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mercoledì 27 dicembre 2017

Circa le "Rimembranze intorno all'Oriente del Visconte di Marcellus"

 

Nel VOLUME III/2 della "Raccolta di Viaggi dalla Scoperta del Nuovo Continente Fino A' Dì Nostri" (1840-1844), 15 volumi in 8vo a formare un’opera in 18 tomi, compilata da Francesco Costantino Marmocchi per la casa editrice Fratelli Giachetti di Prato, si leggono in 2 volumi le "RIMEMBRANZE INTORNO ALL'ORIENTE DEL VISCONTE MARCELLUS". tra le PAGINE 383 - 457 si possono leggere queste NOTE INTEGRATIVE DEL 1839 (SEGNATE DA NUMERI PROGRESSIVI) SEPPUR APPORTATE CON MISURA E SENZA STRAVOLGIMENTI DEL TESTO PRIMIGENIO DEI PRIMI ANNI '20 DEL SECOLO DEL VISCONTE DI MARCELLUS E CORREGGERE EVENTUALI LACUNE SULLA BASE, IN PARTICOLARE PER LE PIRAMIDI, DELLE MODERNE ASSERZIONI DI HOWARD VYSE. IN RELATIVAMENTE POCHI ANNI GRANDI MUTAMENTI SCONVOLSERO POLITICAMENTE QUESTE CONTRADE E QUANTO A FATICA SI POTEVA VEDERE DIVENNE OGGETTO DI STUDI MINUZIOSI = LO STESSO VISCONTE DI MARCELLUS AFFERMA CON RAMMARICO CHE NELLA SUA RELAZIONE DI VIAGGI IN QUESTE CONTRADE COME QUI SI VEDE NON TUTTO POTE' OSSERVARE E NON SEMPRE FU ESATTO SI' DA ESPRIMERNE CON DISPIACERE, MA CON UNA ONESTA' INTELLETTUALE TUTTORA DA AMMIRARE E SU CUI RIFLETTERE, LE RAGIONI IN QUESTE PAGINE , CHE IMPLICITAMENTE DIMOSTRANO, PER SUA STESSA AMMISSIONE, QUANTO SIANO IMPORTANTI LE NOTE E LE CORREZIONI VARIAMENTE APPORTATE, DATO CHE FERMO RESTANDO L'ORGOGLIO PER LE PROPRIE GIUSTE AFFERMAZIONI NON SI PUO' CHE CONCORDARE CON IL PROGRESSO DI SCOPERTE E STUDI NUOVI, ANCHE SE FATTI DA ALTRI SENZA ANCORARSI A PRECONCETTI DI ANTISCIENTIFICA E TESTARDA TUTELA DEI PROPRI SCRITTI A FRONTE DI NUOVE CORRETTE POSTULAZIONI E SOPRATTUTTO SENZA PROCEDERE A CORREZIONI O RISCRITTURE, SPESSO VACUE QUANTO FRETTOLOSE E QUINDI VIEPPIU' DANNOSE, DELLE PROPRIE DICHIARATE SCOPERTE ED ASSERZIONI SI' DA POTERE, CON L'OVIDIO DELLA V ELEGIA DEL I LIBRO DEL SUO "DAL PONTO", POI SCRIVERE "VERGOGNA, SPESSO OVE I MIEI VERSI LEGGO/ MI PIGLIA, E DEGNO, A MIO GIUDICIO, ANCORA/ DI CANCELLARSI QUEL CH'IO SCRISSI, VEGGO;/ MA NON LO EMENDO; MOLTO PIU' M'ACCORA/ QUEST'OPERA CHE L'ALTRA..."


- NOTA I: CANALE DI ALESSANDRIA O DI MAHUMUDIEH
- NOTA II: LE PIRAMIDI DI GIZEH
[INTEGRAZIONE DI ALCUNE NOTE (A FONDO PAGINA IL RIFERIMENTO ALLE PAGINE DELLE ORIGINALI "RIMEMBRANZE") CON LA COLLABORAZIONE DEL MARCELLUS = DOPO L'AVVERTENZA PROEMIALE PRENDE SPUNTO LA DESCRIZIONE DELL'EGITTO DALLA QUI TRASCRITTA "LETTERA CHE, SU RICHIESTA DEL CALIFFO OMAR-EBN-EL-KATTAB FECE AL SUO LUOGOTENENTE IN EGITTO AMRU PER AVERE UNA PUR SOMMARIA RELAZIONE DEL TERRITORIO CONQUISTATO DAGLI ARABI: DOPO LA LETTERA DEL CALIFFO SI LEGGE QUI LA RICHIESTA RELAZIONE DI AMRU" LA QUALE SI CONCLUDE (SETTIMA RIGA DALL'ALTO) A QUESTO PUNTO LA CURATELA DEL LAVORO -IN MERItO A QUESTE NOTE- CONTINUA SULLA BASE DI OTTOCENTESCHE ASSIMILAZIONI FERMA RESTANDO LA POSTULAZIONE DEL VISCONTE DI MARCELLUS DI UNA PROVA LIMITATA AL NECESSARIO E SULLA CUI EFFICACIA E A MAGGIOR RAGIONE SULLA CUI ESASPERAZIONE HA DEI DUBBI GIA' MENZIONATI]
* - "TEBE"
- NOTA III: MEDIO ED ALTO EGITTO E LE OASI
- NOTA IV: ATENE
* - "CARTA TOPOGRAFICA DI ATENE ANTICA E MODERNA"
- NOTA V: "L'EUBEA E LE ISOLETTE VICINE"
EUBEA
ANDRO
SCIRO
IPSARA
- NOTA VI: "ESCURSIONE NELL'INTERNO DELL'ANATOLIA"
NIFI E KASSARA. FESTA DEL BAIRAM; CARAVANA
SARDI
ALASCAR, ANTICA FILADELFIA
TRIPOLI SUL MEANDRO
DEGNISLEH
ROVINE DI LAODICEA
ROVINE DI GERAPOLI SUL MEANDROMONTE CADMO
ROVINE DI CIBIRA
LA COSCRIZIONE IN TURCHIA
ROVINE DI AFRODISIA
GLI ZEIBEI - DISPUTA CON UN ULEMAS
SOLEIMANLEH, USCIAB, KADI
UN FACHIRO INDIANO
ROVINE DI ASANIA
ROVINE DI KUTAYEN ANTICA COTYLEUM
ESKI SCEHR, ANTICA DORILEA
LA TOMBA DI ERTOGRHUL - ORIGINI DELL'IMPERO TURCO
LE RIVE DEL SANGARIO
VEDUTA DI BRUSSA
INTERNO DI BRUSSA
I BAGNI DI BRUSSA
MONTE OLIMPO DI BITINIA
DECADIMENTO DELL'IMPERO TURCO
* - "CARTA TOPOGRAFICA DI COSTANTINOPOLI"
- NOTA VII: "ALCUNE DELLE COSE PRINCIPALI DI COSTANTINOPOLI"


da Cultura-Barocca

martedì 19 dicembre 2017

Le almé danzatrici

In Medio Oriente la tradizione delle danzatrici e delle cantanti spesso estemporanee è antichissima [il francese Visconte di Marcellus (che con l'inglese A. Burnes) fu tra i più grandi esploratori dell' Asia nel XIX sec. registrò ad es. la costumanza delle donne dell'isola di Rodi famose per improvvisare canti d'amore detti "Travondiesi"] ma come anche suggerisce questa RARA STAMPA d'epoca nulla poteva competere con la fama leggendaria delle ALME' = FRA CUI CELEBERRIMA FU GIUDICATA LA BELLISSIMA "ZOBEIDE" AMANTE DEL CALIFFO HARUN-AL-RASCID, le voluttuose danzatrici del Medio Oriente [il Cheshney nel testo appena riportato commentando la stampa parla sia delle almée che di altre danzatrici le gawazee in effetti con qualche discordanza rispetto alla realtà storica modernamente ricostruita = come appena scritto l' interpretazione moderna si distingue da quella sette-ottocentesca qui riportata: per essa infatti le "awalim (sing. alma), note in occidente attraverso il termine almée, che è di origine francese, sarebbero state donne o studiose istruite che scrivevano poesie, componevano musica, improvvisavano e cantavano e danzavano, seppur solo per le donne e non di rado suonavano anche uno strumento per accompagnare le loro canzoni giungendo ad ottenere gran reputazione proprio per la loro capacità di improvvisazione dei Mawal appunto canti improvvisati. Stando alle attuali acquisizioni il Chesney sembrerebbe qui riferirsi soprattutto alle gawazee (sing. gaziyah spesso tradotto con “zingara”) che si ritiene facessero parte di una Cabila o tribù di berberi o beduini del nord Africa e Arabia di cui non è chiara la provenienza (vedi qui integralmente digitalizzata l'opera Nozioni Preliminari intorno allo Stato Politico e Morale della Turchia necessarie per la completa intelligenza delle "Rimembranze" del Visconte di Marcellus e di qualunque opera relativa all'Oriente = Cap. dal Viaggio in Siria ed in Egitto di F. C. Volney e nello specifico dell'argomento trattato il capitolo "Idea degli Arabi Beduini" = vedi ancora qui sempre digitalizzati con indici moderni i Viaggi in Arabia di J. L. Burckardt) . Ritenute donne molto eccentriche (potevano esprimersi anche parlavano anche per via di una una lingua segreta, il sim) eran solite tingersi i capelli con l’hennè, truccarsi e delinearsi alla maniera delle donne classiche gli occhi con l’antimonio, indossando braccialetti, pendenti alle orecchie e portando cerchi d’oro al naso: recavano paecchi anelli alle mani e alle dita dei piedi e collane di perle al collo. Danzavano durante le feste, celebrazioni, per la strada o di fronte ai caffè e risiedevano in quartieri speciali della città. Ma non si dedicavano solo al ballo e al canto; esse esercitavano pure altre attività: oltre a contribuire all'animazione delle feste praticavano il disegno di tatuaggi, la preveggenza tramite conchiglie e sabbia, la lettura dei fondi del caffè e sapevano operare la circoncisione sui bambini = a prescindere dalle moderne constatazioni sugli "Zingari", reperibili on line sul Web, è da dire che
gli Zingari e le Zingare furono nell'età intermedia, a giudizio sia di Stato che di Chiesa, furono ascritti ai "diversi"
nel senso di mali homines e malae foeminae come qui si legge

all'interno dell'enorme silloge di Padre Lucio Ferraris assolutamente da consultare (sotto il profilo etimologico il Battaglia rimanda il lemma "zingaro" a "zingano" con cambio di suff. e per quanto riguarda "zingano" lo fa derivare dalla voce dotta medievale greca athigganos, nella forma popolare atoigganos = "intoccabile" che al plurale avrebbe indicato una setta di manichei frigi: è da precisare che un documento del 4 marzo 1283 emesso dalla magistratura veneziana dei Signori di Notte, che tutelava l'ordine pubblico a Venezia, in cui si ordinava di allontanare dalla città i "gagiuffi" (termine antico che deriva probabilmente da "egiziano" e significava quindi "zingaro" = vedi qui M. Cassese, La chiesa cattolica del Nord-Est ed il suo rapporto con gli zingari, in La chiesa cattolica e gli zingari, Roma, 2000, pagg. 85-119).
Al di là di queste considerazioni resta fuor di dubbio il fascino sensuale esercitato da queste cantanti e danzatrici = dal punto di vista storico l'autore propone qualche loro probabile enfatizzazione esotica rimandandone "l'invenzione" all'Antico Egitto dei Faraoni e a Semiramide = la regina sempre al centro delle riflessioni sulla voluttà e la tentazione suscitata dal corpo femminile]. Esse, a prescindere dalla varie possibili precisazioni, nella sostanza eran giudicate dall'epoca medievale -nell'ottica dell'intransigente anacoretismo cristiano delle origini e quindi dei controversisti antislamici- in qualche modo "EREDI" DELLA LASCIVIA E DELLA LUSSURIA DELLE DONNE PAGANE E COME QUESTE ELETTE A SIMBOLO DELLE "CONCUBINE DI BABILONIA" (onde esser per vari aspetti ritenute simbolo supremo della tradizione della provocazione femminile a peccato e lussuria tramite il canto e la danza -aspramente condannata anche dai controversisti cristiani e antislamici- nel mondo classico) = la stampa con il relativo testo è custodita entro il XVIII volume della grande silloge ("Raccolta di viaggi dalla scoperta nel Nuovo Continente fino a' dì nostri") realizzata dal geografo italiano Marmocchi per i tipi dell'editore Giachetti di Prato (1845) ove si trovano queste due opere qui digitalizzate e sunteggiate:
1 - "VIAGGIO NELLE CONTRADE DELLA MESOPOTAMIA DI CALDEA E DI ASSIRIA DEL COLONNELLO CHESNEY"
2 - VIAGGIO A MEROE E IN ETIOPIA DEL KOSCKINS

da Cultura-Barocca

martedì 12 dicembre 2017

E la Venere di Milo andò in Francia


Archeologia ed amori impossibili (ovvero quando l'amore per un reperto straordinario (la Venere di Milo) si coniuga con quello per una donna reale, Maritza la fanciulla più bella di Milo = a destra, accovacciata, mentre riempe d'acqua una brocca, nell'immagine, asseme alla cugina, da un quadro che, cosa straordinaria, non avrebbe dovuto esistere) ed entrambi sono irrealizzabili.

