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mercoledì 26 settembre 2018

Oratio de Pulvere Sympathetico


 

Nella sua Oratio de Pulvere Sympathetico Sir Kenelm Digby (meglio noto forse con il nome latinizzato in Digbaeus, nato a Gayhurst nel Buckingamshire nel 1603 e morto a Londra nel 1665) scrisse:

"Non sono indotto ad una facile occupazione sì da pensare che tutti voi giungerete al mio stesso convincimento e conseguirete la stessa opinione su un argomento in merito al quale è assolutamente necessario che in primo luogo si dimostri, per mia parte, se esso abbia fondamento di verità ed in che modo poi si postuli siffatta verità.
E del resto non vanificherebbe ogni suo sforzo chi perdesse il proprio tempo nell'investigare su qualche Chimera cioè su qualche argomento assolutamente sganciato da ogni plausibile verità ?
Mi rammento di aver letto in un passo di Plutarco che dallo stesso storico era stata proposta questa discussione: perché i cavalli, già ancora allo stato di puledri, una volta insidiati dai lupi si sono da sempre affidati alla corsa per salvarsi, sopravanzando così alla fine in celerità del corso tutti gli altri animali?
L'autore si formula la risposta che tutto ciò può esser motivato dal fatto che il terrore e la paura, passioni che lo spaventevole aspetto del lupo genera in ogni animale, facciano in modo che l'animale per quanto giovane attinga a tutte le sue più recondite energie onde fuggire la minaccia la quale oramai gli grava sul capo: a tal segno il timore fa scattare ai puledri le giunture degli arti, li induce a stendere i nervi ed i legamenti ed a disporre tutte le restanti parti del corpo assai disposte alla corsa, di modo che per tutto l'arco della sua esistenza il cavallo avvertirà siffatta sua potenzialità rivelandosi eccezionale appunto nella corsa.
Subito dopo lo stesso scrittore formula un'ipotesi alternativa e che cioè tutto quanto affermato in merito ai cavalli possa avvenire poiché i puledri, che naturalmente sono atti alla corsa, fuggendo quasi sempre si sottraggono alla morte, mentre altri animali che non fruiscono della pari innata velocità, vengono afferrati dai lupi e, prede designate, cadono nello insidie. E di conseguenza non sono più disposti al corso dal momento che aiutati dalla rapidità della fuga riescono ad evitare le zanne dei lupi ma piuttosto perché la naturale attitudine a correre, di cui sono forniti, li ha abituati ad eludere le insidie dei predatori ed a salvarsi dalla morte.
Oltre a queste Plutarco adduce molte altre ragioni e finalmente conclude come la ragione di ciò non sia del tutto determinabile.
Quanto a me, miei uditori, non posso prescindere da questa maniera di dissertare, a meno che la questione non venga dibattuta superficialmente nel corso di qualche banchetto, laddove ogni conversazione mira a far sì che ci si ristori con gioconde conversazioni piuttosto che col mescolare agli svaghi le acute sottigliezze proprie del severo Catone ed il vigore di quelle argomentazioni che presuppongono acutezza di giudizio e saldezza d'ingegno.
In vero in un'adunanza tanto prestigiosa, quale vedo che è questa, dove sono convenuti uomini intellettualmente sofisticati, che su tutti prevalgono per sapienza, uomini non solo imbevuti ma addirittura permeati di solidissime competenze, personaggi che, proprio per la fede che nutrono in me, davvero mi auguro di poter soddisfare con non frali ma bensì solidi e meditati argomenti.
Certo! mi addolorerei in maniera straordinaria se, dopo aver tenacemente tentato di palesare per qual ragione la Polvere, che l'opinione popolare definisce simpatetica, naturalmente e senza alcun soccorso magico possa sanare le ferite, pur senza toccarle neppure con un dito e senza manco guardarle, nientemeno si trovasse qualcuno che si vergognasse di accettare perlomeno l'ipotesi che siffatta nazione riseda nella natura stessa delle cose.
Ogni volta che si elabora un ragionamento su qualsiasi fatto da dimostrare, la determinazione della verità dipende dal fatto che i nostri sensi possano verificare l'attendibilità dell'esperienza.
La questione che mi accingo a sviscerare non può prescindere da questo postulato.
Infatti quanti furono condotti a constatare l'efficacia dei fatti sperimentati, acquisendo consapevolezza critica della realtà effettiva, si concentrarono sulla questione al segno di constatare come questo esperimento sia confortato da tutte le prove rischieste dalla ragione. Una volta che chiaramente si riconobbero come vere le cose viste, raggiunsero la consapevolezza che non vi rientrava alcuna frode e che anzi in tutto ciò rientrassero congruenze giustificate dalla logica.
