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Genova - Palazzo Ducale |
...il
Romano Canosa,... riproduce lo stralcio di una "
rappresentazione del 1696 fatta dai
Protettori alla
Signoria laddove risulta il rispetto di questa "
formalità" da parte dell'Inquisizione: "
...benché
ne habbia procurato alteratione il Padre Inquisitore precedente, ora
Commissario del S. Ufficio in Roma, è stata religiosamente osservata, in
quanto si è potuto scorgere, dal padre Bertucci, inquisitore moderno" (Archivio di Stato di Genova,
Archivio Segreto, busta 1404).
Proseguendo la lettura del
Canosa pp. 191 e segg.
si evince tuttavia che se per questo verso le cose procedevano secondo
le aspettative "altri aspetti del funzionamento del tribunale
preoccupavano il governo della Repubblica".
Quella più citata risulta essere la questione delle
Consulte
vale a dire "l'esame finale da parte dei giudici e dei loro consulenti
giuridici e teologici, tipico di tutti i processi inquisitoriali" che
stando alla mentovata "
rappresentazione" dei
Protettori del Santo Ufficio più non si tenevano a Genova "
non
solo ne' termini che si praticava anticamente, ma nemmeno nelle
formalità che anche nello stato più depresso anteriore all'ultimo
aggiustamento era introdotta".
Come ancora scrive il
Canosa, p. 192 "Il posto della
Consulta
come luogo di decisione delle cause era stato preso dagli ordini
ricevuti da Roma che stabiliva per tutti i processi inquisitoriali
qualità e quantità delle pene che il tribunale avrebbe dovuto
infliggere".
Il pontefice, direttamente coinvolto nella questione, non pareva esser rimasto insensibile all'osservazione dei
Protettori per cui siffatto cambiamento operativo risultava apertamente in contrasto al "
...dovere
e alla buona consuetudine, pregiuditiale ai processati, gravoso ai
popoli, distruttivo della sostanza del tribunale e disdicevole a molte
convenienze pubbliche": per siffatta ragione il papa, a suo dire, avrebbe "
studiato di dare alla repubblica tutto quel maggior gusto che havesse potuto".
E verisimilmente, proprio per calmare le acque e dare sostanza a questa
pontificia affermazione, il nuovo Inquisitore ecclesiastico di Genova
tenne una
Consulta in occasione di un procedimento abbastanza importanta,
Consulta cui presero parte con altri Francesco Maria Doria, Francesco Maria Lercaro, i
Magnifici Nicolò Passano e Marc'Antonio Gentile oltre ai
Protettori Gio. Batta Centurione e Agostino Saluzzo.
Evidentemente si era trattato di un momentaneo accorgimento per tacitare
le rimostranze genovesi atteso che il Padre Inquisitore, nei processi
successivi, ripristinò la nuova metodologia, che comportava in pratica
lo svolgimento dei processi a Roma
e che coimplicava vari elementi negativi come una lunga carcerazione
degli inquisiti e, indubbiamente, la violazione dei diritti dello stato
genovese.
A confortare siffatta situazione storica
Romano Canosa, p. 192 riprende i termini di una "
Relazione" congiuntamente realizzata nel 1696 dai
Protettori in collaborazione coi membri della
Giunta di Giurisdizione: nel documento si faceva rilevare come da oramai 18 anni la
Consulta non veniva di fatto più praticata "
anche omessa quella pura apparenza che si pratticava nello stato più depresso, cioè a dire la formalità della Consulta e di inviarla a Roma per la decisione".
A fronte di queste proteste i componenti dei due organi
politico-amministrativi erano ben consci delle difficoltà tanto del
problema quanto dei correttivi da individuare: si ipotizzò, non senza
tremore, di frapporre, qualora Roma fosse rimasta sorda ad ogni querela,
degli impedimenti alla cattura degli inquisiti da parte del Santo
Ufficio.
Il tremore indubbiamente derivava dalla consapevolezza che la Santa Sede
avrebbe potuto contestare a Genova non solo di ostacolare i servizi del
Tribunale dell'Inquisizione ma anche di favorire l'impunità a fronte di
delitti e crimini di indubbia gravità.