Qui si propone nella forma non attiva (ai più romantici la lettura di una gran bella storia d'altri tempi cliccando sul link) = "Aveva veduto le grotte, il teatro, l'antico Melos; aveva in mano la statua della Venere; i miei doveri, la mia curiosità erano stati soddisfatti" [scrive Marie-Jean-Louis-Charles-André di Martine Tyrac (1795-1861) Visconte di Marcellus in questo libro qui digitalizzato (ed. Giachetti di Prato).

Dove tra tante altre cose parla del suo tormentato acquisto per la Francia di Luigi XVIII della scoperta della leggendaria Venere di Milo (Milo fin al XIX secolo non particolarmente celebrata fra le tante isole del vasto arcipelago che integra il territorio continentale della Grecia) con un resoconto assai più esteso ma che vale l'impegno di analizzare intieramente [la scoperta data del 20 febbraio 1820 ad opera di un contadino di Melo tale Yorgos Kentrotas = quindi l'alfiere di vascello Dumont d'Urville -ragguagliato da un subalterno ufficiale Olivier Voutier che ne riconobbe il pregio- imbarcato sulla "gabarra" la Chevrette, con altre navi francesi da guerra, ancorata nel porto di Milo "all'epoca di questi scavi" e agli ordini del capitano di vascello Gauthier rimase colpito dell'evento sì da impegnarsi presso l'agente consolare francese Brest che "teoricamente" pensò di esser riuscito nell'impresa d'acquistarla (dopo averne chiesta l'autorizzazione con lettera del 12 aprile) per conto del marchese de Rivière ambasciatore a Costantinopoli, il quale intendeva donarla al re di Francia Luigi XVIII. il visconte Marcellus, segretario dell'ambasciata francese, appreso del rinvenimento si entusiasmò specie dopo averne visualizzato uno schizzo che il d'Urville aveva fatto della statua di maniera che ottenne di recarsi a Milo per assimilare a pro della Francia quanto rinvenuto pur imbattendosi subito in grosse difficoltà con grave disappunto espresse dal Brest, come scritto già convinto del buon esito dell' acquisizione ma al momento disilluso da imprevisti eventi (stante anche il fatto che dei reperti si era impadronito un monaco greco peraltro convocato sulla questione dal dragomanno dell'arsenale di Costantinopoli cui con tale dono antiquario intendeva liberarsi dell'accusa di irregolarità) sì da doversi impegnare in molte avventure prima di riuscire ad acquistare il tutto dalla riunita comunità dei primati di Milo aggiungendo altro denaro alla somma pattuita per la precedente vendita pattuita dal monaco greco con il dragomanno dell'arsenale di Costantinopoli.

E poter finalmente ammirare dal vivo quanto avrebbe trasportato giungendo ad esprimere la frase rimasta famosa "....Io non sapeva saziarmi di contemplare quella bellezza sovrumana...." = altre vicende riguardarono il trasporto ed anche insorte questioni burocratiche come in particolare problemi anche drammatici in cui incorsero i primi cittadini di Milo al modo che qui si legge di seguito da pagina 301 a pagina 302 = infatti se la vendita per nulla turbò i Turchi che non apprezzavano tali antichi reperti antichi specie se come la Venere mutilati giunse invece estremamente sgradita al citato dragomanno dell'arsenale che - ignorando la corrispondenza col Marcellus - fece arrestare e condurre a Sifanto i Primati di Milo, obbligandoli a inginocchiarsi, facendoli poi frustare innanzi ai deputati delle altre isole e condannandoli quindi all'ammenda di 7000 piastre per tale vendita.

Anche se subito, sollecitato dal Marcellus, l'ambasciatore francese ottenne dalla Sublime Porta una celere punizione del dragomanno, con la restituzione del maltolto agli abitanti di Milo e il categorico ordine a tenere per il futuro ben altro atteggiamento verso l'amica Francia: ma questò non bastò al Marcellus cresciuto con tal signore greco, Nicolaki Morusi, figlio terzogenito dell'antico principe di Moldavia e da cui avrebbe voluto una spiegazione de visu cosa che però non avvenne in quanto, nei fermenti del 1821 ormai esistenti tra la Grecia, avida di indipendenza, e la Turchia, il fratello maggiore di costui, principe Costaki Morusi recatosi in Costantinopoli dal Gran Visir più non tornò, verosimilmente ucciso, di modo che il fratello minore ne morì di dolore.

Relativamente più quieto, seppur non senza problemi, fu il destino della "Venere" che il 24 ottobre imbarcata a Costantinopoli sulla gabarra a Lionne raggiunse la Francia condottavi dallo stesso ambasciatore che ne fece dono a Luigi XVIII il I marzo 1821 anche se a lungo rimase nei laboratori del Louvre dovendosi decidere se restaurarla -addirittura proponendosi di utilizzare delle braccia, nei pressi, ritrovate ma per il Marcellus incompatibili con il capolavoro e frutto di un rozzo restauro cristiano per una "Panagia"- od ancora cosa poi, saggiamente, imposta dal Sovrano di lasciarla tale e quale sì da poter esser esposta nel Museo e divenire un'attrattiva per tutta Europa suscitando altrui ambizioni e presunti diritti altrui di possesso tra cui spicca il caso, qui documentato ma presto confutato, del Sovrano di Baviera]. Siffatta relazione del Marcellus è comunque, nella sostanza, molto simile sotto il lato scientifico a quanto, più sinteticamente, risulta redatto nell' Enciclopedia Treccani dell'Arte Antica: tuttavia nel resoconto di colui che fu con ragione nominato il "Winckelmann francese" compaiono anche aggiunte estranee alla moderna scientificità, e che sono in bilico tra archeologia, arte, romanticismo, sentimenti, nostalgia e segreti, ma che valgono la pena di essere lette e meditate = "...un capriccio, vò pur confessarlo, mi trattenne alcune ore di più a Castro. Mi rammentava delle belle sembianze d'una giovinetta di Milo della quale il signor Ender pittore tedesco, aveva arricchito il suo portafoglio. Questo bravo artista aveva ottenuto da un pilota imbarcato con lui il permesso di fare il ritratto di sua figlia, celebrata di già per rara bellezza: ma il vecchio greco, per paura dei Turchi e del serraglio" [ove, se ne si fosse vista la grazia estrema, avrebbe potuto esser costretta ad entrare a far parte del Serraglio del Gran Signore] " aveva voluto fare un patto, che quelle sembianze non si dovessero mostrare ad altri che ad Europei..."

Così, continuando nella narrazione, il Marcellus precisa che il pittore, onde salvaguardare la fanciulla, l'aveva effigiata contestualmente ai genitori sorprendentemente di sgradevole aspetto. La fanciulla a nome Maritza compare finalmente innanzi al Marcellus rimanendo per un certo tempo in sua compagnia: ed ai suoi occhi risulta davvero davvero splendida. L'esploratore e politico francese ne resta affascinato ed è colpito quando Maritza, per nulla vanitosa, "gli presenta, come di lei ancor più bella, una sua cugina che per quanto affascinante non gli pare però (pag. 310) al livello estetico di colei che ormai chiama la bella di Milo: il tempo tiranno, dopo i convenevoli di rito (che tuttora attestano con quanta malinconia il Marcellus si sia staccato da tal meravigliosa creatura) riporta il visconte francese sulla sua nave di maniera che delle due fanciulle nulla oggi d'altro sapremmo se una casualità non ne avesse propiziato il ricordo in modo più concreto che le parole, per quanto alate possano essere. Alla nota 2 sempre di pagina 310 il Marcellus ricorda infatti di aver contemplato altro quadro segretamente fatto dal pittore Ender e sempre nella stessa pagina, ma alla nota 3, gli editori ammettono, che, per curiosità dei lettori si son fatti premura di far realizzare a loro spese una copia perfetta di quel quadro in cui si vedono, a coronamento del libro e come sopra compare, sia la Maritza che la cugina            
Così capitò al Visconte di Marcellus, colui che acquistò la da poco scoperta Venere di Milo per Luigi XVIII di Francia, che amò quasi fosse viva pur sapendo di mai poterla avere per sè, e che nello stesso tempo fu irresistibilmente e romanticamente attratto da Maritza, figli di un pescatore di Milo, che per tante ragioni non potè avere al suo fianco che per un tempo tanto breve quanto struggente...

da Cultura-Barocca



mercoledì 6 dicembre 2017

La storia antica dell'Usura

Genova - Palazzo di San Giorgio
Mentre la Bibbia condanna l'Usura esercitata a danno della propria gente e non quella fatta a danno degli stranieri (Deutoronomio, 23, 19), nella Grecia Classica Aristotele non giustificava l'Usura in linea filosofica, giudicando la moneta quale mezzo di scambio senza spiegarsi che potesse dare dei frutti: in Roma antica l'Usura non comportava disapprovazione morale né provvedimenti di legge, visto che lo stesso suo nome si usava per indicare anche prestiti senza interesse (Cicerone, In Verrem, 3, 168). 

Nell'alto Medioevo, vista l'economia curtense e di sussistenza, data la quasi totale mancanza di liquidità per un mercato che quasi più non esisteva, l'Usura quasi scomparve come fatto economico; essa ricompareve con il riprendersi dei commerci e l'esigenza di liquidità, dopo il Mille, nel basso Medioevo. Nonostante le condanne ecclesiastiche l'Usura si diffuse largamente e non solo per i prestiti alla produzione (onde cioè intraprendere attività auspicabilmente produttrici di guadagni) ma anche, per le classi non abbienti, per i prestiti al consumo (cioè per la vita di sopravvivenza, dal comprare il cibo al pagare gli affitti) con la conseguenza di enormi indebitamenti delle masse popolari e rustiche. 

La condanna, di Chiesa e Stato, in questa società ove i prestiti erano ormai necessari per la produzione ed i commerci, ottenne il solo risultato di reegare l'Usura ad una clandestinità in cui si mascheravano gli interessi con espedienti di ogni sorta: erano diffusi la vendita con patto di riscatto (ove la distinzione tra prezzo di alienazione e di riscatto costituiva in definitiva l'interesse), la registrazione sotto forma di donativo dell'interesse estorto, la fissazione di una penale per ritardato pagamento (indicando nel protocollo di restituzione una data anteriore a quella di fatto convenuta). Lo Stato (a Genova, come a Venezia o Pisa) interveniva quando accertava queste irregolarità e si poteva perdere l'intero capitale: del resto gli Usurai erano ben consapevoli del fatto che il loro mestiere non fosse lecito e, per quietare la propria coscienza in vista della vita ultraterrena, aprivano conti destinati a "Domineddio" (in pratica ad "Opere assistenziali e di carità") o redigevano testamenti a favore di opere pie o per la realizzazione di opere pubbliche e d'arte (anche per questo la condanna ecclesiastica comportò la non ratificazione dei testamenti di usurai).