All'opposto coloro che non visualizzarono personalmente simili effetti, bisogna che prestino fede all'autorità di quanti sostengono d'aver direttamente esperito gli eventi.
Comunque sono in grado di addurre molte testimonianze, di cui fui anche partecipe e nelle quali ricoprii un ruolo significativo.
Siccome in verità un certo peculiare esempio, peraltro avvalorato dall'universale comprovazione, può bastare, dissipandone i superstiti dubbi, a determinare la veridicità di un fenomeno e tanto la sua pertinenza quanto ancora la di lui possanza, onde non tediarvi reputo bastante proporne uno che reputo del tutto sufficiente per suffragare qualsiasi convincimento.
Ma, accidenti, non sarà documento di poco peso bensì tratto dai più celebri e comprovati che mai siano stati esperiti o che addirittura in futuro, penso, potranno trovare utile riscontro.
Ed affermo ciò non solo in rapporto alle contingenze, peraltro d'altissima rilevanza probatoria, ma in effetti pure in correlazione agli strenui interventi, per il resto di insigne rilevanza, in mutua cooperazione dei quali potè essere felicemente conchiusa siffatta impresa.
Infatti una ferita praticamente letale fu del tutto guarita da questa polvere simpatetica nel caso di un uomo che la più sofisticata competenza letteraria ed alcune azioni mirabilmente compiute avevano sollevato ai vertici dell'onore mondano: e in merito tutte le circostanze accessorie furono altresì soppesate acutamente, valendosi quasi della pietra lidia, da Giacomo re d'Inghilterra, grandissimo e sapientissimo nell'età sua che oltre ad essere stato fornito dalla natura di doti preclare di sottilissimo ingegno, aveva sviluppato perizia davvero mirabile nell'investigazione dei fenomeni naturali.
Dopo la morte del sovrano il fenomeno venne altresì studiato dal di lui figlio come pure da Duca di Bouquaingania, ora tra i Santi, primo ministro dell'un e l'altro stato e, finalmente, tutta questa documentazione fu raccolta in scritti memorabili da quel famoso Cancelliere Bacone affinché costituisse una sorta d'appendice della sua Storia Naturale.
Sono assolutamente certo, uditori miei, che se tutte queste cose soppeserete con giudiziosa riflessione, in alcun modo potrete accusarmi d'ambiziosa temerarietà allorquando ardisco attribuirmi la gloria d'aver per primo introdotto nelle nostre contrade siffatte tipo di cura.
Ma orsù! Ecco dunque in poche parole la narrazione di tutta questa vicenda.
Il celebre Giacomo Howell, segretario del Duca di Bouquaingania (peraltro abbastanza noto in Francia per quegli accurati suoi studi che editò, tra cui in primo luogo la famosa Dendrologia tradotta in gallico idioma dal Signor Baudovino, se non vado errando) alquanto opportunamente un certo giorno intervenne mentre due intimi amici vennero alle mani e, trascendendo, giunsero altresì a singolar tenzone.
Costui, in qualità d'amico devoto, offrì senza tema i suoi servigi al fine di separarli sì che per tal ragione finì col trovarsi in mezzo a loro: pertanto mentre con una mano afferrò l'impugnatura della spada d'uno dei contendenti, purtroppo con la destra, in alcun modo protetta, arrestò un fendente portato dall'altro dei duellanti, che parimenti aveva sguainata la sua arma.
Quei due, rapiti da un furore così selvaggio che li induceva ad usare forsennatamente le armi l'uno contro l'altro, erano talmente presi da follia omicida che miravano, senza d'altro preoccuparsi, a liberarsi con ogni mezzo delle trattenute dell'amico comune, che disperatamente tentava invece di impedire che qualcuno di loro precipitasse in imminente pericolo di perdere la vita.
Nel proseguio della tenzone uno di quelli, con estrema rabbia, strappò via quella spada che Howell, avendo preso con la mano nuda, malamente poteva governare: e cosìfacendo finì per frantumare i nervi, i muscoli ed i tendini stessi dell'arto del Signor Howell. Per sventurata circostanza nello stesso momento il suo accanito rivale piegò l'impugnatura della propria arma e ne vibrò la punta avverso la testa dell'avversario che però, con un piegamento del corpo, sfuggì a quel micidiale assalto, facendo però sì che il colpo finisse per essere indirizzato contro la testa di quel comune amico che, quasi a loro avvinghiato, s'affannava nell'improbo tentativo di separarli. Il Signor Horwell a tal punto null'altro potè fare che ripararsi con la mano già ferita, in modo tale che questa venne piagata da un'ulteriore gravissima lesione.
