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martedì 2 aprile 2019

Picasso tra ferro e fuoco nella fucina di Vallauris



Antonio Aniante (1900-1983) nelle Memorie di Francia scrive:

"In un ritaglio della stampa francese (che molto gentilmente mi ha fatto avere un grande amico degli scrittori e giornalisti quale è Umberto Frugiuele), trovo notizie poco liete sulla salute di Picasso.
Dopo di aver subito la delicata operazione della cistifellea, non gode più della sua leggendaria salute di ferro. Sono i polmoni e i bronchi che gli dan serio fastidio.
- Ha, probabilmente, fumate troppe sigarette "Gauloises", - mi fa un collega della Costa Azzurra, che lo ha avvicinato spesso. Non sono interamente del suo parere; io penso che non è tanto il fumo, quanto il fuoco del suo forno di Vallauris che, in venti anni di quotidiana presenza, gli è stato nocivo.
Subito dopo la guerra, Picasso, sessantacinquenne, lasciava la brumosa Parigi per l'assolata Provenza; e si stabiliva sull'amena collina di Vallauris, fra Nizza e Cannes. Qui entrava in rapporti d'affari con la giovane coppia Ramiez, proprietaria della fabbrica di ceramiche "Madoura".
Picasso si consacrava alla terracotta. La mattina presto, eccolo al forno, al suo forno, in compagnia di alcuni operai italiani, fino a tardi la sera, la notte, non smettendo di lavorare. Il risultato del suo sforzo non tarda a ottenerlo. Vallauris, che deperiva a vista d'occhio, che si spopolava e impoveriva, ora, grazie alle originali ceramiche di Picasso ritrovava gloria e prosperità; conquistava un primato mondiale nell'arte e nell'industria della terracotta.
Un uomo solo, un solo uomo ha compiuto il prodigio: la popolazione è aumentata; il paese si è fatto più grande e più bello; le fabbriche di ceramiche si sono moltiplicate.
I turisti si ritrovano sulla piazza del paese, dinnanzi al monumento dell' "Homme au mouton", l'uomo con il piccolo montone in braccio, firmato da Picasso; di là si recheranno ad ammirare l'immenso "Affresco della Pace", anch'esso di Picasso, cittadino onorario di Vallauris. Ignorano che l'idolo, il guerriero, il genio, l'artigiano, l'operaio ha deposto armi e strumenti del mestiere, forse per sempre.
Senza alcuna speranza di poterlo vedere, mi sono inoltrato fin sotto le mura del suo castello di Mougins. Non ho insistito presso il guardiano; e son ritronato sui miei passi, con l'anima oppressa da sinistri presentimenti.
Cammin facendo, rivedo Picasso a torso nudo, in calzonicini da spiaggia, sudato e acceso in viso, dinnanzi al suo forno, che sta cuocendo la terra. Il ricordo non è di ieri ma di un passato che si può dire ormai remoto; e mi vien da pensare che la sua immane fatica di artigiano, di operaio, di manimpasta, è maggiormente ammirevole del fatto che egli, al pari di Matisse, alla fine della seconda guerra mondiale era pittore celeberrimo e miliardario; le sue mani non erano callose, oscure, sciupate.
Non è più, per lui, a Vallauris, sotto il sole, la vita sedentaria di Parigi, direi quasi la sua vita artificiale. Fra le vigne, gli ulivi e i fichi d'India, l'esule ritrova il vero se stesso, ritorna alle sue origini: si ritempra sotto lo stesso limpido cielo della nativa Malaga.
Se fosse rimasto a Parigi, la sua fibra di lottatore si sarebbe logorata anzi tempo, minata come era dalle insidie dell'avverso clima; allora, Picasso, obbedendo all'istinto di conservazione, fuggì dalla nebbia al sole; e pur di riconquistare la sua natura mediterranea, non esitò a liberarsi, a spogliarsi d'ogni ricchezza, d'ogni gloria e di ogni piacere; a ritornare a un'esistenza solare e primitiva: nel mare, a Golfe-Juan; dinnanzi al rustico forno, sulla collina patriarcale di Vallauris.
Pur di poter dominare la nostalgia importa in Provenza un pezzo di Spagna; è lo spettacolo della corrida, che trova in lui un impresario modello.
Ho visto Picasso, sulla spiaggia, esibire al sole il suo corpo di gladiatore; ho visto Picasso dinanzi al suo forno ardente, fondersi nel sudore; fuoco del cielo, fuoco della terra; ho visto Picasso al riposo, dopo la fatica d'artigiano, seduto sulla soglia della fabbrica dividersi con i suoi operai il pane bigio, le olive, il vino, le sigarette.
L'umiltà, la semplicità del ceramista Picasso a Vallauris sono proverbiali. Non è stato sempre umile e semplice; egli è, invero, di carattere fiero e scontroso; cosciente del suo genio, del suo "role" di caposcuola, della sua audacia, della sua temerità di avanguardista estremo, della sua potenza finanziaria, rifugge dai facili contatti; difficile è la sua scelta nelle frequentazioni e nelle amicizie; è un solitario per volontà.
Il pittore Picasso, a Montparnasse, fa dire dal suo maggiordomo all'illustre critico d'arte Lionello Venturi, che era andato a trovarlo:
- Il maestro dipinge e si scusa di non potervi ricevere -.
Venti anni dopo, l'artigiano Picasso, a Vallauris, lo attenderà, a sua volta, circa un'ora, e invano, scusandolo, nei primi trenta minuti, con indulgenza e pazienza, da certosino. Il Venturi, nel frattempo, era rimasto come invischiato nella vicina collinetta di Vence-la Jolie, nello studio del suo beniamino, del suo pittore preferito, Marc Chagall.
Picasso l'aspettava, non per mostrargli le sue più recenti opere di pittore, ma i suoi piatti, i suoi boccali, le sue anfore, i suoi vasi, le sue giare, il suo forno, che stava acceso; il suo forno che ora è spento
."

da Cultura-Barocca