Nonostante le condanne di Chiesa e Stato l'Usura continuò ad essere praticata con successo, sì che i Dottori della Chiesa giunsero, con argomentazioni sottilissime, a distinguere tra il prestito ad interesse illecito per il consumo (divenuto clandestino ed ambito di gravi abusi, gestito - anche per sopravvivere - da minoranze relegate ai margini della società, come gli Ebrei destinati a suscitare contro di loro avversione etnica e razziale)e quello per la produzione ed il commercio legalmente praticato per lo sviluppo dei grandi banchieri e di un efficiente mercato finanziario e creditizio di cui il genovese Banco di S.Giorgio costituì un'emanazione tanto legale da divenire espressione massima dell'intera economia repubblicana (intanto per soccorrere chi doveva ricorrere al mercato clandestino dell'U. soccorsero in qualche modo dal '400 dei ricchi benefattori del mondo finanziario con lasciti e quindi coll'istituzione dei Monti di Pietà che accordavano prestiti su pegno). 

Per intendere la complessità di questo periodo è utile riportare quanto scritto da Dante Zanetti nel Dizionario Enciclopedico del FEDELE, vol.XX, alla voce Usura (p.639, col.1):"Nel 1285 il comune di Venezia contrasse un prestito all'8% e tre anni più tardi un altro prestito al 12%. Nella Sicilia di Federico II l'interesse legale era del 10%; a Verona, nel 1228, del 12%; a Genova, nella stessa epoca, era del 15%. D'altra parte nel sec. XII un mercante veneziano pagò interessi varianti dal 43 al 50%: In Francia, sul finire del Duecento, un operatore privato pagò interessi che raggiungevano il livello iperbolico del 120 e addirittura del 266%. 

Nel sec. XV Jacques Coeur diventò banchiere della corte di Francia prestando a carlo VII somme considerevoli a un tasso che andava dal 12 al 50%. Nello stesso secolo i banchieri di Arras pretendevano interessi oscillanti tra il 12 e il 20% e i banchieri piacentini chiedevano anche il 30%. Il comune di Vigevano contrasse prestiti al 75% nel 1411, al 90% nel 1413, al 48% nel 1439. 

Nel Cinquecento i mercanti cristiani che operavano nel Levante [tra cui moltissimi Genovesi] pagavano interessi del 30 o 40%. Si tratta di pochi esempi ma sufficienti a darci un quadro abbastanza fedele di una situazione che era determinata da una generale penuria di capitali e da un rischio molto elevato. 

D'altra parte, i prestiti finanziavano spesso operazioni speculative che garantivano profitti talmente elevati da rendere sopportabili anche tassi che ci appaiono oggi sproporzionati. Poco si conosce intorno ai saggi praticati nel mercato clandestino dell'U. spicciola, ma non è difficile immaginare quali livelli potessero toccare, dato il rischio ancora più elevato e le condizioni di estrema necessità di chi vi ricorreva".[I tassi diminuirono dal Seicento in una nuova ottica finanziaria, grazie soprattutto alla scuola Inglese ed Olandese: nei Paesi Bassi si passò tra il 1660 ed il 1700 a mutui che andavano da 3% al 2,5% mentre in Inghilterra già a fine '500 si pubblicavano saggi sull'interesse e l'Usura evidenziando i vantaggi di usufruire di capitali a basso tasso di interesse nel contesto della liberalizzazione del mercato finanziario].



giovedì 30 novembre 2017

"La Boheme è bella purché duri poco"

   Da sinistra, il giornalista ventimigliese Angelo Maccario, la moglie di Aniante ed Aniante nel corso di un'intervista del 1950 
- Foto: Enzo Maiolino

Antonio Aniante appartiene a quella categoria di letterati, cui, per alcuni versi, anche una certa casualità ha destinato, nonostante la gran quantità di opere pubblicate e la pubblica nomea avuta in esistenza, una scarsa attenzione della critica o meglio un'attenzione spesso caratterizzata da sviste ed incompiutezze; come ha scritto Roberta Valguarnera in questa sua tesi di laurea: un'opera davvero ragguardevole per oggettività scientifica ed impegno di ricerca come già di primo acchito si evince dalla semplice analisi dell'indice ed ancor più dalla estesa bibliografia su Aniante minuziosamente raccolta dalla studiosa, un lavoro che, quasi certamente, avrebbe trovato un editore disposto a pubblicarlo se avesse trattato di un autore più in voga.

Qui si propongono soprattutto le pagine di una biografia che riserva non poche sorprese e dissipa alcuni luoghi comuni dettati dalla scarsa conoscenza dell'autore.

A titolo esemplificativo si citano qui alcune acquisizioni scientifiche della Valguarnera in merito ad alcune tematiche abbastanza travisate: partendo da un inquadramento del personaggio, segnalato anche in funzione di alcuni giudizi abbastanza umorali su di lui formulati da intellettuali contemporanei per risalire a riflessioni più specifiche ma assolutamente rilevanti come alcune basilari correzioni in merito alla biografia di Aniante partendo addirittura dalla data di nascita e poi, procedendo nel tempo oltre che nello spazio, soffermarsi su aspetti non trascurabili quali la malattia e l'ansia materna, ragioni prime per il futuro scrittore di un'animo, oltre che di un fisico, tormentato, quindi sull' approccio con la letteratura ed ancora sulla ragionata scelta dello pseudonimo Antonio Aniante in sostituzione della legale nominazione di Antonio Rapisarda e via via di seguito. E sulla scorta della moderna ricercatrice sarà anche fattibile rivedere, diacronicamente, singolari aspetti della personalità dello scrittore esplicitatasi attraverso i ritmi di una vita segnata dal tema della peregrinazione, (momentaneamente interrotto da un significativo soggiorno romano caratterizzato sia da una corposa attività teatrale che dall' adesione al gruppo di M. Bontempelli del gruppo "900").
Con il conforto della Valguarnera non sono difficili da identificare i connotati di un'esistenza peraltro complicata da un rapporto divenuto improvvisamente difficile con il regime fascista con la conseguenza di una sorta di una sorta di volontario esilio parigino che tra tante difficoltà tuttavia esalta Aniante in forza del contatto con tanti artisti celeberrimi [un esilio che, peraltro, permette allo scrittore catanese di dimensionare la sua postazione quale letterato , quindi, seppur tra opposizioni e difficoltà, di affermarsi anche quale scrittore in lingua francese: e sempre a Parigi l'esperienza terrena di Aniante si polverizza altresì in un'infinità di espressioni, sostanzialmente caratterizzate dall'impegno culturale, dalle difficoltà economiche, dall'attività di gallerista e dal tormentato amore con la pittrice turca Halé Asaf].

Come ancora scrive Roberta Valguarnera la morte dell'amata e delicata pittrice turca segnerà una svolta nella vita, anche culturale di Aniante che lascerà Parigi per Bercke e che poi si recherà, con la futura moglie, sulla Costa Azzurra dove nei tempi cupi di guerra e persecuzioni si adopererà a favore di molti bambini ebrei.

Dalla Costa Azzurra lo scrittore si trasferirà quindi a Latte frazione di Ventimiglia donde, da pendolare, raggiungerà prima Nizza e quindi Monaco per espletare le mansioni di addetto culturale ai Consolati Generali d'Italia presso le due importanti località.

Suggestive sono altresì le pagine che l'autrice di questo lavoro dedica al rapporto di Antonio Aniante con la Costa Azzurra ed in particolare con "La baja degli angioli" ed il contesto culturale ed umano di Nizza. E sempre oculata oltre che emotivamente partecipe è Roberta Valguarnera, nel descrivere il crepuscolo della complessa esistenza di Aniante, destreggiandosi, con agilità intellettuale, dalle riflessioni su alcune significative produzioni del catanese, alla segnalazione critica della graduale riduzione della sua attività letteraria, alla motivazione di siffatto irreversibile processo per giungere alla trattazione della sua morte nel 1983, passata sotto silenzio tra le recriminazioni della vedova che, donati i libri del marito all'intemelia Biblioteca Aprosiana, si trova, per questioni d'eredità, depauperata delle carte personali dell'autore che aveva invece trattenuto per sè.

Ancora molto giovane, all'epoca del I Conflitto Mondiale e nello stesso dopoguerra, Aniante diede il via ad un'esperienza errabonda di vita, con viaggi che lo portarono nei centri istituzionali della cultura italiana e non solo. Fu così che raggiunse, soggiornandovi proficuamente, Napoli, Roma, Milano, Parigi, Firenze. Fu proprio nella grande città toscana che approfondì le sue competenze ponendosi diligentemente nella scia culturale di un singolare maestro, il "teosofo" Arrigo Levasti. Ma Milano rappresentò per lui un vero e primo significativo punto d'arrivo, infatti nel 1926 vi coseguì la laurea in lettere previo una discussione, con Pietro Martinetti, in merito ad una sua tesi sull'allora in auge "bergsonismo".
Espletato questo impegno si trasferì, sempre nel '26, a Roma dimorandovi per tre anni: l'occasione fu ghiotta, non dal lato accademico ma sotto il profilo delle frequentazioni culturali. La sorte gli diede il destro per entrare in confidenza con Luigi Pirandello, Rosso di San Secondo, Corrado Alvaro, Curzio Malaparte ponendosi in modo abbastanza originale nel contesto della produzione letteraria e narrativa del tempo: oltre a ciò non lesinò le esperienze teatrali ed in particolare si adoprò intensamente presso il teatro di Bragaglia ove portò in scena diverse proprie commedie, caratterizzate da buona accoglienza sia da parte del pubblico che della critica. Inoltre, e pressapoco nello stesso arco di tempo, si associò al cenacolo di quelli che definiva "novecentieri" e che avevano il loro "nume" in Massimo Bontempelli: la varietà degli impegni e la molteplicità dei contatti, peraltro, lo indussero celermente ad accettare la proposta di seguire la via della critica giornalistica e più estesamente del giornalismo.
Ma proprio nel 1929 si andava preparando per Aniante una decisiva svolta esistenziale, l'abbandono dell'Italia e la permanenza a Parigi dal Natale di quell'anno medesimo e ne derivò una stagione narrativa piuttosto feconda i cui risultati, in qualche modo, si sublimarono nel romanzo "Un jour très calme".
La saggistica, le biografie e le opere di carattere storico-documentario furono invece da lui stese immettendosi sulla linea del percorso culturale già disegnato da Splenger e Benda: simile postazione critica, in qualche modo alterò le relazioni con la cultura ufficiale dominante nell'Italia del ventennio, ed Aniante venne in qualche maniera etichettato con l'appellativo, non del tutto rassicurante, di "scrittore fascista dissenziente".
Ma a Parigi, cosa di cui e su cui fra poco più doviziosamente si parlerà, ebbe soprattutto il destro per forgiarsi quale critico d'arte e contestualmente entrare in strettissimo contatto con tanti talenti artisti, pittori ma non solo, che sarebbero di lì a non molto diventati celeberrimi e sui quali avrebbe poi steso pagine interessantissime quale critico d'arte e forse ancor più quale biografo e narratore.
Nel 1938 morì la sua compagna (dopo un amore tormentato e tormentante come altre esperienze passionali dell'autore siciliano) ed Aniante, di rimpetto anche all'inevitabilità del II Conflitto Mondiale, riprese la sua vita errabonda: da Berck a Parigi ancora e finalmente ai paesini della Provenza e della Costa Azzurra per poi approdare nell'amata Nizza proprio quando furoreggiava la guerra totale.
Ma il suo itinerare non si arrestò mai, fu ancora a Peira Cava poi, terminato il grande olocausto, si sistemò con la francese moglie Simone a Latte, tra Ventimiglia e Mentone, nella villa de "I Pini".
Le sue collaborazioni non vennero affatto meno, nonostante i problemi di un'incerta salute: continuò a lavorare come pubblista, narratore, biografo ed anche autobiografo. Talora il suo stato fisico gli imponeva di stare a lungo disteso, ma nemmeno in questo caso si fermava dall'operare e contestualmente da intrattenere relazioni con i suoi corrispondenti culturali.
Autore prolificissimo, magari dispersivo nelle tematiche, ha spesso suscitato interessi critici che si sono spesso arrestati sulla soglia del dare un ordine esaustivo alla sua produzione, opera indubbiamente non facile: ma per intendere a fondo e con coerenza critica le ragioni della sostanziale e soprattutto contemporanea incomprensione dell'opera di Aniante vale ancora la pena di leggere quanto in merito ha scritto Domenico Denzuso.

