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domenica 16 luglio 2017

Il medico che attentò ad un Papa

Battista da Vercelli nacque a Vercelli nella seconda metà del sec. XV.
Si ignora se e dove abbia compiuto regolari studi di medicina.
Anche il suo nome è incerto: comunemente chiamato Battista da Vercelli nei documenti del tempo (ma talvolta anche Giovanni Battista), egli stesso si firmava nelle lettere degli ultimi anni con il cognome di De Ruviere, forse per concessione di un appartenente alla nobile casata.
Secondo alcuni scrittori il suo cognome sarebbe stato invece Vieri o de Viere.
Ben poco si sa anche della famiglia: aveva un fratello, Filiberto, che nel 1509 teneva a Venezia un banco di cavadenti e che negli anni successivi lo accompagnò come assistente nelle varie città italiane dove B. era chiamato per la sua fama di chirurgo; si sa anche che sposò una donna fiorentina dalla quale ebbe alcuni figli.
Nel 1502 B. era a Venezia, dove godeva una notevole fama per la sua abilità nel curare il "male della pietra", tanto da ottenere dalla signoria il titolo di cavaliere di San Marco e da raggiungere una notevole agiatezza economica.
Nel novembre del 1508, però, venuto a diverbio, non si sa per quali motivi, con un collega, il chirurgo Girolamo da Verona, lo uccise, incorrendo nelle sanzioni della Quarantia Criminale, che nel gennaio dell'anno successivo ne ordinò l'arresto e il processo per omicidio premeditato.
Egli si difese sostenendo di non aver avuto l'intenzione di uccidere il rivale e che il fatto era avvenuto inopinatamente durante una rissa.
Questa difesa sostenne anche sotto la tortura, alla quale venne ripetutamente sottoposto: ciò nonostante la Quarantia Criminale lo condannò a due anni di "prison forte" e al bando perpetuo.
Non risulta se B. scontò effettivamente la condanna; comunque nella primavera del 1512 era a Siena, dove godeva di grandissimo prestigio, sia per la sua abilità nell'estrazione della pietra, sia per i notevoli risultati ottenuti da un rimedio di sua invenzione per la cura del "mal francese".
Fu soprattutto in grazia di questo sistema di cura che egli si guadagnò la stima e la protezione del signore di Siena, Pandolfo Petrucci, e dei suoi figli Borghese e Alfonso; ma stimolati dalla fama di tante portentose guarigioni ottenute da B. - egli stesso assicurava di aver guarito con i suoi specifici circa quattrocento persone a Firenze - si sottoposero alle sue cure anche il marchese di Mantova, il cardinale Ippolito d'Este, il vescovo di Worcester Silvestro Gigli, ambasciatore d'Inghilterra presso la Santa Sede, nonché il fratello di Leone X, Giuliano de' Medici.
Quest'ultimo gli fu tanto grato delle cure prestategli che lo raccomandò al pontefice perché ottenesse dalla Repubblica di Venezia la revoca del bando al quale B. era stato condannato nel 1509; lo stesso Leone X intervenne con un breve presso la Signoria veneta alla fine del 1513e affidò poi le trattative all'internunzio Pietro Dovizi da Bibbiena.
La Repubblica non volle opporsi al desiderio del potente protettore di B. e finì per revocare il bando.
B. godeva anche di altre importanti relazioni alla corte pontificia, in particolare con il cameriere papale Luigi de Rossi e con il cubiculario Giulio Bianchi.
La protezione della famiglia Petrucci gli procurò il 20 luglio 1515 la cittadinanza di Siena e l'esenzione da ogni imposta; probabilmente in questa medesima occasione la città toscana coniò in onore del chirurgo vercellese una medaglia con la sua effigie [vedi sopra]: un esemplare è conservato nel Museo del Bargello di Firenze.
Nel marzo del 1516, però, estromesso da Siena Borghese Petrucci, B., forse per timore che l'amicizia con il deposto signore lo facesse vittima di qualche rappresaglia, abbandonò la città, rifugiandosi a Roma presso il fratello di Borghese, il cardinale Alfonso.
Nell'estate successiva, diffusasi la notizia della grave malattia che aveva colpito Leone X, si prodigò per ottenere di essere ammesso al posto di chirurgo del pontefice, rimasto vacante dopo il licenziamento di Iacopo da Brescia.
Assicurava di essere in grado di curare efficacemente la fistola della quale il pontefice era affetto, ma né la fama delle precedenti esperienze né le potenti protezioni su cui egli poteva contare indussero Leone X a servirsi di lui: probabilmente il pontefice non nutriva troppa fiducia nel familiare di coloro che egli aveva scacciato da Siena, sicché preferì richiamare Iacopo da Brescia. [integriamo con una glossa = in questi secoli solo meno della professione di medico ostetrico ed ancor più di "commare", ostetrica e poi balia la professione dei medici era guardata con sospetto specie negli alti casati per il timore di medici prezzolati da nemici che perpetrassero degli avvelenamenti (non per nulla in questi che furon detti secoli dei veleni fu creata la particolarissimia figura del servo assaggiatore di cibi) e a maggior ragione era giudicata rischiusa la professione di chirurgo data l'elevata mortalità connessa sia alla strumentazione ancora primitiva che all'assenza di anestetici, antidolorifici e antibatterici adatti a casi particolarmente gravi].
B. si trasferì allora a Firenze, dove lo attendeva la sua famiglia, ma venne arrestato per ordine del pontefice nel maggio del 1517.
Si erano concluse infatti le indagini sulla congiura, vera o presunta che fosse, dei cardinali Petrucci, Sauli [cugino di A. Giustiniani = G. B. Spotorno cita proprio il Giustiniani a dar contezza degli eventi della congiura con il concorso di Battista da Vercelli, contro alcune ipotesi del Bonino autore della Biografia Medica Piemontese] e Riario contro Leone X.
Nel corso degli interrogatori, ma soltanto dopo essere stato ripetutamente sottoposto alla tortura, il maestro di casa del cardinale Alfonso Petrucci, Marco Antonio Nino, aveva confessato che il suo padrone aveva progettato di uccidere il pontefice valendosi dell'opera di B., il quale, una volta ammesso a curare il papa, avrebbe dovuto avvelenarne la fistola mescolando il tossico all'elleboro bianco con cui Leone X usava curarsi.
Questa accusa contro i tre cardinali, che l'Ariosto riteneva valida ancora al tempo della sesta satira (cfr. Opere minori, Milano-Napoli 1954, p. 566, n. 117), venne formulata per la prima volta nell'interrogatorio del Nino il 27 apr. 1517 e pare che fosse in seguito confermata dalla scoperta di un gruppo di lettere scambiate nell'estate del 1516 tra il Petrucci e il Nino, con espressioni compromettenti sulla cura cui B. avrebbe dovuto sottoporre il pontefice.
Il processo contro il chirurgo piemontese, condotto dal procuratore fiscale Mario Perusco, che estorse all'inquisito una piena confessione con la tortura, si concluse con la condanna a morte.
Il 27 giugno 1517 B., assieme al Nino, fu pubblicamente torturato con tenaglie roventi, quindi impiccato e squartato presso ponte Sant'Angelo.