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domenica 29 aprile 2018

Saggio sulla coltivazione e su gli usi del Pomo di Terra...

Nel 1817 l'illustre botanico italiano dell'università di Modena FILIPPO RE (Saggio sulla coltivazione e su gli usi del Pomo di Terra..., Milano, per Giovanni Silvestri, 1817, p.5 e sgg.), datando la scoperta del prezioso tubero a poco dopo la metà del 1500 [oltre a fornire -a genti ancora inesperte- un basilare PRONTUARIO PER SERVIRSI DELLA PATATA IN ALIMENTAZIONE] mosse una serie di pesanti accuse ai ceti dirigenti italiani che relegarono, come una rarità, tale coltura negli orti botanici senza proporre un'oculata educazione degli agricoltori, in genere refrattari alle novità, anche ottimali come questa. Pregiudizi, superstizioni, timori irrazionali (che la pianta portasse malattie o fosse velenosa), avversione verso i gruppi dominanti (nella convinzione che volessero impoverire i contadini sostituendo a quella del grano la meno costosa cultura del tubero), ignoranza agronomica ed interessi particolari dei fattori fecero sì che la coltura delle patate si affermasse tardi in Italia e solo in occasione delle guerre di Napoleone quando la gente vide i genieri francesi coltivare e far mangiare il tubero alle truppe senza alcun inconveniente.
In Liguria poi la resistenza alla coltivazione del Pomo di Terra fu ancora più tenace specie perché i contadini, fin troppo esposti ai rischi delle fluttuazioni del mercato ed estremamente condizionati dalla limitatezza della terra a disposizione per colture alternative, rimanevano -come detto- tenacemente attaccati alla monocoltura dell'olivo accettando con rassegnazione, ma nella speranza di recuperi e quindi di una garantita sopravvivenza, i rischi delle malattie della pianta, delle carestie, dei saccheggi degli oliveti.
La Repubblica per convincere gli agricoltori liguri ad intraprendere questa nuova esperienza agronomica ricorse, ma senza grande efficacia, persino ad una Petizione dei Parroci, mediamente le persone più ascoltate dai contadini = e per correttezza intellettuale -contro magari alcune convinzioni anticlericali- giova rammentare che un po' ovunque accanto agli Ideologi dell'Illuminismo risulta da segnalare la vigorosa opera di alcuni illuminati religiosi avverso Superstizione e False Credenze tra cui un posto assolutamente di rilievo spetta di diritto al Domenicano Spagnolo Padre Benedetto Gerolamo Feijoo.
Nel caso in questione invece una menzione specifica spetta di dovere al parroco di Roccatagliata di Neirone tale don Michele Dondero che più di tutti gli altri parroci credeva alla coltura della patata come un deterrente contro le carestie e ne esperimentava da tempo le tecniche colturali nonostante i villici ritenessero le sue investigazioni tacciabili di stregoneria.
A proposito di queste sue ricerche il parroco, nelle proprie "lettere" scrisse tra l'altro: "Allora le ho grattate [i pomi di terra] alla maniera delle zucche, e rimescolate con farina le ho impastate all'uso di tagliarelli ma anche ridotte in polenta sono ottime. E le focacce poi son perfette e di grato sapore". I suoi parrocchiani, in seguito ad una carestia, si lasciarono convincere finalmente alla colture dei preziosi tuberi sì che il Dondero poteva scrivere nel 1792: "al presente la valle di Fontanabuona vale il doppio di prima e generalmente si vive meglio".
Ma nelle altre località l'affermazione della coltivazione fu in linea di massima più laboriosa: e peraltro il fatto della peculiarità di tale coltura nell'area di Roccatagliata e Meirone è segnalata dal fatto che qui si celebra tuttora, a commemorazione dell'antico evento, la "sagra della patata".
Infatti la scelta definitiva, nell'intiero arco ligustico, della coltivazione avvenne solo in forza dell'impresa di Napoleone e del fatto d'aver visto i suoi soldati approvvigionarsi del nutriente alimento.
Molta gente prese così a coltivare, in questi periodi di guerra, il Pomo di Terra vincendo lo spettro della carestia: poi (ancora si lamenta il Re a p.9) finiti i conflitti o passate le truppe la coltura da molti era abbandonata sì che solo quanti vi credettero, persistendo in siffatta coltivazione e commercializzazione, ne trassero grande vantaggio su un mercato che rapidamente accolse le patate come uno dei nuovi, fondamentali alimenti.
Per certi aspetti stupisce che la RESISTENZA ALLA COLTURA DELLE PATATE sia stata considerevole anche in Liguria occidentale, in quella terra che, oltre ad essere più prossima alla Francia e quindi più esposta alle innovazioni agronomiche di tale nazione, possa vantare di aver dato i natali all’illustre agronomo Carlo Amoretti (Oneglia 1741 – Milano 1816), che fu un convintissimo sostenitore dell’importanza della coltura delle patate e della loro importanza alimentare ed alle quali dedicò un’opera fortunata il Della coltivazione delle Patate e loro uso (Milano 1801) di cui si giunse fin a quattro edizioni, essendone l’ultima, nota al Re, del 1811.
Annagrazia Cogno Zarbo ha scritto in un suo articolo apparso sulla “Riviera dei Fiori”, II, 1990 ed intitolato significativamente La patata:
Sempre nello stesso anno (1793) la Società Patria di Genova faceva stampare dalla tipografia Caffarelli un’istruzione agraria sui Pomi di terra, indirizzata al Parroci rurali del Dominio della Serenissima Repubblica, con lo scopo di propagandare la coltivazione della patata fra i loro parrocchiani. Venivano anche proposte maniere per ridurre la patata in farina o ‘panizzarla’.
Il prezzo del tubero nel 1794 a Genova era di 36 soldi il rubbo e di 30 nelle campagne.
Nello stesso anno a Nizza veniva pubblicata una Istruzione sopra la coltura e gli usi dei pomi di terra nella quale era evidenziato come nell’anno precedente rimarchevole per la sua siccità, il pomo di terra fu il solo che diede frutti discreti.
Anche la Società Economica di Chiavari si adoperò per far conoscere l’utilità delle patate e per diffonderne la piantagione e, grazie ai Parroci nominati Soci Coadiutori, nel 1799 erano piantate in quasi tutto quel circondario.