Eppure nella sua rilevante attività pubblicistica, storica e memorialistica (accanto all'originale "Vita di Bellini" uscita postuma nel 1986), specialmente per le riflessioni che qui si vanno producendo, merita una segnalazione specifica il libro sostanzialmente autobiografico Memorie di Francia del 1973.
La ragione è semplice: il libro costituisce sostanzialmente un "punto della situazione della vita di Aniante", ormai anziano (morirà dieci anni dopo, nel 1983 a Latte nella sua amata villa): forse perchè presago della fuga del tempo e dello spazio sempre più breve concessogli per scrivere Aniante si sofferma sulla soglia dei ricordi, come peraltro era già stato solito fare, e vi scava all'interno, con una scrittura che a volta si scontra col lettore per via di scatti quasi nevrotici che lasciano in sospeso pensieri recuperabili per via di riflessioni, quasi all'interno di un giuoco architettato dallo scrittore.
Nella sua sostanziale brevità il libro è un "poemetto in prosa" sulla vita degli artisti di Montparnasse e poi sulla loro diaspora ed ancora sul loro coagolarsi al sole di Provenza: Aniante è il loro contrappunto, l'intellettuale eternamente in difficoltà economica che da un lato si rode a contemplare il formarsi di autentiche fortune per pittori un tempo miserrimi che ha esaltato coi suoi scritti ma che, dall'altro lato, subito rigettando la cattiveria insita nell'invidia, trova motivo d'esaltarsi al pensiero d'aver potuto fruire dell'amicizia dei talenti più grandi, specialmente in ambito pittorico, che la sua stagione esistenziale potesse concedergli.
Sarebbe improprio negarlo qualcosa di contradittorio caratterizza Aniante in questa serie di riflessioni come in altre analoghe fatte in tempi pregressi: umanamente parlando non deve esser stato facile -come appena detto- assistere a trionfi impensati, cui in tempi ingrati aveva contribuito, senza talora nemmeno ricevere una gratificazione morale se non economica.
Non è difficile scoprire questo lato dolente della sua esistenza: più di una volta infatti, raccontandosi in prima persona A. Aniante ritorna all'epoca controversa, ora fulgida ora disperata e disperante, del suo soggiorno parigino e dei suoi poliedrici contatti con i futuri immortatali, i giovani talenti che avrebbero illuminato della loro arte il mondo intiero.
Così in questo saggio autobiografico (emblematicamente intitolato, sulla linea di una frase attribuita a Picasso, "La Boheme è bella purché duri poco" e comparso sul numero 30 -anno 51°- della gloriosa "Fiera Letteraria") Antonio Aniante, magari con qualche eccesso cromatico ma non senza efficacia, rimembra "...la biblica miseria......dei tempi in cui frequentava giovani destinati a un luminoso futuro quali Blais Cendrars, André Gide, Cocteau, Picasso ed altri mostri sacri...".
L'apice del suo malcontento si può forse ravvisare più compiutamente in questo paragrafo delle Memorie di Francia che potremmo intitolare Celebri artisti e pittori = il singolare destino di A. Aniante.
Ma subito, attesa la sua indole fatalista e molto mediterranea, l'autore sa riprendersi ed uscire dalle secchie di cattivi ed impopolari pensieri per recuperare il positivo ed anzi vantarsi del suo stato di uomo non arricchitosi economicamente per l'altrui trionfo ma semmai nobilitato dal contatto spirituale con i genii che quei trionfi hanno saputo perseguire.
Proprio nelle memorie di Francia in merito a ciò spicca il paragrafo intitolato 2 - Al capezzale di Matisse nel suo eremo di Cimiez dove lo scrittore catanese rivede parecchie sue postazioni in nome della grandezza e della saggezza di siffatto gigante, di cui, solo con pochi altri, ha potuto fruire.
E sempre nella stessa opera, accantonata ogni rimostranza, plaude, con accorata preoccupazione per la di lui salute, 4 - Picasso tra ferro e fuoco nella fucina di Vallauris: l'ombra cupa, qua e là aleggiante specie in occasione delle relazioni con artisti scontrosi o sgarbati, qui è completamente svanita...Picasso è solo il grande artiere che in una zona storicamente nevralgica della Francia con altri sommi, quasi alla stregua di un moderno Dio pagano ha portato lo splendore dell'arte non lungi da dove un Dio remoto aveva segnato l'iridescenza del suo dominio terreno.
Sondando a tutto campo le "Memorie di Francia" (anche valendosi di un'analisi semantica e strutturalistica per quanto non sempre attendibili in maniera assoluta) si riscontra invece semmai il senso del declino: e non solo del proprio, causato dall'inferma salute, ma di tutti i grandi, specialmente di quelli maggiormente prossimi...parafrasando Aniante si potrebbe dire degli "artisti divini di Costa Azzurra e Provenza".

