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martedì 29 dicembre 2015

Christine de Pizan, femminista ante litteram

Christine de Pizan offre una copia dei suoi lavori alla regina Isabella di Baviera, moglie del re Carlo VI (Fonte dell'immagine: Wikipedia)
Christine de Pizan, nata a Venezia nel 1364 (morta nel 1430 c., forse a Poissy) da genitori italiani, venne educata in Francia, dove il padre, originario di Pizzano [Bologna], da cui il nome, era medico e astrologo alla corte di Carlo V.

Rimasta vedova, Christine cercò nella letteratura una fonte di guadagno e di prestigio, componendo molte opere di circostanza in versi e prosa, narrazioni storiche e compilazioni morali, che le venivano commissionate. Denota autentica vena lirica allorchè canta la propria pena o partecipa al dramma del paese dilaniato dalla guerra dei cent'anni.

Tra le sue opere,  il Detto della Pulzella (1429), un poema su Jeanne d'Arc, il Detto della rosa (1401), in cui assume posizione contro l'antifemminismo di Jean de Meung, e la Città delle dame (Livre de la cité des dames, 1405), che Christine stese rapidamente nell'inverno tra il 1404 e il 1405, elaborando non senza ingegno alcune vere e proprie postazioni utopistiche.

Proprio in quest'ultima opera a riguardo di Semiramide lasciò scritto, andando pienamente controcorrente: Semiramide fu una donna di immenso valore e grande coraggio nelle imprese e nell'esercizio delle armi. Fu sposa del re Nino, che diede il nome alla città di Ninive, e diventò un grande conquistatore grazie all'aiuto di Semiramide, che cavalcava in armi al suo fianco. Egli conquistò la grande Babilonia, i vasti territori degli Assiri e molti altri paesi. Questa donna era ancora molto giovane quando Nino venne ucciso da una freccia, durante l'assalto a una città. Dopo aver celebrato solennemente il rito funebre la donna non abbandonò l'esercizio delle armi, anzi più di prima prese a governare e realizzò tali e tante opere notevoli, che nessun uomo poteva superarla in forza e in vigore. Era così temuta come guerriera, che non solo mantenne i territori già conquistati ma, alla testa di una grande armata, mosse guerra all'Etiopia, contro cui combatté con ardimento, conquistandola e unendola al suo impero. Da lì partì per l'India e attaccò in forze gli Indiani, ai quali nessuno aveva mai osato dichiarare guerra, li vinse e li soggiogò. In seguito arrivò a conquistare tutto l'Oriente, sottomettendolo alle sue leggi. Oltre a queste conquiste, Semiramide fece ricostruire e consolidare la città di Babilonia, fece costruire nuove fortificazioni e grandi e profondi fossati tutt'intorno. 

E, cercando di essere esaustiva in questo suo assunto innovativo, l'autrice appone una chiosa non esente da modernità, cercando di storicizzare le scelte di Semiramide in altri contesti cronologici altrimenti indifendibili: È ben vero che molti la biasimarono - e a buon diritto se avesse vissuto sotto le nostre leggi - per il fatto che prese come marito un figlio che lei aveva avuto da Nino, suo sposo. Ma i motivi che la spinsero a ciò furono principalmente due: prima di tutto non voleva che nel suo impero ci fosse un'altra dama incoronata oltre a lei, fatto inevitabile se suo figlio avesse sposato un'altra, e poi che nessun altro uomo era degno di averla in moglie, all'infuori di lui. Ma la si può giustificare per questa mancanza, che fu veramente grave, poiché non vi erano ancora leggi scritte: in questo modo la gente viveva secondo la legge di Natura, e ognuno si sentiva libero di agire come gli pareva, senza commettere peccato. È fuori dubbio che, se avesse pensato di agire male o che avrebbe potuto riceverne biasimo, non si sarebbe mai comportata così: essa aveva un animo nobile e un grande senso dell'onore.
La sinistra nomea - invero - della “sconcia e perfida” Semiramide [mitica regina degli Assiri, probabilmente da identificare con la regina babilonese Shammuràmat (o Sammu-ramat), moglie del re assiro Shamshiadad V (regnante dall'811 all'808 a.C.) e poi reggente per il figlio Adadnirari III: per la leggenda al contrario figlia della dea Derceto e del siriano Caistro, sposa di Onne, poi del re Nino (Adad Nirari o Adad Ninari)] rientra nelle corde di diversi autori. Da Giustino (martire cristiano del II secolo d.C.) a Sant'Agostino soprattutto ed ancora al suo discepolo Paolo Orosio.
La condanna è sempre inequivocabile: per alcuni Semiramide fece legittimare l'incesto col proprio figlio, per altri fu scacciata e uccisa dal figlio per sottrarle il potere, per altri ancora finì suicida.
Erodoto di Alicarnasso (V secolo a.C.) e il sacerdote babilonese Beroso (III secolo a.C.) sono forse i più attendibili e obiettivi: ne parlano come di una grande sovrana, che durante il suo regno conquistò la Media, l'Egitto e l'Etiopia, insieme a grandi opere di pace come l'edificazione delle mura e dei giardini pensili di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico.

