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domenica 14 febbraio 2016

Dopo la desertificazione di IX e X secolo

Milano: colonne di San Lorenzo
Uno dei temi sommersi della storiografia ligure e pedemontana, talora intuito, ma in fondo non mai compiutamente svelto, se non procedendo a settori e compartimenti (come invero è difetto strutturale della ricerca nel Ponente italiano) è dato dal tema della DESERTIFICAZIONE, fisica e morale, di siffatte regioni dopo gli eventi drammatici di IX e X secolo.
 
La storiografia tradizionale ha sempre privilegiato l'analisi della crisi socio-economica di queste contrade e, senza sbagliare, l'ha connessa prioritariamente agli sfondamenti dei Saraceni cui, senza dubbio, era da addebitare un ruolo di primo piano nel degrado ambientale ed economico oltre che nella catastrofica interruzione dei rinati processi di comunicazione su antichi tragitti interregionali.
 
La Chiesa si trovò comunque nella necessità di affrontare un problema in qualche modo connesso al disordine morale e ideologico genericamente insorto e per certi aspetti consequenziale, per logia e cronologia, al disordine istituzionale ed ambientale attribuibile all'alluvione del Frassineto" come allora si soleva ribadire.
 
Le masse popolari [che peraltro erano state faticosamente consegnate e talora anche restituite, contro ritorni idolatrici al paganesimo già vigorosamente combattuti da Papa Gregorio Magno ed i Benedettini, oltre che certe "più attuali" devianze ereticali, all'ortodossia cattolica] erano rimaste sconcertate di fronte all'impotenza della Cristianità nei riguardi dell'espansionismo arabo.
 
Alle sconfitte militari, e quindi alle profanazioni religiose, era così seguita (tra X e XI secolo) una crescente delusione nei confronti di tutto l'apparato, temporale e spirituale, su cui l'intero complesso del medioevo feudale reggeva il suo stesso esistere.

Per primo (diventando quasi una fonte cui attingere perpetuamente ma comunque riprendendo un'intuizione del Luppi) in tempi recenti L. Oliveri ha redatto un contributo, che se non può essere esaustivo sull'argomento, risulta emblematico per le linee guida che suggerisce a tutti i ricercatori che si accostano a questo periodo storico ed ai suoi complessissimi problemi.

Semplicisticamente la sua dissertazione riguarda lo sviluppo in Piemonte (e consequenzialmente in Liguria) dei pravi homines: gli "uomini malvagi" (logicamente sotto l'interpretazione cattolico-cristiana) che, a fronte del momentaneo fallimento della cristianità e di rimpetto alle ampie terre effettivamente lasciate deserte dai Saraceni, avevano cercato salvezza, fisica e morale, in un complesso, variegato e spesso anche rozzo, di esperienze eterodosse, ereticali e in definitiva costantemente anticattoliche.
 
A seconda delle postazioni ideologiche la valutazione di questi movimenti sono state diverse: già escludendo i testi di taglio eminentemente storico-religioso, alcuni storici come il Formentini hanno parlato di vere e proprie esperienze rivoluzionarie, altri quali il Settia si sono soffermati maggiormente sull'aspetto collettivo di lotta contro la Chiesa ufficiale, altri ancora - con qualche cedimento alla parzialità filoromana - hanno marcatamente parlato di "apostasia" o di "empietà" come Riberi e Ristorto o come l'Oliveri.
 
La documentazione su queste forme di associazionismo anticattolico nella Cispadana ed in Liguria sono davvero scarne: tuttavia qualche cenno alla diffusione e alla importanza crescente (e proccupante per la Chiesa ufficiale) ci proviene recentemente da quanto scrive A. Vauchez nel suo lavoro Movimenti religiosi fuori dell'ortodossia in Storia dell'Italia religiosa, Baria, 1993, vol. I, pp. 311 - 313.
 
Un utilissimo contributo, appartenente ancora a questa ultima collana citata, è quello di P. Golinelli laddove redige l'utilissimo saggio intitolato Strutture organizzative e vita religiosa (p. 186 in particolare).

Dall'analisi di questi lavori e dallo studio di una spedizione armata del 1034, contro i manichei di Monforte Langhe e dell'Appennino, capeggiata da Olderico Manfredi e del fratello Alrico, vescovo di Asti, si evincono alcune interessanti osservazioni. Gli sconfitti manichei che non vollero prestare alcuna abiura in Milano, dove furono tradotti, vennero condannati al rogo: in definitiva costoro (contro cui si sentì l'esigenza di un intervento tanto pesante nel contesto della ricristianizzazione di queste vaste terre) a fronte dell'istituzione, laica e religiosa, avevano la colpa principale di voler minare alle fondamenta la struttura feudale e teocratica nel nome di un palesato indebolimento dei concetti di proprietà e autorità.
 
Se come scrive il De Moro i pravi homines avevano in comune tale postazione ideologia con i manichei catari di Monforte (che esercitavano la comunione dei beni e rigettavano lo schematismo dogmatico della Chiesa ufficiale) una loro violenta persecuzione rientra nel plausibile come atteggiamento istituzionale per il reinserimento delle collettività nell'ecumene cristiana ortodossa.