Tommaso Viano, compilando la storia di Montalto Ligure e Badalucco (IM), scrive: Le patate si son conosciute nei nostri paesi dopo il 1800, non conoscendosi prima del 1796, essendoci appunto in detto anno mandate a noi dal Sig. Governatore Spinola di San Remo, ma subito se ne faceva poco uso per i molti pregiudizi che si avevano nei confronti del tubero.
Un’osservazione molto curiosa è fatta da un coltivatore di Diano Marina che, stampata a Genova nel 1818, cita testualmente: gran parte degli agricoltori specialmente di montagna, della Riviera di Ponente, sono intimamente persuasi che l’irregolarità delle stagioni sia effetto della coltivazione delle patate. Ho calleggiato (?) con molti su questo proposito, né mi è riuscito di far ricredere un solo: post hoc, ergo propter hoc.
A Porto Maurizio il primo listino, o Mercuriale, che fa cenno alle patate risale al 1809 ed in uno successivo é scritto che nella seconda metà di novembre se ne vendettero 18 ettolitri a Lire 5,96 l’ettolitro.
In una lettera del Settembre 1814 il Sindaco di Porto Maurizio scrive al Governatore di San Remo: Le persone si sono abituate all’uso delle patate e di più si semina molto più grano di quel che si seminasse prima….
Il Pira, nella Storia della città e Principato di Oneglia, scrive che l’inverno del 1811 era stato orrido, e che le patate che a principio della rivoluzionaria invasione vedevansi con meraviglia mangiare dai soldati francesi, erano divenute un cibo comune delle popolazioni; alla stessa maniera che cinquant’anni prima si apprese dalle truppe di Spagna a coltivare per lusso i pomi d’amore (pomodori), s’imparò da quelle di Francia a coltivare per bisogno i pomi di terra.