da Cultura-Barocca



mercoledì 16 dicembre 2015

Il Porto Franco di Genova

Palazzine del Porto Franco di Genova in una incisione di fine XVIII sec. di A. Giolfi e G.L.Guidotti
Il "PORTUS IMMUNIS" traducibile col termine di PORTOFRANCO ufficialmente fu istituito l'11 agosto 1590 quando Genova fu colpita da una terribile carestia.
Con tale termine si alludeva alla concessione di grandi benefici sotto forma di dazi e pagamenti da concedere alle navi granarie che fossero giunte al grande porto ligure.
Questo espediente (che diede frutti positivi) in realtà non era del tutto nuova anche se ufficializzato solo da tale data: oltre cinquantanni prima, nel 1531, si era infatti sancito un provvedimento analogo di grosse agevolazioni a vantaggio delle navi che fossero approdatye allo scalo genovese avendo almeno i due terzi del carico composti di cerali e legumi.
Il provvedimento ufficiale del 1590 peraltro non potè nemmeno essere temporaneo -come da qualche parte si sperava- in quanto la carestia si manifestò con violenza anche nel 1591.
Le agevolazioni furono quindi ribadite ed anche estese: i vantaggi fiscali erano significativi per i mercanti del nord Europa, in particolare per gli Olandesi che trasportavano grandi quantità di cereali.
Per certi aspetti la carestia costrinze l'oligarchia genovese di fine '500, tutta impegnata nelle operazioni finanziarie ed ormai piuttosto estranea alle vicende del porto in cui pure si era formata la fortuna dei suoi avi, a rioccuparsi dei destini del commercio.
Nel '500 la marineria genovese risenta di un'evidente CRISI a tutto vantaggio di altre basi commerciali mediterranee e non.
Per quanto possa sembrare strano l'istituzione da parte dei ducali di Firenze di un Portofranco a Livorno -in alternativa all'ormai interrato porto di Pisa- finì per costituire un successo a fronte della decadenza del porto genovese.
Con l'istituzione del PORTOFRANCO Genova vide fiorire gli scambi con l'Olanda le cui navi ormai contendevano a quelle tedesche e soprattutto inglesi l'egemonia dei commerci.
Alla fine di favoprire il successo del "Portofranco genovese", a scapito di quello di Livorno, non si ricorse a mezze misure.
Per esempio il comandante Gio De Mari ricevette l'incarico di recarsi nel porto di La Spezia con un liuto, ben fornito di armi e uomini, allo scopo di convincere gli Olandesi (e gli eventuali altri meracnti) di recedere da Livorno e riparare a Genova (l'incarico diceva di usare "ogni cortesia" ma, in modo più o meno esplicito, lo spiegamento, pur dimostrativo, dei mezzi di guerra finiva per costituire un probante elemento persuasivo).
Nonostante il modo discutibile l'operazione èpropagandistica a favore del "Portofranco genovese" ebbe successo: le navi olandesi cominciarono a portare allo scalo ligure il prezioso grano polacco che commerciavano.
Così (fiorendo la collaborazione mercantile tra Genova ed Olanda, collaborazione che si protrarrà fino alla morte della Repubblica a fine '700) il "portofranco" nel 1606 fu trasformato in PORTOFRANCO GENERALISSIMO cioè con l'estensione di agevolazioni per le navi che vi portassero molte altre merci e non solo più i cereali.
Per il sistema portuale e mercantile di Genova, dopo la dedenza del '500, si ebbe per il XVII secolo un rifiorire abbastanza celere.
Allo scalo genovese giunsero così nuove merci e si potenziarono particolari tipi di scambi.
Si cita soprattutto l'importazione di cerali e di merluzzo del Nord Europa in cambio delle apprezzatissime sete e lane liguri.
L'amministrazione del "Portofranco" qualche decennio dopo, precisamente nel 1623, venne concessa al BANCO DI S. GIORGIO.
Sotto questa amministrazione -destinata a continuare ininterrottamente sino alla fine della Repubblica di Genova- il PORTOFRANCO crebbe di importanza.
Verso la metà del XVII secolo nel "portofranco" si potevano riconoscere oltre un centinaio di "case", grossomodo quello che si potrebbero oggi definire le organizzazioni degli spedizionieri.
Assieme ai liguri avevano infatti aperto "case" anche mercanti francesi, olandesi, inglesi ed anche ebrei -particolarmente favoriti allo sacopo di allontanarli da Livorno che costituiiva una loro base storica-.
L'espediente genovese anche se portò dei frutti non potè sconfiggere l'iniziativa ducale: Livorno avrebbe infatti continuato a fiorire per la tempestività dell'iniziativa e l'esperienza rapidamente maturata e non mancarono città liguri che, come nel caso di SARZANA, abituate ad intrattenere relazioni vantaggiose coi traffici di Livorno, si ritennero penalizzate dal Portofranco genovese sin al punto di avanzare proteste ufficiali presso il Senato della Serenissima.
Tuttavia lo scalo genovese ebbe dei vantaggi considerevoli che furono testimoniati dal lato delle sovrastrutture, oltre che dall'impianto di imprese spedizioniere, anche dalla realizzazione di nuovi edifici per la conservazione di merci e prodotti.
A questo proposito meritano di essere ricordati i DEPOSITI PER L'OLIO IN PORTOFRANCO, un cui disegno fu allegato al "Registro degli edifici posseduti dalla Casa di S. Giorgio" .