Tentando di mediare in un campo così delicato, e soprattutto a
contestazioni patibili da Genova in merito alla seconda possibilità,
nella citata "
Relazione", vagliando come in campo religioso sempre meno frequenti fossero i reati di mera
eresia a fronte di quelli di
misto foro, si ipotizzò apertamente di estendere le competenze del
Magistrato degli Inquisitori di Stato, "
...ampliando
anche l'autorità che detti Signori Inquisitori tengono contro quei che
nelle chiese commettono qualche delitto ad altri simili che possono
riguardare il serviggio di Dio anche fuori delle dette chiese".
A questo punto come ragguaglia ancora il
Canosa, p. 193 sopravvenne il
caso Dupuis,
l'arresto cioè di un prete francese tale Giacomo Dupuis che fu fatto
arrestare e quindi venne condannato dal Tribunale dell'Inquisizione a
7 anni di remo per essersi macchiato del crimine di
poligamia: tutto era avvenuto attraverso le gerarchie ecclesiastiche e lo Stato genovese non vi aveva avuta alcuna parte, anche i
Protettori non erano sati interpellati ed erano di fatto stati relegati al ruolo di "
semplici testimoni alla sentenza pubblicata, già determinata a Roma".
Il
Canosa, p. 193
riassume abilmente la stringente protesta della Signoria, comportante
un ulteriore sospetto, che cioè alla base di ogni decisione "potesse
esservi stata "
...una intenzione sinistra della Congregazione di
voler ridurre ad una pura formalità ciò che si è consentito da Roma per
mero atto di necessità alla Repubblica, di riconoscere dalla lettura dei
processi se sia stato fatto alcun pregiudizio nei medesimi ai suoi
sudditi. Un
veemente sospetto di ciò era costituito dal fatto che
havendo
cercato qualche volta loro Eccellenze di venire un giorno prima della
sentenza alla lettura dei processi, sotto vari pretesti l'Inquisitore lo aveva impedito".
A questo approccio seguì un'azione più decisa della Signoria intenzionata a non palesarsi in merito al
caso Dupuis troppo remissiva di rimpetto alla Santa Sede.
Da un lato al Padre Inquisitore fu fatta pervenire una "Lamentatione" ufficiale in cui il Governo di Genova palesava le sue "
perplessità"
in relazione a tale vicenda giudiziaria ed agli inconvenienti che aveva
comportato: soprattutto ponendo l'accento sul processo deciso a Roma e
sull'assenza di una
Consulta.
Per altro verso ("Istruzione" del 1698 in Archivio di Stato di Genova,
Archivio Segreto, busta 1404) allo Spinola, plenipotenziario genovese a Roma, si commise l'obbligo di interpellare lo stesso
pontefice in merito a tante carenze procedurali e formali, non esclusa certo la mancata convocazione dei
Protettori
trattati in modo, come detta la stessa "Istruzione", che "...non si dà
loro notizia non solamente delle qualità, ma nemmeno del nome e cognome
del reo e si rappresenta loro il caso solamente in abstracto, dove
all'incontro gli Eccellentissimi Protettori, oltre la notizia che hanno
della persona prima di concedere la cattura, devono anche intervenire
alla lettura dei processi offensivi e difensivi prima della
pubblicazione della sentenza".
Il
papa
alle interpellazioni dello Spinola rispose, come era nel suo carattere,
in maniera benevola affermando che rientrava nei suoi voti che le cose "
camminassero in quell'ordine in cui erano per avanti, non essendo egli amico d'impegni per intraprendere novità".
Non si allontanò da questo formula abbastanza vaga e lasciò di fatto
che lo Spinola trattasse l'annosa questione con il cardinale Spada e con
la stessa Congregazione del S. Ufficio.
Il plenipotenziario genovese in Roma si trovò così in qualche
difficoltà, non tanto per i rapporti con lo Spada, ma per
l'atteggiamento evasivo, per quanto cortese, del Commissario Generale
del S. Ufficio che nel corso di un'udienza gli rassegnò come,
dall'analisi personale che aveva fatto delle carte sottoscritte nei
tempi pregressi, nulla risultasse di sostanziale in merito alla tesi
genovesi sulla "tassativa assistenza ai procedimenti inquisitoriali dei
Protettori".