da Cultura-Barocca

sabato 21 aprile 2018

Esculapio

In un Papiro di Ossirinco ( XI, n.1381 della prima metà del II secolo d. C. edito da Grenfell ed Hunt e ripreso da W.Schubart in Einfurhung in die Papyruskunde, Berlino, 1918, pp.157 sgg.) si elenca un miracolo del dio Imouthes - Asclepio [in contesto cristiano queste "forme" di potenza divina terapeutica furono confuse con vecchi culti per demoni e forze oscure: come l'INCUBATIO (v. Incubo) o sonno terapeutico presso un luogo o recinto sacro o più spesso ancora un bosco sacro, spesso conservato nelle chiese primigenie dai cristiani fin oltre il mille, specie nelle zone rurali più arretrate, nonostante le proteste e gli anatemi dei vescovi> per eccellenza durante l'Impero di Roma assimilato il culto del greco Asclepio in quello del dio taumaturgo romano Esculapio il luogo per eccellenza dove si praticava l'incubatio e dove spesso si manifestava la potenza dell'aretalogia era la sede del tempio di Esculapio che a Roma costituiva un sito monumentale che sorgeva sull'Isola Tiberina*: tuttavia si trattava di un fenomeno estremamente esteso...].
Nel testo di Ossirinco sopra menzionato si legge: "Era notte, quando ogni essere vivente giace nel sonno tranne i sofferenti, e la divinità appare con maggiore efficacia, e violenta mi bruciava la febbre, ed ero squassato dall'asma, dalla tosse, e dal dolore che mi saliva dal fianco; con il capo appesantito dalla pena scivolavo nell'incoscienza del sonno; e mia madre perché accanto al figlio, giacché è per natura amorosa, soffrendo per i miei tormenti sedeva non concedendosi neppure un attimo di sonno. Poi improvvisamente vide - né sogno né sonno - giacché gli occhi erano immobili ed aperti, benché non vedessero chiaramente, in quanto una apparizione divina le si presentò spaventandola e impedendole di distinguere con facilità sia lo stesso dio sia i suoi ministri. Solo che c'era una figura di statura più che umana avvolta in splendida veste di lino che portava nella mano sinistra un libro, e dopo avermi soltanto guardato dalla testa ai piedi due o tre volte, scomparve. Ella quando tornò in sé ancora tremante cercava di svegliarmi. Avendomi trovato senza febbre e gocciolante di sudore, fece atto di ossequio all'apparizione del dio, e detergendomi mi rese più lucido. E quando presi a parlare con lei ella decise di rivelarmi il prodigio del dio, ma io prevenendola le raccontai tutto per primo; infatti quanto ella vide con la visione io vidi in sogno. E cessatimi i dolori al fianco ed datomi il dio ancora una cura lenitiva, proclamai i suoi benefici".

*A Roma il primo del mese di gennaio gennaio si festeggiava la fondazione di due templi sull'Isola Tiberina [qui sopra].
Uno dei templi era dedicato all' antico dio Vediovis, l' altro al greco Asklepion, romanizzato in Aesculapius.
Il culto di Esculapio/Asclepio era stato introdotto a Roma nel 291 a.C.
In quell'anno la città era flagellata da una terribile pestilenza e i decemviri, dopo aver consultato i Libri Sibillini, decretarono che l' introduzione del culto di Esculapio di Epitauro '- divinità medica - avrebbe fatto cessare l' epidemia.
Ai pontefici toccò il compito di decidere dove e quando insediare il culto del dio Greco.
poiche non fu possibile ricevere da Epidauro il simulacro della divinità gli ambasciatori tornarono in patria con l'effigie di un serpente sacro attributo di Esculapio.
Secondo la tradizione romana, la divinità straniera doveva esser associata a un culto preesistente; fu per questo motivo che si stabilì di costruire il tempio di Esculapio sull'isola Tiberina dove già sorgeva quello di Vediovis, e di festeggiare il nuovo dio nel medesimo giorno.
In età tardoantica, con la cristianizzazione dell'impero, il tempio decadde e rovinò.
Tuttavia, in molti continuavano a frequentarlo per chiedere al dio taumaturgo grazie e guarigioni.
Vi praticavano l'antico rito dell'INCUBATIO, già caro a Esculapio: era una sorta di pratica divinatoria durante la quale i fedeli dormivano all'interno o sulla soglia del tempio e, attraverso i sogni che la divinità inviava loro, ottenevano rivelazioni e consigli per guadagnare la guarigione.
In seguito molte leggende medievali, soprattutto Vite di santi, presero a rammentare il decaduto tempio di Esculapio... 
[Marina Montesano, L'Isola della Salute, in "Medioevo" n.1, gennaio 1998]