Sembra, per Polluce, che in cielo si fossa andata a costituire una peculiare positura del tempo astrologico e degli astri decisamente avversa, la quale aveva fatto sì che Howell versasse il proprio sangue per opera di due suoi carissimi amici...ho detto amici perché, ritornati in se stessi, senza alcun dubbio per la salvezza del comune amico non avrebbero esitato adesso a dare il loro di sangue.
E così la fortuita emorragia del sangue di Howell fu in un certo senso il duro prezzo pagato perché quei due combattenti abbandonassero subito la tenzone e si voltassero verso quella ferita, inferta parimenti al comune amico, che poco prima ferocemente ambivano l'uno di procurare all'altro.
Infatti essi, vedendo il volto del Signor Howell quasi completamente coperto dal sangue che copiosamente stillava dalla mano ferita e tenuta in alto, entrambi accorsero in aiuto dell'amico e, esaminate le sue lesioni, le serrarono vigorosamente con un laccio di maniera che le vene fossero tenute ben chiuse, visto che dal punto in cui erano state troncate fuoriusciva sempre maggior quantità di sangue.
Lo portarono poi nella sua dimora e trovarono al più presto possibile un chirurgo asffinché quanto prima si procedesse ad un intervento terapeutico riparatore.
Poi il giorno successivo, quando era necessario procedere alla medicazione della ferita, giunse pure un chirurgo regio, espressamente spedito dal re che aveva in grande stima il summenzionato Signor Howell.
All'epoca io risiedevo presso l'abitazione di tale signore ed una mattina (erano oramai passati quattro o cinque giorni da quello dell'incidente) mentre stavo vestendomi costui entrò nella mia camera pregandomi, con tutte le sue forze, che gli prescrivessi un qualche rimedio per sanare la ferita, in particolare perché era venuto a sapere (così diceva) che io ero in possesso di nrimedi eccezionali in merito a casi clinici come il suo e perché quella sua dolorosissima ferita era giunta al punto che i Chirurghi temevano, quasi con certezza di non venir smentiti, che ne derivasse cancrena sìche per evitare tale infezione gravissima avevano già presa in considerazione l'ipotesi di amputare la mano ferita.
Dalla semplice osservazione dei suoi lineamenti potevo intanto constatare che il Signor Howell stava visibilmente soffrendo e che davvero si poteva prevedere la necessità di rescindere prontamente l'arto nell'alta probabilità che si evolvesse una qualche acuta infiammazione.
Prestamente gli rispondevo che con tutto il cuore avrei cercato di soddisfare la sua disperata richiesta ma aggiunsi che mi ritenevo in dovere d'avvertirlo che se avesse avuto occasione di esaminare il mio metodo terapeutico, portato avanti senza toccare e senza talora neanche visionare la lesione da curare, si sarebbe anche potuto impressionare al punto di credere che tale tecnica fosse inefficace o, cosa ancor più grave, potesse comportare qualche diabolica cooperazione. Ma quello senza esitazione replicò che, per quanto concerneva siffatta mia attività di guaritore, i reiterati ammirabili successi, descritti da molti testimoni degli di fede assoluta, non permettevano, al punto in cui si trovava, di alimentare qualsiasi dubbio e dilazionare ulteriormente un intervento clinico di fatto improrogabile. Ed espressamente aggiunse: 'Ed oltre a tutto questo nulla di più voglio aggiungere a proposito di quel proverbio usuale fra gli Spagnoli e che dice Haga se el milagro, y hagalo Mahoma'. Addivenuti dunque a siffatti accordi io gli chiesi di farmi avere una pezza di lino macchiata del suo sangue ed egli mi fece avere direttamente quella fascia della quale era solito servirsi. Quindi ordinai che mentre si procede a ciò mi si facesse avere un recipiente pieno d'acqua come s'usa fare quando un ospite deve lavarsi le mani. Appena avutolo mi affrettai a sciogliervi un pugno di polvere di Vetriolo, sostanza che io da sempre tengo pronta e a disposizione nella