sabato 12 dicembre 2015

Il Pok-a-tok degli Amerindi

  "In questo modo giocavano gli INDI, con una palla gonfiata che colpivano con il deretano abbassandosi fino a terra. Una pelle rigida, per consentire un solido rimbalzo della palla, ricopriva le parti posteriori. Portavano anche dei guanti di pelle". COME SI VEDE, NELL'IMMAGINE SOPRA PROPOSTA fatta con disegno a penna colorato all'acquerello, ora nel CODICE CHE DA LUI HA PRESO NOME (conservato al Museo di Norimberga), Cristoph Weiditz (nel XVI secolo al seguito di CORTEZ e dei CONQUISTATORI SPAGNOLI) verisimilmente ha rappresentato la prima PALLA DI CAUCCIU' nota nel mondo. All'epoca, data la SCOPERTA DI UN NUOVO MONDO era comune che tra i "Conquistadores" vi fossero personaggi deputati ad effigiare immagini che si sarebbero potute disperdere con le guerre = rimane emblematico ed enigmatico anche questo RITRATTO DAL VIVO DELL'ULTIMO IMPERATORE INCA.
Con la PALLA DI CAUCCIU', molto più efficiente delle PALLE E DEI PALLONI (realizzati comprimendo stracci od usando pelli animali diversamente riempite e quindi ben cucite) utilizzati in molti dei GIUOCHI STORICI DI CUI QUI SI PROPONE UN ESAURIENTE INDICE TEMATICO variamente in uso in Europa, gli Amerindiani giocavano in grandi SFERISTERI OVE SI PRATICAVA UNA SORTA DI GIUOCO SACRO DETTO "POK-A-TOK", DAGLI EUROPEI PRESTO DEFINITO "GIUOCO DELLA PALLA".
Può sorprendere come, anche, alla base del loro tipo di PALLONE e della loro ABILITA' risiedette l'affermazione, con crescente successo anche per le rappresentazioni ludiche anche come giocolieri con altri attrezzi cui furono costretti come schiavi ad esibirsi dietro compenso a pro dei padroni in Europa dai talora criminosi MARCANTI DI MERAVIGLIE nelle Corti ma poi anche nelle Piazze in occasione di Fiere e Mercati.
All’interno dello Stadio o più propriamente Sferisterio (molte città ne avevano, questo è per molti lati il più celebre ovvero lo sfristerio di "Chichen Itza" il cui toponimo è traducibile nel significato “Alla bocca del pozzo degli Itza) veniva praticato il gioco del Pok-a-Tok ossia il gioco della palla: su cui esistono, con qualche lacuna documentaria, interpretazioni anche divergenti, seppur senza grosse distinzioni ma che non aveva tanto una valenza ludica come per gli stadi od anfiteatri allestiti già ai tempi di Roma ma che comportava forti valenze religiose e mistiche connesse con valenze sia strologiche che astronomiche. Il campo da gioco raffigurava la Terra mentre la palla simboleggiava il Sole di maniera che la palla cadeva era come se al Sole non fosse concesso di risorgere dalle Tenebre e dar vita al mondo.
Nel gioco, se così vogliamo chiamare quella che primieramente era una cerimonia, si affrontavano due squadre rispettivamente costituite da sette giocatori che dovevano far passare la palla negli anelli (uno di questi si vede nell'immagine proposta) utilizzando i gomiti, i polsi, le cosce e le mani (sull'uso delle mani con verosimiglianza i narratori antichi non concordano).