da Cultura-Barocca

lunedì 16 aprile 2018

Sulla lenta evoluzione della Sanità

Dalla seconda metà del XVII secolo gli ospedali e la sanità pubblica risentirono di un lento ma costante progresso come si legge qui anche se la massima spinta di siffatta inevitabile evoluzione si colloca piuttosto nel pieno XVIII secolo e a riguardo di questo progesso l'apice si può porre soltanto in relazione ai provvedimenti determinati da Napoleone I e ripresi dai Governanti dopo la Restaurazione anche per tutelare la popolazione dall'avvento delle grandi epidemie
Ma la popolazione dei centri rurali che non sempre poteva contare sulla presenza di medici e sulla tempestività della sanità pubblica doveva ricorrere all'empirismo o a formulari acquisiti durante i contatti avuti con i medici o gli speziali = quanto tardo questo manoscritto nominato Manoscritto Wenzel [che ha sostanzialmente l'aspetto del "libro da speziali" (farmacisti)] e vi son state raccolte molte ricette utili, tra fine '700 e primi '800, terapie contro patologie ordinarie (vedi Indice)
quanto terapie (e provvedimenti di profilassi) in caso di gravi epidemie (peste e all'epoca specialmente colera =vedi Indice)
spesso integrate da competenze di una conoscenza empirica risalente attraverso i secoli a tempi immemorabili = per intendere voci antiche e poco comprensibili si è inserito sia il collegamento "medici, medicina, strumentazione, morbi e malattie" come anche il collegamento aromatario, erborista, fitoterapia, piante curative, terapeutiche e il collegamento oasi botaniche = con particolare attenzione alle oasi del Monte Baudo nel veronese, Sassello/Pontinvrea (SV) e dall' Estremo Ponente Ligure sin a "Gouta" (IM).
Una lettura attenta del Manoscritto Wenzel - FOGLIO n.n., per esempio in relazione alla Tavola delle Morti Apparenti (vedi l'immagine) - nessuna bibliografia citata - renderà facilmente edotti su quanto fosse distante la medicina epocale da quella attuale, pur affermandosi giudizi nuovi e nuove valutazioni razionaleggianti in merito a quanto ancora da alcune postazini veniva ritenuto preternaturale (e contro cui oltre che coi rimedi possibili dell'antica medicina si combatteva ancora -specie ma non solo ad opera dei ceti meno abbienti- con la superstizione e l'esoterismo delle "macchine di parole", degli "alti nomi scritti", dei "cartelli apotropaici" ecc. ecc.).
Ma all'epoca del Manoscritto Wenzel, tra fine '700 e primi '800, molti timori e superstizioni erano ancora presenti a livello popolare dal tema dei segni della morte e della vita sin alla semplice esperienze quotidiane dell'esistenza di maniera che [fenomeno aggravato dal basso livello dell'istruzione dei ceti popolari e non abbienti oltre che, in particolare, delle donne specie di umile stato ]realmente laddove " avrebbe potuto fiorire la vita spesso dominava la morte prematura magari rinunciando per ingiustificato terrore a valersi di prodotti salutari ma reputati diabolici come -pare strano ma coincide con le stranezze dei tempi- nel caso di quell'innocuo ma anzi straordinario e generoso tubero che è la patata (vedi) " ma anche del pomodoro senza tener conto che molto cammino si sarebbe dovuto ancora fare, specie in determinate aree culturalmente assai depresse anche per scelte ed incurie governative, per esempio nell'utilizzazione di medicine efficaci come -contro la piaga della malaria- il chinino, addirittura giudicato, talora, intruglio da diabolici untori: il cui terrore, tragico retaggio (ma non soltanto) della seicentesca e "manzoniana" peste di Milano non era stato ovunque stornato ed anzi in certi casi diffuso a fronte di pandemie per scelte anche politiche di controllo su masse rurali culturalmente lasciate assai depresse come soprattuttutto nel Regno delle Due Sicilie
Temendo quindi la resistenza di ataviche costumanze e terrifiche convinzioni specie in ambiente agricolo e rurale e comunque nell'auspicio che i fermenti del "nuovo mondo" e del "nuovo sapere" alimentati dal pensiero illuministico, dalla Rivoluzione di Francia e dalla stessa esperienza napoleonica per quanto non priva di problematiche varie
[ma scolarizzazione e istruzione pubbliche per fortuna destinate, relativamente presto, a progredire anche dal punto dell'organizzazione pubblica e statale (pur passando spesso attraverso una scuola pubblica di matrice ecclesiastica ma organizzata come a Pompeiana (IM) dagli aderenti alla Confraria dello Spirito Santo che con tutti i limiti ma anche i pregi che si possono individuare nel
Regolamento qui leggibile e accorpato al Cartulario Generale della Pubblica Scuola
testimonia la volontà dei capofamiglia di fornire ai figli una acculturazione quantomeno adeguata alle esigenze della vita di relazione di tempi nuovi anche per le popolazioni rurali) si sarebbero rivelate dopo secoli bui di istruzione privilegiata per i ceti abbienti e interdetta/limitata/condizionata per le donne un indiscutibile risultato del "Nuovo Regime" ].