mia raccolta di medicamenti. Una volta che finalmente potei avere la fascia sporca del sangue della ferita la immersi nel recipiente, non esimendomi però dall'osservare con estrema cura quali via via fossero le reazioni del Signor Howell. In effetti lui andava tranquillamente chiacchierando in un angolo della sua stanza con un Nobiluomo che lo assisteva: sembrava poco o nulla accorgersi di quanto io facessi e del motivo per cui io operassi in quella determinata maniera. Ed ecco finalmente il prodigio avverarsi! Il paziente gradualmente ma in modo spedito migliorava il suo umore, diventava quasi lieto, prendeva ad agire senza alcuna preoccupazione del male quasi che presagisse una grande trasmutazione in atto. Gli chiesi dunque il motivo di quel suo mutato comportamento ed egli subito mi rispose che non sentiva più alcun tormento e che per nulla era ancora afflitto dal terribile dolore di poco prima. Per spiegare il succedersi rapido di quelle sensazioni disse: 'Ho l'impressione che dell'aria fresca e rigenerante stia passando dalla fascia sopra questa mia mano piagata e che nel far ciò vada estirpando completamente quella spaventosa infiammazione che poco fa mi stava torturando'. Ed io gli replicai: 'Già ora stai provando i benefici e fortunati risultati della mia terapia e proprio perché io stesso ne sono autore ti impongo di togliere da quella piaga tutti gli altri unguenti od impiastri vanamente applicati per farla rimarginare: ho tuttavia la primaria esigenza che tu collabori con estrema diligenza per far sì che la piaga rimanga sempre ben pulita e disinfettata, sì da presentarsi nel più genuino stato naturale e mantenere sempre l'opportuna temperatura'. Queste novità impiegarono ben poco tempo per raggiungere il Signor Boquainganiae e tramite lui presto furono deferite allo stesso Sovrano: entrambi presero ad ardere dal desiderio di conoscere l'esito di quel mio intervento, che continuò con la mia decisione di prendere dal recipiente in cui era immersa la fascia per metterla ad essiccare vicino al fuoco del camino. Non molto dopo che questa fu del tutto essiccata (e per ottenere ciò bisognava che venisse scaldata diligentemente ed a fondo) ecco però che di corsa mi raggiunse un domestico del Signor Howell (nel frattempo tornato nella sua magione) onde avvisarmi che in breve tempo il suo Padrone era stato nuovamente sopraffatto da un dolore spaventoso, quasi che un calore, generato da fiamma viva, gli si estendesse per la mano solo da poco guarita Io però ritenni d'assicurarlo che in breve tempo tutto ciò sarebbe nuovamente svanito e che di nuovo e per sempre il Signor Howell avrebbe goduto di ottima salute. Aggiunsi che non mi era sconosciuta la causa di questo imprevisto aggravamento e che lui avrebbe potuto tornare dal suo padrone per rassicurarlo. Ed il servo, preso atto di ciò, tornò prestamente alla casa magnatizia: io allora mi diedi da fare e contemporaneamente immersi di nuovo la fascia nella soluzione acquosa: dopo che ebbi fatto ciò, e per quanto le nostre due cosa distassero fra loro seppur non molto, il servitore non ebbe tempo di ritrovare ancora sofferente il suo signore: così in brevissimo tempo egli aveva riacquistata la sua perduta sanità. Per non dilungarmi preciso qui, in poche parole, che il dolore sparì repentinamente e che la stessa lesione nel giro di cinque o sei giorni si cicatrizzò fin che ogni sua traccia venne a scomparire. Re Giacomo d'Inghilterra edotto di questi fatti volle comunque esserne ragguagliato meglio e direttamente: intese apprendere tutti gli eventi sin nei minimi dettagli da me stesso (dapprima giocosamente chiamandomi mago esperto di venefici e balsami, come peraltro era solito fare negli amichevoli e festosi rapporti che intratteneva nei miei riguardi): al di là di queste celie rientrava nei suoi desideri apprendere in particolare la ragione profonda per cui si potesse esser compiuto tale prodigio.