Per sua sfortuna lo Spinola non aveva molto materiale diplomatico di cui avvalersi nelle sue dispute diplomatiche.
Praticamente il solo documento concreto su cui poteva far conto era il
concordato del 1678 stipulato da Genova con
papa Innocenzo XI in merito al quale "
non potea dubitarsi che la Congregazione havesse havuta presente questa convenienza della Repubblica".
A fronte delle difficoltà che l'abile diplomazia romana gli poteva far
sorgere contro, lo Spinola ritenne possibile cercare un scorciatoia di
comodo reciproco e per questo, come ancora annota il
Canosa, p. 194 e note 4 e 5, propose al suo Governo (lettera del 28 giugno 1698) di adottare per l'
assistenza alle Consulte dei
Protettori una formula pressoché identica a quella ideata per la loro
assistenza ai processi che dettava sia "
ad arbitrio della S. Congregazione" quanto "
ad arbitrio del padre Inquisitore".
La soluzione non dovette piacere alla Signoria se questa gli rispose
indirettamente di far altra cosa, cioè di prendere tempo e di formulare
una strategia che mirasse principalmente a che "
si levasse di mezzo il disordine di farsi in Roma le sentenze contro degli inquisiti".
Fatti estranei al contenzioso tra Genova e Roma determinarono una pausa
nelle trattative: il Sant'Uffizio si era imprevedibilmente trovato di
fronte ad altra e più seria questione, che comportava un'aspra
controversia tra l'arcivescovo di Cambray ed il vescovo di Meaux.
Ed anche dopo che la questione fu risolta, tra la Repubblica e la Santa
Sede intercorse un periodo di silenzio, bruscamente interrotto da un
fatto non tanto di ordine diplomatico o giursdizionale quanto piuttosto
legato alle contingenze della vita: la morte del
Bertucci, Padre Inquisitore in Genova, avvenuta nel 1701.
L'evento luttuoso tuttavia, dati il rilievo e la pubblica funzione del
defunto, comportò una serie di problematiche di ordine formale e
diplomatico.
In primo luogo si pose il problema della partecipazione o meno dei genovesi
Protettori
alle esequie solenni da tenersi nella chiesa di San Domenico in Genova:
ed al riguardo il Vicario del Sant'Ufficio aveva avanzata un'esplicita
richiesta.
Fu a tal punto che il Governo indusse i
Protettori a scrivere, a Roma, a Filippo Cattaneo, il "
gentiluomo" che al momento andava seguendo le vicende del Sant'Ufficio per conto di Genova, perchè s'adoprasse "
con la destrezza e prudenza sua propria" al fine che venisse nominato per Genova un nuovo Padre Inquisitore che potesse "
riuscire di pubblica soddisfatione".
Questa richiesta, unita al fatto che in fine della storia i "Protettori"
non presenziarono alla cerimonia funebre per il Bertucci, va a
formulare un bilancio abbastanza enigmatico ma comunque di sostanziale
incertezza e perdurante tensione in merito ai rapporti intercorrenti
ancora tra Genova e Congregazione.
E del resto che il vecchio
concordato di Genova con Innocenzo XI si reggesse su una linea di precari equilibri lo si potè dedurre abbastanza presto, quando nel 1711, quando i
Protettori furono messi al corrente dal Vicario del S. Ufficio che il Padre Inquisitore di genova Corradi non si riteneva in dovere di "
somministrare" loro il procedimento avverso un
sacerdote accusato di
sollecitazioni in
confessione.
Atteso il diniego non mancò risentimento ufficiale del Governo che
incaricò ancora Filppo Cattaneo di affrontare la questione trattandone
con il cardinale Del Giudice che faceva parte della Congregazione del
S. Ufficio ma che, notoriamente, era filogenovese.
Le raccomandazioni al Cattaneo furono affidate ad un documento, riesumato dal
Canosa, p. 195 e nota 6, che tuttora si custodisce nell'Archivio di Stato di Genova,
Archivio Segreto,
busta 1404, contestualmente ad altre carte spettanti al Santo Ufficio e
comportante una serie di lamentele (con la segnalazione delle relative
indagini) avverso le procedure dell'Inquisizione genovese, ritenuta
responsabile di gravi dilazioni nell'uso delle carcerazioni preventive e
degli eccessi nelle spese imposte agli inquisiti.