L'autore del Manoscritto Wenzel (vedi) stese pure con estrema cura a fianco delle terapie contro le patologie ordinarie e le possibili pandemie (vedi elenchi di voci) la registrazione di varie nuove normative e di altre proposte di legge in merito di sanità ed igiene pubblica compresa appunt la già citata ed assai ben esplicata dati i tempi carta delle Morti Apparenti (leggi qui il testo): su quest'ultimo tema la documentazione - integrata anche dalla consultazione di alcuni importanti testi antichi e non di medicina - sulla necessità di riforma dei Cimiteri
(e contestualmente del lugubre rituale cerimoniale delle inumazioni, sublimato dall'uso della "seggetta della morte" o "portantina funebre")...

da Cultura-Barocca

martedì 10 aprile 2018

Sul banditismo sociale post-unitario

Carmine Crocco - Fonte: Wikipedia
... Nel Sud d'Italia il banditismo sociale assunse in effetti la tipologia di una sorta di "una rivoluzione di masse e di una guerra di liberazione guidata da banditi sociali".
La situazione del Meridione nella crisi dell'unificazione attribuì al banditismo sociale meridionale caratteri specifici pur sotto il lato politico. La forza d'urto dei banditi e la mancanza di ogni programma a lunga scadenza resero tale forma di banditismo uno strumento efficace nelle mani di partiti e classi sociali meglio inserite nel contesto produttivo moderno. Così tale forma di "delinquenza organizzata" divenne nel Meridione un aspetto basilare dello scontro a tre che si giocava fra moderati, raclicali e borbonici.
L'energia del brigantaggio non sarebbe stata efficace senza la rete di complicità che coinvolgeva tutti i ceti del paese.
E' tuttavia possibile che all'interno di tale rete un ruolo fondamentale sia stato svolto dagli "stati intermedi contadini" attratti dall'idea di una gestione ad essi giovevole della questione demaniale ed anche ad una ripresa della lotta politica.
La partecipazione degli stati intermedi contadini a molte "reazioni" fu effimera.
Tuttavia anche se siffatti strati sociali, sempre in balia di speranze, delusioni e rancori, collegati alle vicissitudini delle operazioni demaniali, non scesero in campo apertamente in favore del brigantaggio, gli fornirono, sin alla fine del 1863, un buon appoggio, che, seppure insieme ad altri aiuti, giustifica la sopravvivenza delle bande e il loro rinascere dopo sconfitte pesanti, il loro abituale vantaggio nella sorpresa, e, contemporaneamente, l'isolamento dell'esercito nella sua opera di repressione, la titubanza delle guardie nazionali ed ancora le perplessità nello schierarsi dei "galantuomini".
Questi strati intermedi contadini sono da identificarsi con quella " parte del corpo sociale" che, come scrisse nel 1860 (20 dicembre) "Il Popolo d'Italia", "...è formata fra noi dai mezzadri e piccoli proprietari e fittavoli agricoli".
Ai medesimi strati si riferisce Giustino Fortunato ("Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano. Discorsi politici", 1880 1910, vol. I, Laterza, Bari, 1911, pp. 85 - 86), cui attribuisce la colpa de "la ormai quasi totale esclusione dei municipi dei maggiori censiti, la dannosissima incentiva dei privati domini, quella nube di non so quale sospetto, che involge quasi dappertutto, l'ordine e il progresso della prudenza territoriale... Da qui il sobillare indefesso dell'orecchio dei contadini, così proclivi alla credulità, per diritti o realmente o bugiardamente conculcati, di falsi tribuni gaudenti a spese del gravoso bilancio comunale; le occupazioni a mano armata".
In questo contesto la repressione del brigantaggio postunitario rientrò in un'azione politica complicata e comunque volta ad impedire lo stabilirsi di un legame fra insurrezione contadina e movimento radicale. Non è casuale che l'anno 1863 segni il graduale distacco fra strati intermedi contadini e brigantaggio, e l'accentuarsi della crisi politica della sinistra .
Nei tempi intermedi fra le "reazioni" dell'autunno 1860 e l'arresto di Josè Borjes comandante legittimista catalano, che guidò parzialmente il brigantaggio dal settembre I86I e che fu poi catturato e fucilato a Tagliacozzo l'8 dicembre (1861), il brigantaggio acquisì carattere politico in senso borbonico.
Le "reazioni" dell'autunno 1860-inverno I861 furono infatti sostenute dallo spodestato Sovrano borbonico Francesco II, cui lo Stato Pontificio aveva concesso il proprio territorio come utile base operativa.
Nei mesi iniziali del 1861 forti bande operavano al comando di Giovanni Piccioni nell'Ascolano, di Angelo Camillo Colafella nel Chietino, di Chiavone (Luigi Alonzi) al confine pontificio, di Carmine Crocco ex bracciante dei Fortunato e Ninco Nanco, alias Giuseppe Nicola Summa, in Basilicata.