La palla, che era di caucciù, superava i cinque chilogrammi di peso, per cui la vittoria era sempre e comunque una sorta di impresa nel corso della quale nell'interpretazione di Pietro Martire d'Anghiera testimone oculare ai tempi della Conquista del Nuovo Mondo il capitano della squadra vincitrice avrebbe avuto diritto a tutti i vestiti e gioielli degli spettatori mentre all'opposto il capitano della squadra sconfitta avendo alterato gli equilibri universali, anche facendo cadere a terra la palla, sì da consegnarla all'oscurità e alle tenebre invece che al sole sarbbe stato sacrificato agli Dei.
Qui nell'immagine dello sferisterio della celebre città maya di Cichen Itza ai lati estremi del campo si vedono i resti di due templi uno dedicato al Sole e uno alla Luna: obbiettivamente anche in questo gioco sacro sussisteva una sorta di religione (cultura) del sangue che gli Aztechi ebbero in comune con i Maja e che applicarono a pro degli Dei del loro immenso Pantheon (vedi qui da testo antiquario l'elenco delle divinità).
Il gioco, inteso dagli Europei come un processo esclusivamente ludico, non aveva però l'innocente funzione che gli si attribuiva e che fece ritenere gli indigeni precolombiani dei provetti giocolieri: esso rientrava in un complicato SISTEMA RELIGIOSO proprio dell'arcana CULTURA SPIRITUALE DEL SANGUE. Quando se ne avvidero, i conquistatori europei fecero rientrare anche questo "giuoco rituale" nel contesto delle RELIGIONI PRECOLOMBIANE CONNESSE AL CULTO: PER DEI SANGUINARI, DAI CONNOTATI DIABOLICI, STREGONESCHI E VAMPIRESCHI. Assieme ad altre aspetti delle civiltà amerindiane OGNI COSA DISTRUSSERO FIN ALLA RADICE; ancora una volta trassero il destro per annegarla, con le splendide città di cui faceva parte, in una efferata tragedia di sangue poco connessa alla soppressione di qualche barbara ritualità, quanto primieramente motivata dalla frenesia di trovare sempre nuove motivazioni per far conquista e arricchirsi smodatamente. Non a caso i GIOCOLIERI AZTECHI non furono lasciati in AMERICA O NELL'ANAHUAC nella CONDIZIONE DI SCHIAVI LAVORATORI, ma per sfruttare la loro perizia vennero sì schiavizzati per essere venduti a MERCANTI DI MERAVIGLIE,  ONDE ESSER ESIBITI IN EUROPA NELLE PIAZZE MA ANCHE NELLE CORTI QUALI FENOMENI DA BARACCONE PER IL LORO FUNAMBOLISMO NEL TRATTARE LA PALLA.
Le ragioni formali di questa distruzione sono qui leggibili per intiero nelle "LETTERE DI FERDINANDO CORTES AL SERENISSIMO ED INVITTISSIMO IMPERATORE CARLO V INTORNO AI FATTI DELLA NUOVA SPAGNA O MESSICO anche se le sue affermazioni (si VEDA DOVE SCRIVE DEI TEMPLI E DELLA RELIGIONE AZTECA) sono state abbondantemente riviste da storici e studiosi.