venerdì 24 novembre 2017

Genova e l’Inquisizione - stralci

Genova - Palazzo Ducale
...il Romano Canosa,...  riproduce lo stralcio di una "rappresentazione del 1696 fatta dai Protettori alla Signoria laddove risulta il rispetto di questa "formalità" da parte dell'Inquisizione: "...benché ne habbia procurato alteratione il Padre Inquisitore precedente, ora Commissario del S. Ufficio in Roma, è stata religiosamente osservata, in quanto si è potuto scorgere, dal padre Bertucci, inquisitore moderno" (Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1404).
Proseguendo la lettura del Canosa pp. 191 e segg. si evince tuttavia che se per questo verso le cose procedevano secondo le aspettative "altri aspetti del funzionamento del tribunale preoccupavano il governo della Repubblica".
Quella più citata risulta essere la questione delle Consulte vale a dire "l'esame finale da parte dei giudici e dei loro consulenti giuridici e teologici, tipico di tutti i processi inquisitoriali" che stando alla mentovata "rappresentazione" dei Protettori del Santo Ufficio più non si tenevano a Genova "non solo ne' termini che si praticava anticamente, ma nemmeno nelle formalità che anche nello stato più depresso anteriore all'ultimo aggiustamento era introdotta".
Come ancora scrive il Canosa, p. 192 "Il posto della Consulta come luogo di decisione delle cause era stato preso dagli ordini ricevuti da Roma che stabiliva per tutti i processi inquisitoriali qualità e quantità delle pene che il tribunale avrebbe dovuto infliggere".
Il pontefice, direttamente coinvolto nella questione, non pareva esser rimasto insensibile all'osservazione dei Protettori per cui siffatto cambiamento operativo risultava apertamente in contrasto al "...dovere e alla buona consuetudine, pregiuditiale ai processati, gravoso ai popoli, distruttivo della sostanza del tribunale e disdicevole a molte convenienze pubbliche": per siffatta ragione il papa, a suo dire, avrebbe " studiato di dare alla repubblica tutto quel maggior gusto che havesse potuto".
E verisimilmente, proprio per calmare le acque e dare sostanza a questa pontificia affermazione, il nuovo Inquisitore ecclesiastico di Genova tenne una Consulta in occasione di un procedimento abbastanza importanta, Consulta cui presero parte con altri Francesco Maria Doria, Francesco Maria Lercaro, i Magnifici Nicolò Passano e Marc'Antonio Gentile oltre ai Protettori Gio. Batta Centurione e Agostino Saluzzo.
Evidentemente si era trattato di un momentaneo accorgimento per tacitare le rimostranze genovesi atteso che il Padre Inquisitore, nei processi successivi, ripristinò la nuova metodologia, che comportava in pratica lo svolgimento dei processi a Roma e che coimplicava vari elementi negativi come una lunga carcerazione degli inquisiti e, indubbiamente, la violazione dei diritti dello stato genovese.
A confortare siffatta situazione storica Romano Canosa, p. 192 riprende i termini di una "Relazione" congiuntamente realizzata nel 1696 dai Protettori in collaborazione coi membri della Giunta di Giurisdizione: nel documento si faceva rilevare come da oramai 18 anni la Consulta non veniva di fatto più praticata "anche omessa quella pura apparenza che si pratticava nello stato più depresso, cioè a dire la formalità della Consulta e di inviarla a Roma per la decisione".
A fronte di queste proteste i componenti dei due organi politico-amministrativi erano ben consci delle difficoltà tanto del problema quanto dei correttivi da individuare: si ipotizzò, non senza tremore, di frapporre, qualora Roma fosse rimasta sorda ad ogni querela, degli impedimenti alla cattura degli inquisiti da parte del Santo Ufficio.
Il tremore indubbiamente derivava dalla consapevolezza che la Santa Sede avrebbe potuto contestare a Genova non solo di ostacolare i servizi del Tribunale dell'Inquisizione ma anche di favorire l'impunità a fronte di delitti e crimini di indubbia gravità.
Tentando di mediare in un campo così delicato, e soprattutto a contestazioni patibili da Genova in merito alla seconda possibilità, nella citata "Relazione", vagliando come in campo religioso sempre meno frequenti fossero i reati di mera eresia a fronte di quelli di misto foro, si ipotizzò apertamente di estendere le competenze del Magistrato degli Inquisitori di Stato, "...ampliando anche l'autorità che detti Signori Inquisitori tengono contro quei che nelle chiese commettono qualche delitto ad altri simili che possono riguardare il serviggio di Dio anche fuori delle dette chiese".
A questo punto come ragguaglia ancora il Canosa, p. 193 sopravvenne il caso Dupuis, l'arresto cioè di un prete francese tale Giacomo Dupuis che fu fatto arrestare e quindi venne condannato dal Tribunale dell'Inquisizione a 7 anni di remo per essersi macchiato del crimine di poligamia: tutto era avvenuto attraverso le gerarchie ecclesiastiche e lo Stato genovese non vi aveva avuta alcuna parte, anche i Protettori non erano sati interpellati ed erano di fatto stati relegati al ruolo di "semplici testimoni alla sentenza pubblicata, già determinata a Roma".
Il Canosa, p. 193 riassume abilmente la stringente protesta della Signoria, comportante un ulteriore sospetto, che cioè alla base di ogni decisione "potesse esservi stata "...una intenzione sinistra della Congregazione di voler ridurre ad una pura formalità ciò che si è consentito da Roma per mero atto di necessità alla Repubblica, di riconoscere dalla lettura dei processi se sia stato fatto alcun pregiudizio nei medesimi ai suoi sudditi. Un veemente sospetto di ciò era costituito dal fatto che havendo cercato qualche volta loro Eccellenze di venire un giorno prima della sentenza alla lettura dei processi, sotto vari pretesti l'Inquisitore lo aveva impedito".
A questo approccio seguì un'azione più decisa della Signoria intenzionata a non palesarsi in merito al caso Dupuis troppo remissiva di rimpetto alla Santa Sede.
Da un lato al Padre Inquisitore fu fatta pervenire una "Lamentatione" ufficiale in cui il Governo di Genova palesava le sue "perplessità" in relazione a tale vicenda giudiziaria ed agli inconvenienti che aveva comportato: soprattutto ponendo l'accento sul processo deciso a Roma e sull'assenza di una Consulta.
Per altro verso ("Istruzione" del 1698 in Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1404) allo Spinola, plenipotenziario genovese a Roma, si commise l'obbligo di interpellare lo stesso pontefice in merito a tante carenze procedurali e formali, non esclusa certo la mancata convocazione dei Protettori trattati in modo, come detta la stessa "Istruzione", che "...non si dà loro notizia non solamente delle qualità, ma nemmeno del nome e cognome del reo e si rappresenta loro il caso solamente in abstracto, dove all'incontro gli Eccellentissimi Protettori, oltre la notizia che hanno della persona prima di concedere la cattura, devono anche intervenire alla lettura dei processi offensivi e difensivi prima della pubblicazione della sentenza".
Il papa alle interpellazioni dello Spinola rispose, come era nel suo carattere, in maniera benevola affermando che rientrava nei suoi voti che le cose "camminassero in quell'ordine in cui erano per avanti, non essendo egli amico d'impegni per intraprendere novità".
Non si allontanò da questo formula abbastanza vaga e lasciò di fatto che lo Spinola trattasse l'annosa questione con il cardinale Spada e con la stessa Congregazione del S. Ufficio.
Il plenipotenziario genovese in Roma si trovò così in qualche difficoltà, non tanto per i rapporti con lo Spada, ma per l'atteggiamento evasivo, per quanto cortese, del Commissario Generale del S. Ufficio che nel corso di un'udienza gli rassegnò come, dall'analisi personale che aveva fatto delle carte sottoscritte nei tempi pregressi, nulla risultasse di sostanziale in merito alla tesi genovesi sulla "tassativa assistenza ai procedimenti inquisitoriali dei Protettori".
Per sua sfortuna lo Spinola non aveva molto materiale diplomatico di cui avvalersi nelle sue dispute diplomatiche.
Praticamente il solo documento concreto su cui poteva far conto era il concordato del 1678 stipulato da Genova con papa Innocenzo XI in merito al quale "non potea dubitarsi che la Congregazione havesse havuta presente questa convenienza della Repubblica".
A fronte delle difficoltà che l'abile diplomazia romana gli poteva far sorgere contro, lo Spinola ritenne possibile cercare un scorciatoia di comodo reciproco e per questo, come ancora annota il Canosa, p. 194 e note 4 e 5, propose al suo Governo (lettera del 28 giugno 1698) di adottare per l'assistenza alle Consulte dei Protettori una formula pressoché identica a quella ideata per la loro assistenza ai processi che dettava sia "ad arbitrio della S. Congregazione" quanto "ad arbitrio del padre Inquisitore".
La soluzione non dovette piacere alla Signoria se questa gli rispose indirettamente di far altra cosa, cioè di prendere tempo e di formulare una strategia che mirasse principalmente a che "si levasse di mezzo il disordine di farsi in Roma le sentenze contro degli inquisiti".
Fatti estranei al contenzioso tra Genova e Roma determinarono una pausa nelle trattative: il Sant'Uffizio si era imprevedibilmente trovato di fronte ad altra e più seria questione, che comportava un'aspra controversia tra l'arcivescovo di Cambray ed il vescovo di Meaux.
Ed anche dopo che la questione fu risolta, tra la Repubblica e la Santa Sede intercorse un periodo di silenzio, bruscamente interrotto da un fatto non tanto di ordine diplomatico o giursdizionale quanto piuttosto legato alle contingenze della vita: la morte del Bertucci, Padre Inquisitore in Genova, avvenuta nel 1701.
L'evento luttuoso tuttavia, dati il rilievo e la pubblica funzione del defunto, comportò una serie di problematiche di ordine formale e diplomatico.
In primo luogo si pose il problema della partecipazione o meno dei genovesi Protettori alle esequie solenni da tenersi nella chiesa di San Domenico in Genova: ed al riguardo il Vicario del Sant'Ufficio aveva avanzata un'esplicita richiesta.
Fu a tal punto che il Governo indusse i Protettori a scrivere, a Roma, a Filippo Cattaneo, il "gentiluomo" che al momento andava seguendo le vicende del Sant'Ufficio per conto di Genova, perchè s'adoprasse "con la destrezza e prudenza sua propria" al fine che venisse nominato per Genova un nuovo Padre Inquisitore che potesse "riuscire di pubblica soddisfatione".
Questa richiesta, unita al fatto che in fine della storia i "Protettori" non presenziarono alla cerimonia funebre per il Bertucci, va a formulare un bilancio abbastanza enigmatico ma comunque di sostanziale incertezza e perdurante tensione in merito ai rapporti intercorrenti ancora tra Genova e Congregazione.
E del resto che il vecchio concordato di Genova con Innocenzo XI si reggesse su una linea di precari equilibri lo si potè dedurre abbastanza presto, quando nel 1711, quando i Protettori furono messi al corrente dal Vicario del S. Ufficio che il Padre Inquisitore di genova Corradi non si riteneva in dovere di "somministrare" loro il procedimento avverso un sacerdote accusato di sollecitazioni in confessione.
Atteso il diniego non mancò risentimento ufficiale del Governo che incaricò ancora Filppo Cattaneo di affrontare la questione trattandone con il cardinale Del Giudice che faceva parte della Congregazione del S. Ufficio ma che, notoriamente, era filogenovese.
Le raccomandazioni al Cattaneo furono affidate ad un documento, riesumato dal Canosa, p. 195 e nota 6, che tuttora si custodisce nell'Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1404, contestualmente ad altre carte spettanti al Santo Ufficio e comportante una serie di lamentele (con la segnalazione delle relative indagini) avverso le procedure dell'Inquisizione genovese, ritenuta responsabile di gravi dilazioni nell'uso delle carcerazioni preventive e degli eccessi nelle spese imposte agli inquisiti.
L'"Istruzione" inoltrata al Cattaneo e da questi comunicata personalmente al cardinale Del Giudice espressamente riportava un invito a che il cardinale mettesse "...nella dovuta attenzione il padre vicario presentemente [l'Inquisitore Corradi era nel frattempo morto] ed a suo tempo il nuovo soggetto che sarà eletto alla carica di Inquisitore i quali, operando diversamente dal consueto, non potrebbero doleri che di sè medesimi se non incontrassero nella Repubblica Serenissima o sia nei detti Eccellentissimi Protettori tutte quelle facilità et assistenze che sono state contribuite sin'ora con tutta la pienezza in ogni occorrenza del Tribunale".
Il cardinale Del Giudice non rimase sorpreso delle richieste, di cui già conosceva l'ideazione, come del pari già era al corrente della successione degli eventi ed in particolare del fatto che il Governo di Genova, spinto da eccessivo rigore, aveva con fretta ed una certa mancanza di tatto, sostanzialmente estranei alla reale portata dei problemi in essere, obbligato il vicario a raggiungere la sala in cui si riuniva solitamente la Giunta di Giurisdizione: a suo parere la Santa Sede non avrebbe mai concesso che il Tribunale dell'Inquisizione dovesse assoggettarsi ad un duplice controllo quello legittimo dei "Protettori" e quello nuovo della "Giunta".
A parere del cardinale romano la scelta del defunto Inquisitore Corradi aveva delle giustificazioni e non risiedeva in un volontario affronto ai "Protettori" e quindi allo Stato: l'accusa era infamante, la colpa sconveniente, il procedimento così particolare da rendere considerabile l'esclusione della partecipazione dei "Protettori".
Gli argomenti scabrosi, di chiara matrice erotica, coinvolgevano infatti donne, monache, zitelle, creature strutturalmente fragili e comunque plausibilmente restie a denunciare le molestie sessuali sapendo che queste sarebbero venute a conoscenza di due Senatori della Repubblica.
Ragguagliando il suo Governo (Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, busta 1405, lettera del 5/I/1712) il Cattaneo riassunse la sua linea operativa basata sulla minimizzazione della possibile mancanza fatta al Vicario dell'Inquisizione e soprattutto sul principio che secondo i contenuti dei concordati ai "Protettori" non avrebbe dovuto esser inibita la partecipazione a processi di simil genere. Tra l'altro, per quanto ancora riportato dal Canosa, p. 196 e nota 7, leggesi redatto dal Cattaneo: "...Havendomi il cardinale toccato per via di discorso che alli Eccellentissimi Protettori vanno comunicate le informazioni e li processi solo nell'atto della spedizione delle cause e della perfezione dei processi fiscale e difensivo, et essendomi parso inculcasse alquanto fortemente un tal punto, entrai in dubbio che per sorte non volesse additare non poter pretendere quelle notizie che si sogliono esigere prima della concessione del braccio e che non hanno havuto riparo di communicare li Inquisitore precedenti, et in ispecie il padre Bernardi. Perciò non giudicai furi di proposito il segnare a Sua Eminenza e quasi in atto confidenziale da servitore e da amico che passano seco, non come Cardinale della Congregazione, ma come Padrone sì antico che per via di formalità non si pretendono altre comunicazioni che le predette segnate dall'Eminenza Sua, ma che per altro non si darebbe il braccio, se non si sapessero prima i capi del delitto, le persone, et i fondamenti delle accuse per occasione di cui si addimanda. Rispose il Signor cardinale che come della Congregazione non poteva consentire una tal pretensione, la quale come contraria all'indipendenza del Tribunale, doveva dalla medesima impugnarsi, ma che come amico rispondeva che certi passi devono farli li Inquisitori da sè e che, senza parlarne, è bene tirar avanti come si è fatto sin'ora".


da Cultura-Barocca

domenica 19 novembre 2017

La Biblioteca Vaticana

Melozzo da Forlì, Sisto IV nomina il Platina prefetto della Biblioteca Vaticana (1477) -  affresco staccato, Pinacoteca Vaticana - Fonte: Wikipedia
 La storia della "Biblioteca Vaticana" in un volume del '600

Fin dal sec. IV è attestato lo scrinium della Chiesa Romana, che serviva tanto da biblioteca quanto da archivio. Nel sec. VI è sottoposto al primicerius notariorum, mentre dalla fine del sec. VIII compare la figura del Bibliothecarius S. R. E., che assume pure le funzioni del cancelliere. La prima biblioteca ed il primo archivio dei papi vennero dispersi, per ragioni non ancora ben conosciute, nella prima metà del sec. XIII. Nuove collezioni dei papi di quel secolo, delle quali esiste ancora un inventario fatto sotto Bonifacio VIII, emigrarono con gravi perdite dopo la sua morte, a Perugia, poi ad Assisi, poi ad Avignone. Ivi Giovanni XXII cominciò la costituzione di una nuova biblioteca che, entrata nel sec. XVII nella collezione della famiglia Borghese, ritornò nel 1891 alla Santa Sede.

Fondatore della moderna Biblioteca Vaticana fu il papa Niccolò V (Tommaso Parentucelli), eletto nel marzo 1447. Egli trovò già in Vaticano trecentocinquanta codici latini, alcuni greci ed ebraici, che sono descritti in un inventario redatto sotto il suo predecessore Eugenio IV. Da questa eredità e dai suoi propri libri si originò la raccolta, che Niccolò V incrementò con larghezza, ordinando l'acquisto di manoscritti su tutti i mercati di Europa e d'Oriente e la trascrizione di altri, opere di una schiera di copisti. Dall'inventario redatto poco dopo la sua morte (24 marzo 1455) e da altre registrazioni risulta che i codici da lui lasciati furono circa 1500, un totale che rese la raccolta pontificia in quel momento la maggiore d'Europa. Successivamente Sisto IV con la bolla Ad decorem militantis Ecclesiae (15 giugno 1475) la dotò di rendite e nominò il bibliotecario nella persona di Bartolomeo Platina. I codici salirono nel 1475 a 2527 e a circa 3500 nel 1481 quando fu allestita una nuova sede al pianterreno del palazzo di Niccolò V con ingresso sul cortile del Pappagallo e prospetto sul cortile del Belvedere. La costituirono quattro aule di diseguale grandezza, dette, rispettivamente Bibliotheca Latina e Graeca (per le opere nelle due lingue), Secreta (per monoscritti non a diretta disposizione dei lettori, ivi compresi alcuni codici di pregio), Pontificia (per gli archivi e i registri papali). Il Bibliotecario era coadiuvato da tre sottoposti e da un legatore di libri. Si praticava la lettura in sede, con la disciplina di un severo regolamento; ma vigeva in questo tempo anche il prestito esterno, del quale rimangono i registri, per gli anni 1475/1547 (Vat. lat. 3964 e 3966). Nel 1587 Sisto V incaricò il proprio architetto Domenico Fontana della costruzione dalle fondamenta di una nuova e più ampia sede. L'edificio, che ospita tuttora la Biblioteca, sorse sulle scalee divisorie tra il Cortile del Belvedere e quello detto ora della Pigna; nel piano più alto si trova la grande aula a due navate, lunga 70 metri e larga 15 che fu destinata a contenere le raccolte. Sisto V emanò specifiche norme per l'uso e la conservazione delle raccolte.