La lotta governativa avverso le bande armate acquisì in breve tempo subito connotati assolutamente militari.
Il 23 ottobre Fanti sentenziò la competenza dei tribunali militari straordinari per i briganti e quanti opponessero resistenza con le armi; nel mese di novembre vennero proclamati in stato d'assedio vari comuni della provincia di Teramo.
Contemporaneamente taluni militari quali il generale Pinelli presero ad esercitare pressione affinché si estendesse la pena capitale tramite fucilazione agli insorti sorpresi in armi ed ai sobillatori.
Il generale Giacomo Durando, succeduto al Della Rocca a capo del VI corpo d'armata destinato al Mezzogiorno, ottenne, nel giugno 1861, un aumento da 51 a 57 battaglioni potendo quindi disporre di una forza complessiva di circa 20 mila uomini.
Nonostante la consistenza di queste forze fu praticamente impossibile arginare nell'aprile 1861 la sollevazione avvenuta in Basilicata sotto la guida di Crocco e con l'ausilio dichiarato dei contadini e di svariati proprietari terrieri: l'evidente colore politico dell'impresa fu segnato pubblicamente dal fatto che le forze banditesche, in grado di conquistare basi importanti come Venosa e Melfi, marciavano sotto le insegne della vecchia bandiera dei Borboni.
Nelle settimane successive il brigantaggio si spinse apertamente contro i liberali in Irpinia, Capitanata, nel Casertano dove operavano le bande La Gala, forti di circa 300 uomini cui si erano aggregate formazioni minori.
All'ingresso vittorioso dei banditi, in vari comuni fu ammainata la bandiera sabauda e innalzata quella borbonica: si ebbero gesta criminose, vendette private, addirittura si instaurarono governi provvisori.
In dipendenza di tutto ciò la risposta governativa non si fece attendere sul piano militare di repressione.
Nell'estate 1861 le truppe regolari procedettero ad una scientifica distruzione dei paesi ribelli, con le fucilazioni in massa degli abitanti.
A Gioia del Colle, in seguito ad uno scontro cruento, i regolari procedettero quindi all'uccisione di 100 popolani ed alla fucilazione di un'altra ventina il giorno seguente.
Nella primavera-estate di quell'anno tutto il Sud d'Italia giaceva in una situazione drammatica, aggravata dall'improvvisa morte di Cavour i cui successori, per quanto mossi da buoni intenti, non godevano certo delle stesse qualità sì da lasciare perplessi sui futuri destini di queste vaste regioni dell'Italia appena unificata.
Il nuovo governo presieduto da Bettino Ricasoli che ebbe il dicastero degli esteri, risultò composto: da Minghetti (interno), Bastogi (Finanze) Peruzzi (lavori pubblici), De Sanctis (istruzione), Miglietti (grazia e giustizia), Cordova (agricoltura e commercio), Menabrea (marina), Delia Rovere (guerra).
Quando il generale Cialdini giunse a Napoli verso luglio, ottenne che una buona parte dell'esercito italiano schierato sul Mincio fosse trasferito nel Sud: in questo modo i 22.000 soldati di Fanti divennero entro pochi giorni quarantamila e raggiunsero la cifra di cinquantamila verso la fine dell'anno. In un biennio il loro numero venne raddoppiato, di modo che nel 1863 il Gran Comando del La Marmora poteva mettere in campo truppe per il considerevole numero di 105.209 uomini, vale a dire l'equivalente dei due quinti di tutte le forze armate di cui disponeva l'Italia.
Cialdini progettò l'ideazione di un'alleanza coi democratici per combattere insieme la reazione borbonico-clericale e contestualmente reprimere con efficacia il brigantaggio.
Pantaleoni meglio di tutti espose la situazione in un rapporto al Minghetti, nel quale, riflettendo il punto di vista dei moderati, scriveva: " La deferenza che Cialdini mostra per Nicotera, Fabrizi, Tripoti non piace troppo... Nel resto Cialdini è popolare. Non così De Blasio il quale a farsi una popolarità pare che ci minacci di una tale infornata di impiegati quasi tutti del partito d'azione " .
Le guardie nazionali stanziali vennero affiancate da guardie nazionali mobili, almeno due per distretto: il loro arruolamento fu realizzato senza distinzioni a sinistra ebbe grande successo, sì che in pochi giorni si presentarono circa 600 ufficiali garibaldini, e a Napoli in soli due giorni 8000 volontari. Entro il 14 del mese di agosto erano state create 69 compagnie che insieme ammontavano a decine di migliaia di uomini, il meglio, in pratica, del volontarismo meridionale unitario di estrazione borghese e piccolo borghese.