giovedì 3 dicembre 2015

Un santuario protostorico: il Monte Bego

Foto: Studio Moreschi di Sanremo (IM)
Nell'attuale territorio francese, ad un'ottantina di Km. da Nizza il MONTE BEGO (scisti e arenarie del massiccio del Mercantour tra i 2000 e i 3000 m. di altitudine, a S.-O. del Colle di Tenda) costituisce il cardine di tutto il sistema orografico e territoriale tra la valle del Roia, parte in area italiana e parte in territorio francese, e la val Gordelasca nel nizzardo, quindi interamente appartenente alla Francia.

Il MONTE BEGO, oltre che un nodo orografico, fu anche uno splendido santuario a incisioni protostoriche di tutta Europa, un luogo dalla sacralità insita ove le forze della natura paiono scatenarsi mosse da forze ultraterrene: l'impressionante scenario di questa monumentale colata di roccia e dei repentini cambiamenti di condizioni climatiche, con l'esplosione di piogge e tormante ma anche di straordinari spettacoli come gli incredibili TRAMONTI non poté non esercitare formidabili suggestioni sui Liguri preromani, come sui popoli che li precedettero e come - bisogna pur ammetterlo - su quanti, tuttora, si immergono nello straordinario paesaggio del Bego.
Sin dal '600 ne parlò diffusamente il Gioffredo nella sua Storia delle Alpi Marittime: sulla montagna corsero voci diverse e spesso contrastanti, alimentate dall'eccezionalità del paesaggio e dalla variabilità del clima in cui, a momenti di serenità, si alternano subitanee tempeste, con fulmini,lampi e tuoni. Così mentre da un lato la superstizione (ma anche la letteratura parareligiosa o religiosa sia di approfondimento che di divulgazione) prese a definirlo come un luogo infernale popolato da diavoli e demoni d'altro canto l'erudizione non mancò, di fronte al crescente interesse culturale per i fenomeni naturalistici ed i reperti del passato, di decantarne il misterioso fascino, sì che si venne a formare per il sito l'emblematico toponimo di VALLE DELLE MERAVIGLIE, da identificare in parte nella selvaggia bellezza dell'ambiente ed in parte nelle "rocce parlanti" in virtù delle pur indecifrabili, antichissime incisioni.
Con gradualità le indagini sul sito si sarebbero sempre più estese ed approfondite, raggiungendo l'apice tra XIX e XX secolo, nonostante molto ancora resti da decifrare ed interpretare: in sostanza però si è alla fine giunti alla conclusione che il BEGO rientrasse nel sistema dello sviluppo di grandi centri religiosi, ricavati all'interno delle montagne alpine e disseminati un pò ovunque sin alle aride rocce della Scandinavia. 

Il BEGO costituisce quindi, vista l'abbondanza delle incisioni rupestri; un'"area privilegiata" in cui, in particolari periodi, si concentravano sacerdoti e fedeli per officiare i culti principali, quelli dell'agricoltura o del dio gueriero od ancora del dio del tuono (il caso del MONTE BEGO, è utile precisarlo, non costituisce un fatto isolato nel contesto delle Rocce e montagne sacre tipiche dell'ampio arco di tempo in cui si alternano varie manifestazioni religiose dal Neolitco all'inizio dell'età del Ferro: a titolo esemplificativo quali altri grandi santuari protostorici si possono ricordare i complessi, caratterizzati da incisioni rupestri, nella Savoia e, per qunato concerne l'Italia, non lontano da Brescia, il sito della Val Camonica, da giudicare uno dei più sontuosi luoghi di devozione visitati ripetutamente dai pellegrini dell'età del Bronzo).