Al principio del secolo XVII, sotto papa Paolo V, la parte propriamente documentaria fu distaccata dalla Biblioteca per dare origine all'Archivio Segreto Vaticano. La Biblioteca ricevette un ordinamento dei fondi, che è rimasto inalterato nelle grandi linee fino ad oggi. Con il secolo XVII si iniziò l'aggregazione di intere biblioteche, di origine principesca o privata, le quali sono rimaste in molti casi distinte dagli altri fondi aperti, creando appositi fondi chiusi di manoscritti e stampati: nel 1623, la Biblioteca Palatina di Heidelberg, venuta in mano del duca di Baviera Massimiliano I iure belli e donata a Gregorio XV in riconoscimento degli aiuti ottenuti dalla Santa Sede durante la guerra dei trent'anni; nel 1657, i manoscritti della Biblioteca dei Duchi di Urbino; nel 1689, i manoscritti già raccolti dalla regina Cristina di Svezia. Altre ingenti accessioni furono quelle dei codici Capponiani nel 1746 e Ottoboniani nel 1748. All'erudito secolo XVIII si deve il disegno di pubblicare un catalogo completo dei manoscritti conservati nella Biblioteca. Della serie grandiosa ideata da Giuseppe Simonio Assemani e dal nipote Stefano Evodio, che doveva comporsi di venti volumi in folio, non videro tuttavia la luce che i primi tre e il quarto incompleto. La fine del secolo portò ad un depauperamento delle raccolte Vaticane per il tributo di guerra imposto dalle armi napoleoniche alla Santa Sede; ma una gran parte dei libri ed oggetti asportati fu poi restituita nel 1815. Caratteristico del secolo XVIII fu il sorgere e l'incremento nella Biblioteca Vaticana di collezioni antiquarie e artistiche. In primo luogo il Medagliere, arricchito nel 1738 con l'acquisto della raccolta di medaglioni romani e greci del card. Alessandro Albani, allora la maggiore esistente dopo quella del re di Francia. Il cospicuo Museo Sacro si costituì nel 1757, con la riunione di tre importanti raccolte, e si arricchì continuamente di svariate categorie di oggetti appartenenti all'antichità cristiana (avori, smalti, bronzi, vetri, terrecotte, tessuti, ecc.) e provenienti in larga misura dalle catacombe romane. La separazione della parte profana da quella sacra, nel 1767, diede origine al Museo Profano. Anche queste collezioni soffrirono gravemente per gli avvenimenti della fine del secolo, e in particolare la raccolta numismatica fu in larga misura asportata e solo in parte fu poi recuperata.

Le collezioni di stampati si arricchirono nel 1855 del fondo Cicognara, dedicato a libri d'arte e di antichità. Dalla fine del XIX secolo in poi sono entrati in Biblioteca, fra gli altri, i manoscritti Borghese (1891), i fondi manoscritti e stampati Barberini e Borgiani (1902), Rossiani (1921), Chigi (1923) e Ferrajoli (1926), l'Archivio del Capitolo di S. Pietro (1940), il fondo Patetta (1945).
Sotto Leone XIII si avviò un processo di modernizzazione che ebbe quale autentico protagonista il prefetto (poi Cardinale bibliotecario) Franz Ehrle, S.I.: per qunto concerne gli interessi aprosiani giova qui rammentare che proprio sotto questo pontefice venne acquistata ed assimilata nella Biblioteca Vaticana la celeberrima Biblioteca Barberiniana anche detta Barberina istituita dal potente cardinale Francesco Barberini (Firenze 1597 - Roma 1679), nipote di Maffeo Barberini poi papa Urbano VIII, e ricchissima di codici greci, latini ed orientali (Aprosio fu in particolare in ottimi rapporti con il forse più grande bibliotecario della "Barberiniana", cioè Carlo Moroni col quale fu tra l'altro in corrispondenza).

da Cultura-Barocca

martedì 14 novembre 2017

I viaggi di Burnes



 



 

 

 

 

Nella "Vita del Burnes" (in I Volume dei "Viaggi") la passione per le esplorazioni e l'impresa "nei misteri dell'Asia" con le investigazioni su Alessandro Magno Bicorne (approfondisci il mito di Samarcanda nel contesto delle osservazioni di Burnes sulle "gesta del Macedone") = vedine il successo e la fama (con un parallelo tra le "esplorazioni nel mistero del Mondo sconosciuto" in particolare di A. Burnes e del francese Visconte di Marcellus) e la tragica morte come ufficiale negoziatore dell'Impero Britannico (Ingrandisci da qui l'immagine di A. Burnes in abiti orientali e leggi le ragioni di questa scelta, compresa quella d'usare il persiano o "lingua dei pellegrini" = e per una perfetta comprensione consulta qui le rare "Stampe Antiquarie allegate ai volumi") -  pubblicati in italiano nel contesto della "Raccolta di Viaggi dalla Scoperta del Nuovo Continente Fino A' Dì Nostri" (1840-1844), 15 volumi in 8vo a formare un’opera in 18 tomi, compilata da Francesco Costantino Marmocchi per la casa editrice Fratelli Giachetti di Prato -













da Cultura-Barocca

sabato 11 novembre 2017

Il Sabba

Una celebre descrizione di SABBA si attribuisce comunemente a Stefano di Borbone mentre il capitolare franco, falsamente attribuito ad un Concilio di Ancira, noto come Canon Episcopi (IX sec.) al contrario ne aveva in precedenza negata la realtà, considerando il SABBA una leggenda alimentata dalla fantasia di donne superstiziose e peccaminose (vedi CORPUS IURIS CANONICI, col. 1030).
Una fra le più discusse interpretazioni del SABBA concerne un'abitudine, peraltro non estranea ad una discutibile quanto radicata (in certe regioni centro-europee e di cultura francone), di trafiggere con un paletto di legno (frassino in genere) dei bambini morti prima del battesimo al fine di impedire loro di tornare sulla terra sotto forma di fantasmi tormentanti, una tecnica apotropaica in qualche modo connessa ad una delle figure più temibili dell'orrorifico paneuropeo cioè il tema della lotta al VAMPIRO e alla VAMPIRA o meglio la LAMIA.
Sul SABBA, comunque, a titolo esemplificativo si riproduce comunque di seguito una pagina storica di descrizione del SABBA tratta dalla bolla Vox in Rama del 13 giugno 1233 di Gregorio IX edita in Les régistres de Grégoire IX, ed. L. Auvray, I, Paris, 1896, n. 1391, coll. 780-781: "Quando si accoglie un neofita e lo si introduce per la prima volta nella assemblea dei reprobi, gli appare una specie di rana; altri dicono che è un rospo. Alcuni gli danno un ignobile bacio sull'ano, altri sulla bocca leccando la lingua e la bava dell'animale. Talvolta il rospo appare a grandezza naturale, altre con le dimensioni di un'oca o di un'anitra. Naturalmente ha la grandezza della bocca di un forno. Il neofita, intanto avanza e si ferma di fronte a un uomo di un pallore spaventoso, dagli occhi neri, e talmente magro ed emaciato da sembrare senza carne e niente più che pelle e ossa. Il neofita lo bacia e si accorge che è freddo come il ghiaccio; in quello stesso istante ogni ricordo della fede cattolica scompare dalla sua mente. Poi si siedono tutti a banchettare e quando si alzano dopo aver finito, da una specie di statua che di solito si erge nel luogo di queste riunioni, emerge un gatto nero, grande come un cane di taglia media, che viene avanti camminando all'indietro e con la coda eretta. Il nuovo adepto, sempre per primo, lo bacia sulle parti posteriori , poi fanno lo stesso il capo e tutti gli altri, ognuno osservando il proprio turno: ma solo quelli che lo hanno meritato. Agli altri, cioè a quelli che non sono considerati degni di questo onore, lo stesso maestro di cerimonia augura loro la pace. Quando ritornano al loro posto rimangono in silenzio per qualche istante con la testa rivolta verso il gatto. Poi il maestro dice "Perdonaci". Lo stesso ripete quello che segue e il terzo aggiunge: "Lo sappiamo, signore". Il quarto conclude:"Dobbiamo ubbidire".
Terminata questa cerimonia si spengono le luci e i presenti si abbandonano alla lussuria più sfrenata, senza distinzione di sesso. Se ci sono più uomini che donne, gli uomini soddisfano tra loro gli appetiti depravati, e le donne fanno lo stesso.
Quando tutti questi orrori hanno fine, si accendono di nuovo le candele e tutti vanno al loro posto.
Poi, da un angolo scuro appare un uomo il cui corpo dai fianchi in su è brillante e luminoso come il sole, mentre nella parte inferiore è ruvido e peloso come quello di un gatto.
Il maestro taglia un pezzo dell'abito del neofita e dice rivolto al luminoso personaggio: "Padrone, costui mi si è concesso: a mia volta lo do a te".
Al che l'altro risponde "Mi hai servito bene, mi servirai anche meglio, quello che mi hai dato lo pongo sotto la tua custodia". E sparisce subito dopo aver detto queste parole.
Tutti gli anni, a Pasqua, essi ricevono il corpo del Signore dalle mani del sacerdote, lo portano in bocca e lo gettano tra le immondizie per recare offesa al Salvatore.
Questi uomini, i più miserabili, bestemmiano contro il Re dei cieli e nella loro pazzia dicono che che il Signore dei cieli ha operato da malvagio, gettando Lucifero nell'abisso.
Gli sventurati credono nel demonio, dicono che egli è creatore di tutti i corpi celesti e che, nei tempi futuri, dopo la caduta del Signore, ritornerà alla sua gloria.
Per mezzo di lui e con lui, non altrimenti sperano di raggiungere la felicità eterna e invitano a non fare ciò che piace a Dio ma ciò che a Lui dispiace".
Ed ecco, invece, alcuni stralci della cronaca del processo inquisitoriale, in cui comparve per la prima volta l'accusa concreta di stregoneria a carico di due donne e la descrizione circostanziata di un SABBA e della cerimonia di MESSE NERE, svoltosi, fra il 1330 ed il 1340, a Toulouse, nella zona di Carcassonne, con la RONDA E/O DANZA DEI DEMONI IN ASPETTO DI CAPRI (v.:H.CH.LEA): "Anna Maria di Georgel e Caterina, entrambe di Toulouse e in età matura, hanno detto nelle loro confessioni processuali che da circa vent'anni fanno parte dell'innumerevole esercito di Satana, concedendosi a lui, sia in questa come nell'altra vita. Che molto spesso, e sempre nella notte fra venerdì e sabato ( ma la scadenza settimanale del SABBA non d'obbligo cade di sabato, giorno dedicato a Saturno, il più oscuro dei pianeti ma anche, quasi per una sorta di sfida al divino, giorno consacrato alla Vergine. In molte credenze sembra preferirsi il giovedì, giorno di mezza settimana che rientra così nella simbologia del ponte che divide due concetti antitetici e di entrambi assorbe le caratteristiche, giorno che culmina il periodo settimanale della licenza, vigilia dei futuri tre giorni di penitenza, castità e digiuno, ed anche culmine del Carnevale) hanno assistito al SABBA, che si celebrava in un luogo o nell'altro....Ognuna, interrogata separatamente, ha dato spiegazioni che ci hanno portato alla convinzione della loro colpevolezza. Anna Maria di Georgel dice che una mattina, trovandosi da sola a lavare i panni della sua famiglia...vide venire verso di sè, sull'acqua, un uomo gigantesco, dalla carnagione molto nera, i cui occhi ardenti assomigliavano a due carboni accesi, vestito con pelli d'animali. Il mostro le chiese se voleva concedersi a lui, e lei rispose di sì. Allora lui le soffiò in bocca e dal sabato successivo fu portata al SABBA, per sua volontà. Qui trovò un CAPRONE gigantesco , che salutò ed al quale si abbandonò.
Il CAPRONE, in cambio, le mostrò ogni genere di segreti malefici .
Anna Maria di Georgel ha rivelato in seguito che nel lungo periodo di tempo trascorso dalla sua possessione sino all'incarceramento, non ha cessato di praticare il male e di compiere pratiche abominevoli, senza che la fermasse il timore del Signore. Così cuoceva in caldai, su un fuoco maledetto, erbe avvelenate, sostanze estratte sia dagli animali che dai corpi umani che, per un'orribile profanazione, avrebbe fatto alzare dal riposo dalla santa terra dei cimiteri (simili deliri non sono dunque esclusivo appannaggio delle menti malate, e dei vantaggi economici conseguenti, di alcuni registi contemporanei!) per servirsene nei suoi incantesimi; girovagava durante la notte intorno alle forche patibolari, sia per sottrarre strisce ai vestiti degli impiccati, sia per rubare la corda da cui pendevano, o per impossessarsi dei loro capelli, unghie e grasso...Ha voluto pentirsi, ha chiesto di riconciliarsi con la Chiesa, il che le è stato concesso, senza che per questo possa evitare di essere consegnata al potere secolare, che valuterà le pene in cui è incorsa.
Caterina, moglie di Pietro Delort, di Toulouse, è stata dichiarata colpevole: secondo le sue dichiarazioni e le testimonianze di persone affidabili dieci anni fa...si unì in criminale amicizia con un pastore che, abusando del suo ascendente su di lei, la costrinse a stringere un patto con lo spirito infernale. questa odiosa cerimonia ebbe luogo a mezzanotte, in un bosco, nel crocicchio di due strade (altro conosciutissimo topos del SABBA, legato all'idea di cerchio, figura che confonde i limiti e ottenebra i sensi con le vertigini del perpetuo moto -si pensi alla danza sabbatica, ancor più eseguita di spalle, ai girotondi ebbri delle feste di piazza, del Carnevale, a quelli instancabili dei bambini-, simbolo della Luna, di Diana cacciatrice, di Ecate dea degli Inferi, astro inciso sulla fronte delle sacerdotesse celtiche, da sempre simbolo della femminilità).
Qui si fece sanguinare il braccio sinistro, lasciando scorrere il sangue su un fuoco alimentato da ossa umane, rubate nel cimitero della parrocchia, pronunciò strane parole di cui non si ricorda, e il demonio Berit le comparve sotto forma di fiamma viola.
Da allora si occupa della preparazione di certi ingredienti e beveragggi nocivi, che causano la morte di uomini e greggi. Ogni sabato notte sprofondava in un sonno straordinario, durante il quale veniva trasportata al SABBA.
Interrogata sul luogo in cui veniva celebrato, ha risposto che alcune volte si celebrava in un posto, altre volte in un altro...
Qui [Caterina di Tolosa] adorava il CAPRONE e si concedeva a lui, come tutti i presenti in quella festa infame.
Si mangiavano cadaveri di bambini appena nati, strappati alle loro balie durante la notte; si beveva ogni tipo di liquori sgradevoli e tutti gli alimenti erano privi di sale....
Caterina, vivamente incalzata dai mezzi di cui disponiamo per far dire la verità, dopo aver protestato a lungo la sua innocenza e dopo aver pronunciato numerosi giuramenti falsi, è stata giudicata colpevole di tutti i reati di cui era stata sospettata. Faceva cadere la grandine sui campi di quelli che odiava, faceva marcire il grano grazie ad una nebbia pestilenziale, e gelare le vigne.
Provocava malattie mortali ai buoi e alle pecore dei suoi vicini per i benefici che ciò le dava. Per lo stesso motivo provocò la morte delle sue zie, in quanto doveva essere l'erede, esponendo a fuoco lento, moderato, delle immagini di cera vestite con qualche loro camicia, in modo che la vita di quelle donne disgraziate si consumasse man mano che le due statue fondevano nel braciere".