da Cultura-Barocca

mercoledì 4 aprile 2018

I Martiri Tebei

Con la denominazione di TEBEI (argomento che ha sempre appassionato i ricercatori: come si vede da questo volume del '500) si indicano solitamente i MARTIRI TEBEI cioè i soldati dell'esercito romano coscritti nel contesto geopolitico, ai tempi della Tetrarchia, della provincia tebana in Egitto: sulla cui tragica vicende molto si è dibattuto, anche in tempi remoti, per esempio già nel IV secolo d. C. dallo scrittore ecclesiastico S. EUCHERIO D'ARLES.
Il patrono ventimigliese S. SECONDO venne appunto in Italia come uno degli ufficiali della legione tebea, di cui SAN MAURIZIO era comandante generale.
Una ricorrente, ma non generalmente condivisa interpretazione storica, che la legione tebea sia stata trucidata ad AGAUNO nella Svizzera, per non avere voluto partecipare, trattandosi in massima parte di soldati ormai convertiti alla religione cristiana, ad un sacrificio idolatra imposto dall'imperatore romano Massimiano, prima di muovere guerra ai Bagaudii.
E' generalmente sostenuto che che SAN SECONDO sia stato ucciso prima dell'intera legione, "ante beatum Mauritium et ceteros post vincula et carceres".
Rinaldi nei suoi Annali dice "prima che l'esercito andasse oltre i monti", come pure il Baronio, "antequam Alpes superasset romanus exercitus".
La legione tebea da Vercelli dovette transitare per Vittimulo, prima di proseguire per Ivrea e Aosta fino ad AGAUNO ove fu perpetrato l'eccidio di massa.
La prima tappa dopo Vercelli dovette effettuarsi a VITTIMULO, perché a passo di marcia, difficilmente l'esercito avrebbe potuto raggiungere in un giorno Ivrea.
A Vittimulo vi doveva sicuramente esistere uno di quei tanti posti rifornimento di viveri e di sosta per la notte, fondati e disseminati da Augusto in tutto l'Impero Romano, chiamati comunemente mutationes-mansiones.
San Secondo non vi giunse però come uno dei comandanti, ma in catene, per aver osato professare apertamente la sua fede. Scadeva anzi il quel giorno, narrano le sue Passio, il tempo concessogli per ravvedersi; ma il suo credo in Cristo non venne meno e la sua testa cadde sotto la spada del boia.
Il Cristianesimo riceveva in quel giorno il suo battesimo di sangue anche nel Biellese: esempio per i soldati-cristiani tebei e probabilmente anche per la piccola comunità cristiana di Vittimulo, che raccolse le spoglie del martire e le conservò come una reliquia.
Il discorso sulla VALENZA CULTUALE (E GEOPOLITICA) dei MARTIRI TEBEI (ed aggiungiamo noi di MARTIRI PSEUDOTEBEI) ai fini del necessario fenomeno di RICRISTIANIZZAZIONE di vaste aree territoriali in Liguria e Piemonte (sia dopo le scorrerie saracene che certe conseguenti o contemporanee devianze eterodosse) è stato sviluppato recentemente con acume e molto coraggio da Gianni De Moro.
E' ormai assodato, soprattutto dopo gli studi della Nada Patrone, la necessità che ebbe la Marca ardunica di affidare ai grandi monasteri pedemontani un ruolo essenziale sia per la riorganizzazione dei territori sia per la soluzione dei molteplici problemi di scollegamento spirituale che vi si erano sviluppati.