E certo non mi astenni dal rispondergli
[a re Giacomo I d'Inghilterra] che ero assolutamente pronto a soddisfare tutte le sue richieste ma, prima di approfondire la questione, tenni a precisargli che non avevo inventato alcunché ma che semmai avevo appreso tale segreto da altro ideatore ed autore che ne aveva a sua volta ragguagliato il gran Signore di Firenze. Si trattava infatti di un monaco italiano dell'ordine dei Carmelitani che non molto tempo prima aveva fatto ritorno in Firenze da una missione in India ed in Persia. In effetti, per quanto avevo potuto sapere, egli aveva a lungo viaggiato per il gran impero cinese e dal suo ritorno in Toscana, non senza suscitare straordinario stupore, aveva intrapreso a guarire tantissime persone.Ben presto il Duca di Firenze fu preso dal vivissimo desiderio d'apprendere i segreti di quell'arcana terapia: si trattava del padre del signore che al giorno d'oggi detiene il potere su quella regione italiana. Il monaco non tergiversò ma sveltamente gli rispose che aveva imparato tutto ciò nell'Oriente e che era assolutamente sicuro che proprio nessuno nel continente europeo ne fosse ancora a conoscenza. Si trattava del resto d'un segreto degno di assoluta riservatezza, da non svelare scelleratamente a chiunque perché non se ne abusasse: ma tale cautela non avrebbe potuto sussistere se il Duca avesse assolutamente voluto impadronirsi del segreto e in particolare se gli avesse mandato un suo medico od il chirurgo cesareo od ancora un qualche suo servo in breve tempo moltissimi individui, e non sempre onesti, sarebbero divenuti consapevoli di quella misteriosa cura. Il Duca di Firenze era però un uomo assai prudente: prestò ascolto alle parole del monaco e non fece più alcuna pressione su di lui. Però, dopo un certo lasso di tempo, mi si diede l'occasione di favorire in modo straordinario ed in momento eccezionale questo buon religioso sì che a titolo di riconoscenza non si rifiutò di negarmi le sue misteriose conoscenze sulla polvere simpatetica: quel monaco, spinto quindi dai suoi doveri, dovette presto ritornare in Persia e così io rimasi l'unico conoscitore di tali segreti in tutta Europa. Re Giacomo sentito ciò volle rassicurarmi, mi disse che giammai avrei dovuto temere che lui divulgasse dissennatamente tutto quanto gli avessi detto in merito ed aggiunse pure che, nelle eventuali cure da farsi, avrebbe operato sempre da solo: per tutte queste motivazioni non avrei dovuto temere in alcuna maniera svelandogli siffatti arcani. Non potevo certo dissentire e non fidarmi di quel buon sovrano così che tutto gli svelai, gli narrai ogni circostanza: il re esperimentò le conoscenze da me apprese e sempre si mantenne fedele con le promesse fattemi. Intanto nello stesso periodo il Signor De Majerne archiatra regio andava vociferando che in siffatta terapia esistesse qualche cosa di inspiegabile e mostruoso: finalmente chiese di essere informato dei contenuti della cura perpetrata dal Re stesso utilizzando appuntto la polvere cioè il Vetriolo. Il Sovrano mi convocò allora di nuovo e mi confessò che era arrossito di rabbia e vergogna per l'audacia di tale individuo che aspirava a conoscere apertamente tali segreti: il re ben sapeva infatti che davanti ad un suo espresso ordine in alcun modo, da suddito leale, avrei potuto esimermi dallo spiegare. Dopo che aveva appreso di quale materiale ci dovevamo valere in queste cure, apertamente gli dissi che non doveva alcunché angustiarsi. Gli risposi che ormai ero preparato alla sua richiesta e che anche senza timore alcuno si sarebbe potuta far menzione di ogni segreta cosa: la terapia non comportava peraltro alcunché di pericoloso e gli arcani avrebbero potuto anche pubblicamente svelarsi atteso che sarebbero sempre stati salvaguardati dalla sua regale persona. Quali timori dunque? E così nuovamente svelai le cose nella loro compiutezza. Dopo non molti giorni si recò in Gallia a visionare dei possedimenti che aveva non lungi da Ginevra e precisamente il Baronata d'Albonia.
Mentre era in viaggio ebbe la fortuita occasione di incontrare il duca di Mayenna, suo intimo amico, ed a questi svelò la misteriosa cura che gli avevo svelato. Quel Duca condusse poi molti esperimenti che, in vero, se non gli fossero stati suggeriti da un sovrano tanto buono e pio, gli avrebbero suscitato, dati gli incredibili risultati, l'idea d'un qualche incantamento.
Dopo che il Principe cadde morto nell'assedio della città di Montalbano il suo chirurgo, colui che nell'esperimentazione delle cure aveva assistititi e svolto la parte meccanica delle cure stesse, vendette il segreto della polvere simpatetica a molti potenti e a tanti nobili che in breve spazio di tempo poté accatastare un vero e proprio tesoro.
Nessun cancello intellettuale oramai era in grado di proteggere i contenuti di quella straordinaria forma di sanzione che prese presto a diventare di pubblico dominio di maniera che anche l'ultimo dei barbieri poté finalmente esserne informato:
Nulla quies intus, nullaque silentia parte,
Cresciti: atque auditis aliquid novus adjicit autor.
Miei uditori, avete qui potuto seguire la diffusione della cura con la Polvere simpatetica in queste nostre regioni e davvero è singolare, oltre alle sua portentosa qualità, l'insieme della sua storia.
Ma è ora necessario che si addivenga alla discussione vera e propria: vale a dire in cosa consiste la Polvere simpatetica ed in che modo espliciti la sua funzione
".

da Cultura-Barocca