sabato 4 novembre 2017

Il futuro Vescovo di Santo Domingo che aveva già aiutato Cristoforo Colombo

Alessandro Geraldini nacque ad Amelia, presso Terni, nel 1455; la madre, Graziosa Geraldini, figlia di Matteo, andò in sposa in prime nozze ad Andrea di Giovanni Geraldini, un lontano cugino, e poi, morto costui, a Pace Bussitani. Dalla prima unione nacque Antonio, dalla seconda il G.: data la preminenza della famiglia Geraldini, dovette sembrare conveniente che anche egli assumesse il cognome materno. La famiglia Geraldini, un'antica casata di milites dell'Umbria meridionale, era saldamente radicata in quell'area geografica e in particolare nella Chiesa locale, tanto che alcuni suoi esponenti avevano raggiunto elevate posizioni nella gerarchia ecclesiastica. Ad Amelia il G. apprese le humanae litterae frequentando la scuola di Grifone di Amelia, un umanista assai conosciuto nella cittadina umbra.
Secondo il suo biografo secentesco Onofrio Geraldini de' Catenacci, nel 1469 il G. si sarebbe trovato, insieme con il più anziano fratello Antonio, al seguito di una missione diplomatica dello zio Angelo presso il re d'Aragona Giovanni II e sarebbe da allora rimasto in Spagna.
Tuttavia, in un elenco della famiglia, stilato nell'ottobre 1473, non si fa riferimento a incarichi fuori dall'Italia.
La prima notizia della sua presenza in Spagna, riportata da Antonio, riguarda la partecipazione del G. alla guerra tra Castiglia e Portogallo, già nel 1475.
In un secondo tempo, forse anche per via del successo di Antonio a corte, il G. lasciò la vita militare e mise a disposizione dei sovrani le sue conoscenze di umanista.
Ebbe dapprima incarichi cerimoniali, poi, già prima del marzo 1477, fu segretario reale.
Probabilmente tra il 1484 e il 1485 partecipò, al seguito del fratello, a una missione diplomatica in Bretagna.
In questi anni ricevette l'ordinazione sacerdotale.
Antonio, però, morì all'età di 40 anni, nel 1489, e il G. gli successe nella carica di precettore delle principesse, in particolare dell'infanta Caterina.
Alla corte dei re Cattolici i fratelli Geraldini ebbero probabilmente modo di incontrare e aiutare Cristoforo Colombo.
Nel 1492, in una seduta della Giunta di Santa Fé che doveva decidere sull'attuabilità del progetto di Colombo, di fronte all'obiezione secondo cui sia S. Agostino sia Nicola de Lyra ritenevano impossibile una simile navigazione, il G. si sarebbe schierato a favore, sostenendo che i due erano sì grandi teologi ma non si erano mai occupati di geografia.
 [Proprio questa certa familiarità con i reali di Spagna verosimilmente fu ciò che permise a Geraldini (vedi tra le sue opere la maggiore, cioè l'Itinerarium: che senza dubbio e data la temperie culturale non poteva non esser gradita, ad esempio ma non solo, per l'esotismo e certe fantasiose descrizioni, ad Aprosio come a molti altri eruditi del tempo), a differenza d'altri parimenti convinti della plausibilità dell'impresa, d'osare di intervenire con favore nei progetti proposti da Cristoforo Colombo per il suo viaggio verso le presunte Indie occidentali (vedi qui la digitalizzazione dei viaggi di C. Colombo: in generale quindi analizza la seguente documentazione digitalizzata = vedi ancora qui = Colombo il tormento e l'estasi di un'immane scoperta geografica - Amerigo Vespucci (le sue lettere al Soderini sull'' "America") - Magellano e la circumnavigazione del globo - A. Pigafetta e la sua relazione sull'impresa di Magellano - Elenco di viaggi, navigazioni ed esplorazioni tra XIV e XVIII secolo condotte per conto della Spagna)].
Secondo gli scritti del G., in seguito Colombo, memore dell'episodio, avrebbe dato il nome della madre dei fratelli Geraldini, Graziosa, a una delle isole scoperte nel suo terzo viaggio e da situare presso la costa venezuelana.
Non era certo l'avventura verso Occidente che poteva interessare allora il G.: egli cercava infatti di progredire nella carriera ecclesiastica e ottenne nel 1496 la titolarità di un modesto vescovato, la diocesi di Volturara e Montecorvino, tra i monti dell'Irpinia. Non sappiamo nulla dei rapporti tra il G. e la sua diocesi né è noto se mai vi si recò, benché nella principale delle sue opere, l'Itinerarium ad regiones sub æquinoctiali plaga constitutas (l. XV), il G. stesso racconti di aver accompagnato il re Ferdinando d'Aragona nel suo viaggio napoletano compiuto tra l'estate del 1506 e l'estate dell'anno successivo, allo scopo di visitare il Regno recentemente acquisito. Nel frattempo presso la corte di Castiglia si era aperta una lunga fase di instabilità, iniziata nel 1497, a causa della morte inaspettata del primogenito Giovanni, e durata almeno fino all'ascesa al trono di Carlo d'Asburgo (1516). L'incertezza sulla successione al trono, la morte di Isabella nel 1504, la "follia" di Giovanna, l'arrivo degli Asburgo e le conseguenti difficoltà in cui si trovò Ferdinando il Cattolico, dovettero procurare seri problemi anche al G. che, di fatto, non ebbe più una funzione precisa a corte. Inoltre, nel 1501, la sua allieva Caterina aveva sposato Arthur, figlio del re d'Inghilterra Enrico VII. Il G. partecipò alle trattative per il matrimonio o all'organizzazione delle cerimonie nuziali; comunque seguì la sposa in Inghilterra, e vi rimase dal novembre 1501 al giugno dell'anno successivo. Arthur morì il 2 apr. 1502 e ciò pose gravi problemi alle due monarchie. Sulla questione se il matrimonio fosse stato o meno consumato - questione essenziale che allora si pose perché Caterina potesse sposare il secondogenito, il futuro Enrico VIII - il G. dovette assumere una posizione contrastante con gli interessi sia dei Tudor sia dei re Cattolici, e fu perciò richiamato in Spagna. È possibile, inoltre, che in questa occasione nascessero gravi contrasti con Caterina, cosa che - nonostante i ripetuti tentativi nei quindici anni seguenti - gli precluse ogni opportunità di inserirsi nella corte inglese. Nel 1515 è da collocare un secondo viaggio del G. in Inghilterra; non è chiaro però se si trattasse di un incarico di Ferdinando - per cercare di risolvere i problemi che il comportamento scandaloso del confessore spagnolo di Caterina creava ad Enrico - o se si trattasse solo del tentativo, abbondantemente testimoniato, di ottenere sostanziosi riconoscimenti della sua precedente attività di precettore e di cappellano privato. In ogni caso non ottenne nulla da Caterina, né una ricompensa né, tanto meno, la possibilità di rimanere a corte. Fallite le speranze inglesi e ritornato in Spagna, al G. la situazione non sembrava soddisfacente, non avendo egli ancora raggiunto quel prestigio cui ambiva per sé e la sua famiglia. 
Il 6 dic. 1515 si era reso vacante il vescovato di Santo Domingo, per la morte di Garcia de Padilla, il primo ad essere investito di quella carica benché non avesse mai raggiunto la sua sede episcopale. Il G. decise allora di proporsi come vescovo della diocesi nel Nuovo Mondo. Gli accordi con la corte spagnola dovettero essere perfezionati ben presto se la morte di Ferdinando, avvenuta il 23 genn. 1516, non bloccò la procedura: il G. fu presentato ufficialmente al papa come vescovo di Santo Domingo il 26 genn. 1516. Il G. era interessato alle ricchezze dell'isola, che promettevano rendite comunque incomparabilmente superiori a quelle di Volturara. Con le sue conoscenze e la sua cultura egli pensava inoltre di poter essere l'organizzatore di tutta la Chiesa del Nuovo Mondo e per questo sviluppò intensi contatti con la Curia romana e con il papa Leone X, al quale più tardi avrebbe dedicato il suo Itinerarium. Le ricchezze delle Indie, di cui si favoleggiava e da cui il G. poteva aspettarsi le decime, o il ruolo eminente che sognava di svolgere, gli avrebbero inoltre consentito di beneficare molti giovani nipoti, come in effetti fece. Non è poi escluso che la sua passione per gli esotismi, che si riflette chiaramente nell'Itinerarium, fino a occuparne quasi tutta l'estensione, abbia contribuito a motivare la scelta, indubbiamente coraggiosa. Ma la ragione principale stava nell'instabilità politica della corte spagnola e nelle crescenti difficoltà dello stesso G. a trovare un ruolo stabile. Sicuramente influì sulla sua scelta la presenza a Hispaniola di un gruppo di funzionari legati al sovrano aragonese che egli doveva aver frequentato a corte; in particolare si giovò sempre dell'appoggio di Miguel de Pasamonte, il potente tesorero dell'isola, di cui era amico. Nel 1515, comunque, il G. non aveva ancora preso la decisione di recarsi nei Caraibi: ancora due anni dopo vi inviò il nipote Onofrio e un criado (Diego del Río) col compito di curare i suoi interessi, facendoli accettare come canonici del capitolo della cattedrale di Santo Domingo. Intanto cercò di scoprire se, nelle attività diplomatiche della Curia romana, potevano aprirglisi altre opportunità; solo tre anni dopo la bolla papale di nomina (6 nov. 1516) il G. avrebbe raggiunto l'isola di Hispaniola, nel settembre 1519. Nella primavera del 1516 il G. si recò probabilmente nelle Fiandre per prendere contatti col nuovo sovrano, Carlo, e per riprendere quelli con Margherita d'Austria, reggente dei Paesi Bassi, la sfortunata sposa del principe Giovanni che nel 1497 - durante i mesi di permanenza alla corte spagnola - era stata sua allieva; a lei il G. chiese sostegno economico e appoggi. Nell'estate si recò a Roma, dove partecipò alla congregatio generalis dell'XI sessione del concilio Lateranense V, seduta preliminare in cui si prese visione dei materiali e dei problemi da discutere (15 dic. 1516). Il G., impegnato al servizio del pontefice, continuava a rinviare il viaggio nella sua sede episcopale, con grave disappunto delle autorità spagnole, secondo cui l'assenza del vescovo era tra le cause delle difficoltà degli Spagnoli nel Nuovo Mondo. Così, se nel febbraio 1517 una real cédula ordinava alle autorità di Hispaniola di consegnare ai suoi inviati (Onofrio e Diego del Río) le rendite vescovili finché il titolare non fosse giunto nell'isola, il 22 luglio un'altra disposizione sollecitava il vescovo a recarsi di persona e senza indugio a prendere possesso personalmente della sua sede. Ma il G. si trovava in Inghilterra, inviato dal papa per perorare la causa di una crociata di tutta la Cristianità contro i Turchi. L'ambasciatore veneto lo vide, il 23 luglio 1517, al sinodo di Ten, e osservò che il primate inglese, l'influente cardinale Th. Wolsey, fu ben poco impressionato dalla sua missione. Il G. aveva in programma analoghe iniziative in Scozia e in Germania, che quasi certamente non realizzò, fermandosi invece in Inghilterra, da dove scrisse una lettera ai padri geronimiti a Santo Domingo (13 settembre).