Contestualmente, visto anche che da un lato, per quanto sconfitti, i Saraceni continuavano, operando per bande organizzate, a costituire un pericolo soprattutto sotto forma di brigantaggio e che, d'altro canto, le devianze dei pravi homines interagivano con altre esperienze anticattoliche, la rivitalizzazione del cristianesimo con l'impianto di un rassicurante culto per santi guerrieri parve (e probabilmente fu) una soluzione ottimale, grazie -come detto- alla "forte spinta promzionale" prodotta dai monasteri pedemontani.
Nel contesto di queste acquisizione il culto dei Santi Martiri Tebei, con tutte le divagazioni agiografiche e storiche che finì col comportare, fu una fra le più significative opzioni.
S. MAURIZIO, il Dux Thebaeorum, assieme ai suoi compagni di martirio aveva la strutturazione emblematica per sorreggere l'idea di un cristianesimo rinnovato, forte e militante.
Parimenti era significativo il fatto storico della devastazione operata dai Saraceni contro il Santuario dei Tebei ad AGAUNO verso il 940.
La spedizione punitiva da parte dell'offesa Cristianità non s'era fatta attendere: nel 954 venne infatti portata avanti una spedizione antimusulmana sotto le insegne di S.MAURIZIO come scrive il Ducis e gradualmente prendono vigore, dopo la sconfitta saracena, tutte quelle figure della tormentata vittoria cristiana, in un modo o nell'altro connesse cogli invasori: così S.Maurizio e S.Dalmazzo (i cui santuari eran stati devastati dagli infedeli) oppure S. Bernolfo vescovo d'Asti, S. Benedetto vescovo d'Embrun, S. Teofredo o Chiafredo diversamente ma tutti comunque vittime degli invasori islamici (De Moro (p.128).
In definitiva, seppur con modalità alquanto diverse, per la ricristianizzazione delle aree desertificate spiritualmente, oltre che sotto il profilo demografico e socio-economico, si fece ricorso ad un espediente già collaudato ai tempi della lotta del Cristianesimo coi culti idolatrici cioè con una serie di sovrapposizioni cultuali cui non era estranea l'introduzione del culto per vigorosi santi cristiani di matrice guerriera.
L'indagine sulla geopolitica che dopo la crisi di X-XI secolo contribuì, parimenti, alla propagazione del culto ligure occidentale dei TEBEI, per quanto completabile sulla scorta di altre indagini, si distribuisce armonicamente: troviamo esempi importanti del culto mauriziano nei titoli parrocchiali di PORTO MAURIZIO, di CONIO e di RIVA LIGURE, nell'altare della chiesa parrocchiale di TORRIA, nell'OSPEDALE DI SANREMO, nella CAPPELLA DI CASANOVA LERRONE e più genericamente in un culto per S. Maurizio menzionato nell' AREA DI VALLEBONA.
Accanto a quello per SAN MAURIZIO si può menzionare per l'estremo ponente il culto per S. SECONDO particolarmente nella scomparsa CAPPELLA DEL VALLONE DI SAN SECONDO e quindi in merito all'ORATORIO DEI NERI e a due altari della CATTEDRALE in Ventimiglia medievale...