Foto: Studio Moreschi di Sanremo (IM)
Agli inizi del '900 le armi raffigurate tra le incisioni del BEGO (pugnali ed alabarde) fecero datare le incisioni all'età del Bronzo.
L'opera scientifica fu intrapresa dall'inglese P. Bicknell (dal 1881) e poi continuate dall'italiano Conti che individuò e distinse ben 20 zone ad incisione. Una svolta essenziale si ebbe poi dal 1967, da quando il gruppo di ricerca guidato da H. de Lumley ha studiato alcune diecine di migliaia di incisioni.
Un dei temi principali delle incisioni è quello degli animali cornuti rappresentati sia da soli che raggruppati ed anche nella figurazione di aggiogati a carri od aratri: la forma delle corna rimanda con lieve prevalenza ai bovidi ma molti animali rappresentati alludono, diversamente, a capridi: e tutte queste rappresentazioni inducono a credere ad un culto dell'agricoltura e dell'allevamento di origine neolitica.
La rappresentazione di armi, per quanto assai meno frequente (7,5% sulla globalità delle incisioni reperite) ha tuttavia un significato di rilievo. i pugnali sono infatti del tipo a codolo, propri del Calcolitico o del tipo ad impugnatra metallica come nel Bronzo anico.
Le alabarde od asce-pugnali sono infine armi caratteristiche del Bronzo antico e fanno sì che le incisioni possano essere datate al 2000-1500 a.C.
Non risultano numerose le incisioni antropomorfiche ma sono cariche di interesse, tanto che si son dati nomi particolari alle figure individuate: lo Stregone, il Capo della Tribù, L'uomo dalle braccia a zigzag (figurazione non sorprendente in un'area ove gli improvvisi e violenti temporali dovevano eccitare l'immaginazione), la Dea acefala, la Danzatrice, il Cristo: nell'interpretazione di J. Briard (Miti e religioni dal Neolitico all'inizio dell'età del Ferro in Preistoria e antichità, 2* in Storia d'Europa, Einaudi, Torino, 1994, pp.631-633) "...osservando la loro iconografia basata perlopiù su segni corniformi si è avanzata lìipotesi del DIO-TORO.
Un'interpretazione suggestiva è stata poi fornita da E. Masson (La Vallée des Mervelles livre son message, in "Archéologie", 1992, n. 276, pp.II-23) che ha ritenuto di doversi riconoscere in VAL FONTANALBA una zona a temi profani, vertenti su tematche agricole e di vita domestica, e in un altro sito una zona sacra distinta dalle rappresentazioni antropomorfiche, di miglior livello qualitativo: sulla base di questo schema e sul retroterra dei suoi studi in Anatolia, Masson ha quindi teorizzato un'evoluzione entro le rappresentazioni divine del MONTE BEGO.
La I generazione avrebbe lasciato le sue testimonianze ai piedi del Picco delle Meraviglie: qui il Masson collega l'Uomo dalle braccia a zigzag (identificato con il padre-cielo=Uranos) con la Dea acefala che sarebbe una rappresentazione della Madre Terra (Gaia): la loro unione sarebbe raffigurata dall'incisione di 2 pugnali paralleli con le lame volte nella stessa direzione.
La II generazione di figure antropomorfiche sacrali rappresenterebbe la frattura di questo complesso spirituale: secondo il Masson la chiave di volta per tale interpretazione sarebbe da individuare nell'incisione dello Stregone che brandisce sulla testa 2 pungnali, uno per mano mentre le lame, rivolte in questo caso in senso opposto, costituirebbero un segno di discordia ed ora il rifiuto della Dea Madre.
Il Trionfo del Dio della tempesta sarebbe poi da individuare nella stele nominata del Capo della Tribù: il personaggio è rappresentato con un pugnale piantato nella testa (un simbolo, forse, della folgore): le raffigurazioni vicine, tra cui due pugnali coi pomoli opposti costituirebbero, per Masson, un riferimento a "l'ordine terrestre e l'equilibrio cosmico".