L'"Istruzione" inoltrata al Cattaneo e da questi comunicata
personalmente al cardinale Del Giudice espressamente riportava un invito
a che il cardinale mettesse "
...nella dovuta attenzione il padre vicario presentemente [l'Inquisitore Corradi era nel frattempo morto]
ed
a suo tempo il nuovo soggetto che sarà eletto alla carica di
Inquisitore i quali, operando diversamente dal consueto, non potrebbero
doleri che di sè medesimi se non incontrassero nella Repubblica
Serenissima o sia nei detti Eccellentissimi Protettori tutte quelle
facilità et assistenze che sono state contribuite sin'ora con tutta la
pienezza in ogni occorrenza del Tribunale".
Il cardinale Del Giudice non rimase sorpreso delle richieste, di cui già
conosceva l'ideazione, come del pari già era al corrente della
successione degli eventi ed in particolare del fatto che il Governo di
Genova, spinto da eccessivo rigore, aveva con fretta ed una certa
mancanza di tatto, sostanzialmente estranei alla reale portata dei
problemi in essere, obbligato il vicario a raggiungere la sala in cui si
riuniva solitamente la
Giunta di Giurisdizione:
a suo parere la Santa Sede non avrebbe mai concesso che il Tribunale
dell'Inquisizione dovesse assoggettarsi ad un duplice controllo quello
legittimo dei "Protettori" e quello nuovo della "Giunta".
A parere del cardinale romano la scelta del defunto Inquisitore Corradi
aveva delle giustificazioni e non risiedeva in un volontario affronto ai
"Protettori" e quindi allo Stato: l'accusa era infamante, la colpa
sconveniente, il procedimento così particolare da rendere considerabile
l'esclusione della partecipazione dei "Protettori".
Gli argomenti scabrosi, di chiara
matrice erotica, coinvolgevano infatti
donne, monache, zitelle, creature strutturalmente fragili e comunque plausibilmente restie a denunciare le
molestie sessuali sapendo che queste sarebbero venute a conoscenza di due
Senatori della Repubblica.
Ragguagliando il suo Governo (Archivio di Stato di Genova,
Archivio Segreto,
busta 1405, lettera del 5/I/1712) il Cattaneo riassunse la sua linea
operativa basata sulla minimizzazione della possibile mancanza fatta al
Vicario dell'Inquisizione e soprattutto sul principio che secondo i
contenuti dei concordati ai "Protettori" non avrebbe dovuto esser
inibita la partecipazione a processi di simil genere. Tra l'altro, per
quanto ancora riportato dal
Canosa, p. 196 e nota 7, leggesi redatto dal Cattaneo: "
...Havendomi
il cardinale toccato per via di discorso che alli Eccellentissimi
Protettori vanno comunicate le informazioni e li processi solo nell'atto
della spedizione delle cause e della perfezione dei processi fiscale e
difensivo, et essendomi parso inculcasse alquanto fortemente un tal
punto, entrai in dubbio che per sorte non volesse additare non poter
pretendere quelle notizie che si sogliono esigere prima della
concessione del braccio
e che non hanno havuto riparo di communicare li Inquisitore precedenti,
et in ispecie il padre Bernardi. Perciò non giudicai furi di proposito
il segnare a Sua Eminenza e quasi in atto confidenziale da servitore e
da amico che passano seco, non come Cardinale della Congregazione, ma
come Padrone sì antico che per via di formalità non si pretendono altre
comunicazioni che le predette segnate dall'Eminenza Sua, ma che per
altro non si darebbe il braccio, se non si sapessero prima i capi del
delitto, le persone, et i fondamenti delle accuse per occasione di cui
si addimanda. Rispose il Signor cardinale che come della Congregazione
non poteva consentire una tal pretensione, la quale come contraria
all'indipendenza del Tribunale, doveva dalla medesima impugnarsi, ma che
come amico rispondeva che certi passi devono farli li Inquisitori da sè
e che, senza parlarne, è bene tirar avanti come si è fatto sin'ora".
da
Cultura-Barocca