Una Oratio Alexandri Geraldini episcopi coram rege Russiae habita, spesso citata dai biografi come testimonianza di una sua ambasceria allo zar, non sembra essere il testo di un discorso realmente pronunciato, ma è piuttosto da considerare come un'esercitazione letteraria o come il tentativo di proporsi per tale missione diplomatica. 
Non sappiamo se il G. ritornò sul continente o se rimase in Inghilterra, da dove l'estate successiva scrisse ai canonici della sua cattedrale a Santo Domingo e dove forse partecipò alla missione del cardinale Lorenzo Campeggi, al fine di assicurare la partecipazione di Enrico VIII alla progettata crociata. Campeggi fu nell'isola dal 23 luglio al 24 agosto; il G. salpò per la Spagna solo il 18 settembre, giungendo a Cadice il 29 ott. 1518. Tra la fine del 1518 e l'estate del 1519 il G. fu interamente assorbito dalla preparazione del suo trasferimento, come risulta dalla corrispondenza di quell'anno abbondantemente conservata. Il G. scrisse al conte Alberto Pio di Carpi per tentare di pubblicare le sue opere e chiamò in Spagna il nipote Lucio, che in seguito sarebbe stato suo tramite privilegiato con l'Europa, cui fece attribuire una rendita ecclesiastica a Santo Domingo.  Accingendosi a partire per il Nuovo Mondo, il G. tentò di approfittare della situazione critica determinatasi in Spagna e nella colonia a causa del cambiamento della dinastia per ottenere, insieme con la dignità episcopale, anche cariche civili. In una lettera della fine del 1518 indirizzata al Consiglio della Corona, il G. chiedeva per sé importanti attribuzioni politiche e amministrative: il potere di controllare l'assegnazione degli indios ai coloni spagnoli, una funzione chiave nell'economia di una terra che dipendeva totalmente dalla manodopera indigena; la carica di presidente dell'Audiencia, che non era solo un organo giudiziario avendo anche importanti attribuzioni politico-militari; il compito di curare l'educazione dei figli dei caciques, già iniziata dai padri geronimiti. A parte l'ultima, le sue richieste non furono accolte. Il 31 luglio 1519 il G. scrisse al re Carlo la sua ultima lettera da Siviglia e finalmente, il 4 ag. 1519, partì per Hispaniola; il 6 ottobre era già insediato a Santo Domingo. Come l'isola di Hispaniola era allora il punto d'irradiazione per la scoperta e conquista di nuove terre, così la sede episcopale di Santo Domingo poteva diventare il fulcro della nuova Chiesa americana. In secondo luogo, era ben consapevole dell'importante ruolo civile che aveva da svolgere nel disciplinamento di quella società che, nei suoi scritti, si confondeva con la "ferocia" dei cannibali, e che gli sembrava fosse a rischio di anarchia. Proprio in vista di questo scopo era importante poter esibire i simboli dell'autorità e della maestà religiosa: la cattedrale, i quadri, il Ss. Sacramento, la sede vescovile; ma anche mostrare i segni della paterna misericordia di Dio, del papa, del vescovo: l'ospedale, il perdono delle atrocità commesse, il dono della civiltà agli indigeni. Tuttavia non era facile ottenere ciò di cui la diocesi aveva bisogno: le due successioni ravvicinate al trono pontificio e l'enorme distanza che ormai lo separava dai luoghi del potere annullarono l'efficacia degli sforzi del Geraldini. Perfino i lavori per la cattedrale iniziarono solo nel 1523, nonostante la prima pietra fosse stata posata due anni prima. Verso la popolazione indigena il Geraldini ebbe un atteggiamento contraddittorio come spesso è controverso tuttora il discorso sull'opera dei missionari cattolici. L'ammirazione umanistica per le antiche civiltà pagane di Roma e dell'Ellade gli consentiva di assumere un contegno paternalisticamente ecumenico: i pacifici indios Taino dell'isola sono, nei suoi scritti, esseri strappati loro malgrado alla pace e all'innocenza di una sorta di paradiso terrestre, costretti a una disperazione tale da giungere fino al suicidio collettivo; nei fieri Caribe volle riconoscere un'umanità, una storia "antica" e delle "tradizioni", sia pur inaccettabili. Inoltre condannò fermamente gli Spagnoli che si erano resi colpevoli di atrocità ai danni degli indigeni. Essi non potevano non essere perdonati, in quanto cristiani, ma andavano sottomessi all'autorità morale della religione: il G. proponeva che chi per avidità aveva depredato e sfruttato gli indigeni si liberasse dalla colpa restituendo almeno una parte dell'ingiusta ricchezza, acquistando indulgenze a favore della cattedrale e dell'ospedale. Ma quando i religiosi dell'Ordine di S. Domenico scatenarono la battaglia contro il sistema dell'encomienda e contro il commercio degli schiavi indios - catturati dagli Spagnoli in vere e proprie razzie sulle coste del Venezuela e deportati nelle isole maggiori dei Caraibi - il G. li osteggiò. Chiese al papa di farli tacere e di permettere l'acquisto di schiavi, perché indispensabili alla colonizzazione e per consentire loro di avvicinarsi alla fede. Al di là della trasfigurazione letteraria e di alcuni atteggiamenti di maniera, il G. non abbandonò mai gli atteggiamenti pragmatici e utilitaristici dei colonizzatori spagnoli nel Nuovo Mondo. Secondo questa posizione - sostenuta dai coloni contro i quali si battevano i frati domenicani e Bartolomeo de Las Casas - l'estensione della cultura e della religione europee alla popolazione indigena non poteva essere disgiunta dalla loro utilizzazione come manodopera coatta al servizio degli Spagnoli: in caso contrario non era possibile garantire la presenza europea nelle terre americane. D'altra parte, sin dai primi contatti con il Nuovo Mondo il G. non aveva trascurato i suoi interessi di colonizzatore. Già nel 1519, al momento della partenza, chiese senza successo il permesso di importare nell'isola un buon numero di schiavi negri da impiegare nella nascente industria zuccheriera di Hispaniola, che si avviava a soppiantare l'industria mineraria e per la quale erano previsti contributi governativi. Nei Caraibi, poi, il G. fu interessato ai commerci più lucrosi, pur facendo ovviamente agire in prima persona i familiari di cui si era circondato a Santo Domingo (ai canonici della cattedrale Onofrio e Diego del Río si erano aggiunti almeno la nipote Elisabetta e il marito). Nel 1521 un Geraldini è menzionato tra i primi coloni di Cubagua, l'isola venezuelana in cui schiavi indios pescavano in condizioni inumane le perle da avviare ai mercati europei. L'anno dopo, infine, il G. stesso figura come titolare di un'attività commerciale e un suo nipote è proprietario di una nave: vendevano nell'isola di Cubagua il pan de cassaba di Santo Domingo e non è improbabile che partecipassero anche al commercio degli schiavi. Il G. morì l'8 marzo 1524 a Santo Domingo, nella cui cattedrale si trova tuttora il sepolcro essendo in pieno vigore lo scontro sui diritti degli amerindiani e sull'encomienda.
Santo Domingo, Castello Colombo - Fonte: Wikipedia
Qui fu costretto ad affrontare subito grossi problemi pratici. La chiesa cattedrale era una costruzione troppo modesta sia per ospitare un numero di fedeli che il nuovo vescovo immaginava crescente, sia per svolgere adeguatamente il suo ruolo simbolico di centro della Chiesa locale, mentre non esisteva nemmeno una sede vescovile. Inoltre, una parte della popolazione spagnola e dei vertici politici dell'isola vedeva con grande diffidenza il presule: il governatore Figueroa, infatti, scrisse alla corte spagnola che il nuovo vescovo appariva del tutto imbelle e che ragionava come un bambino. Invece il G. mostrava una notevole capacità organizzativa e inviava lettere al papa, al re, a vari prelati e uomini politici per ottenere aiuti: al re chiese in donazione uno dei due palazzi che la Corona possedeva a Santo Domingo, al papa - dal quale il G. si aspettava un appoggio decisivo - domandò indulgenze per raccogliere soldi da destinare alla cattedrale e all'ospedale, l'invio di reliquie di santi martiri e di quadri sacri. Nello stesso tempo informava Roma dei progressi della scoperta e conquista del Nuovo Mondo e inviava uccelli esotici ed effigi di idoli indigeni (zemí) che chiedeva fossero esposti in S. Pietro come testimonianza dell'opera di evangelizzazione. Il G. concepiva il suo ruolo in maniera ambiziosa e lungimirante.