagi, forse sfuggiva che il suo destino, e quello del suo mondo, stava forse scritto entro le iridescenze d'un fiore pur esistente nei suoi domini ma scoperto dai Gesuiti tra lo smisurato Brasile e lo popolose contrade del Perù orgoglio d'un altro possente dominio, quello degli Inca.
Un bel fiore era, dai missionari collegato a Cristo sotto nome di "Fior della Passione" o Passiflora, la Granadiglia in effetti: per altri, tuttavia, simbolo d'oscuri richiami idolatri e pagani.
Una gemma della natura comunque, destinata a diventare un caso letterario in Europa, entro l'Adone e quindi nella disputa poetica sul "Giardino di Venere" fra Tomaso Stigliani e GianBattista Marino di cui, con tanti, un giovane ambizioso ventimigliese, tal Angelico Aprosio, fu acceso sostenitore.
Le discussioni su un fiore, ambiguamento sospeso da opinioni diverse tra esaltazione del Cristo e sensuale culto di Demoni, furon forse solo metafora d'una "Passione" più estesa, del crollo di Imperi giudicati eterni e invece devastati da "uomini vestiti di ferro e con armi terribili", i quali, aiutati dai tanti nemici che la ferocia di Montezuma II aveva generato, avrebbero presto distrutto, nel sangue di tanti la splendida città dai mercati senza fine e dai tesori inenarrabili: e poi con essa le meraviglie di tutto "Il Nuovo Mondo". Sicché nella piazza deserta degli empori nulla rimase, forse i resti di qualche mercante tardivo alla fuga, esposto al vento, ove una sorta di locuste intralciava il pasto d' uccelli ben pasciuti e, soprattutto, il silenzio, che aveva sopraffatto le mille voci dei faccendieri: un silenzio di morte in cui, giorno dopo giorno, era sempre più facile odorare l'incenso portato dai preti d'un Mondo lontano ed ascoltare litanie, estranee nel senso ma prossime nel ritmo, a quelle degli antichi sacerdoti.