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sabato 18 febbraio 2017

orandus est ut mens sana sit in corpore sano

Roma, resti del Circo Massimo - Fonte: Wikipedia
E' difficile stabilire con esattezza a qual epoca risalisse l'amore per lo sport dei Romani: di certo è antichissimo.
Si hanno testimonianze concrete che tra l'Aventino e il Palatino, nella zona dove sarebbe più tardi sorto il Circo Massimo, molto presto si disputarono gare di cavalli e di carri, anche le cosiddette corse romane.
Già dalla prima età repubblicana i cives, cioè i cittadini romani, non furono soltanto spettatori ma anche attori e cultori di una sana educazione fisica, curata in particolare perché importante era soprattutto essere buoni cittadini e buoni soldati.
Anche se a Roma la scuola e i ginnasi avevano carattere privatistico, al contrario di quanto avveniva nelle poleis greche, non si può proprio affermare che la vita ricreativa nella vita dei Latini fosse tenuta in minor conto.
Nei confronti dell'attività sportiva sussisteva a Roma una caratteristica diversa, del tutto originale: il CULTO DEL PROFESSIONISMO.
Presente, per la verità, sia pure in forme ridotte anche tra i Greci, specialmente dopo la conquista macedone, soltanto nella Roma imperiale esso dilagò in maniera addirittura preoccupante per certi aspetti. Anche gli antichi Greci ad onor del vero praticavano da tempo forme di atletismo professionale.
Ma in proposito non mancarono voci avverse sin da Galeno che non mancò di criticare le sempre più diffuse forme di professionismo nello sport: professionismo che venne rivalutato solo più tardi ad opera di Filostrato.
Comunque, data anche la loro diversa matrice culturale, i Romani adottarono dai Greci l'aspetto professionale, ludico e spettacolare dello sport: in definitiva, se i germi del professionismo c'erano già stati nella tarda Grecia, a Roma si affermarono trovando una maggior specializzazione che giunse a un distacco completo tra atleti e spettatori.
Fin dal III sec. a. C. si svolgevano a Roma gli spettacoli gladiatorii.
In età repubblicana, da quanto si sa, non contavano quel numero impressionante di spettatori che ritroviamo più avanti, in epoca imperiale.
Furono infatti i Cesari, ovvero gli imperatori, succedutisi via via da Augusto, a offrire al popolo con sempre maggior frequenza tali spettacoli di svago.
I ludi gladiatorii erano interpretati per lo più da una ristretta cerchia di persone, quasi sempre provenienti da classi e ceti subalterni che , scendendo nell'arena, cercavano di emanciparsi dalla loro condizione servile confidando nelle proprie doti fisiche e atletiche.
Non si può dare torto a quegli studiosi come Ullmann che sostenevano che quegli atleti nudi che sapevano affrontare anche la morte in prove pericolose costituivano i modelli in cui una società ormai invecchiata e in declino riconosceva quello che avrebbe voluto essere e si vendicava per quello che non aveva saputo essere.
Un'altra interessante osservazione al riguardo viene da Munford che in Tecnica e civiltà rileva che "lo sport nel senso di uno spettacolo di massa con la morte come stimolante, soggiacente appare quando una popolazione è stata impastoiata, irregimentata e depressa a tale punto che le è necessario partecipare almeno per interposta persona agli atti difficili di forza, abilità o eroismo, al fine di risvegliare il suo diminuito senso della vita".
Non è certo difficile collegare questo alla civiltà romana che, con l'avvento dei Cesari, smarrì il gusto della partecipazione politica.
Sull'estrema incentivazione dell'attività sportiva (anche e forse soprattutto di tipo professionistico) in Roma imperiale, non è possibile eludere il ruolo svolto da NERONE, ultimo esponente della dinastia dei Giulio-Claudi, il quale si adoperò per accentuare in vari modi la spinta all'ellenizzazione della civiltà romana. Sulle prime venne accolta con diffidenza e ostilità, ma poi sarebbe divenuta fatto compiuto specie sotto il principato di Adriano. Dunque, proprio con Nerone, si inserì in maniera organica l'olimpismo greco in Roma. Nel 59 p. C. Nerone infatti lanciò i ludi junilies, quindi l'anno successivo indisse il certamen quinquennale ribattezzato in suo onore Neronia.
Lo stesso imperatore volle suggellare questa sua attività febbrile con un viaggio trionfale in Grecia, nell'autunno del 66, insieme con cinquemila "augustiani", per far ritorno nell'Urbe l'anno seguente senza altro trionfo che quello conseguito nei Giochi panellenici, senza altro bottino che le 1808 corone con solenne rito appese al tempio di Apollo sul Palatino.
Un'idea di quello che potevano essere i ludi e le varie gare allestite da Nerone ci viene efficacemente fornita da Svetonio, lo storico dei Cesari, in un passo della vita di Nerone: "...una novità assoluta per Roma fu l'istituzione da lui voluta, di un certamen quinquennale, con tre ordini di concorsi, secondo il costume greco: musico, ginnico ed equestre, cui diede il nome di ludi neroniani in occasione dell'inaugurazione delle terme e del ginnasio durante la quale offrì olio anche a senatori e cavalieri. Alla guida dei tutto quanto il certamen propose ex consoli tratti a sorte, sedenti al posto dei pretori. Poi (Nerone) scese nell'orchestra, nei posti riservati ai senatori, e per sé prese la corona del concorso di eloquenza e di poesia latina, della quale lo riconobbero meritevole i rappresentanti della migliore nobiltà, che, tutti quanti, avevano gareggiato per conquistarsela; si inchinò con ossequio, invece, alla corona di cetra, che la giuria gli aveva decretato, e la fece deporre ai piedi della statua di Augusto. Durante il concorso ginnico che si teneva nel recinto delle elezioni, tra l'apparato del solenne sacrificio dei buoi, si fece radere per la prima volta la barba e, racchiusa in una pisside d'oro, adorna di preziosissime perle, la consacrò in Campidoglio. Alle gare degli atleti invitò pure le vergini Vestali perché anche in Olimpia la stessa cosa è concessa alle sacerdotesse di Cerere".
Il filosofo Seneca ed il poeta satirico Giovenale diedero più volte testimonianza scritta del personale loro disprezzo per queste forme di spettacolo sportivo professionale che tuttavia risultavano assai gradite al popolo.
Per esempio nella decima satira Giovenale suggeriva che "....orandus est ut mens sana sit in corpore sano" (c'è da augurarsi che una mente venga a trovarsi in un corpo sano):, un verso ripetuto con compiacimento conferma la riprovazione per quanti avevano fatto dell'attività sportiva una professione sottolineando altresì l'apprezzamento per un giusto esercizio fisico.
Pure lo spagnolo Seneca a più riprese rivolgerà le sue critiche a queste nuove costumanze in cui la moralità poteva essere soffocata dall'ambizione di un guadagno effimero basato sull'ostentazione fra l'altro della forza fisica e della violenza: in particolar modo egli soleva consigliare, contro ogni moderna esasperazione e soprattutto la ricerca di lucro determinata dalla scelta del professionismo, la classicissima ricerca di giusto equilibrio tra sanità di corpo e di mente (Epistole, XV, 4-5-6): "[all'amico e discepolo Lucilio scriveva infatti:]...esistono esercizi comodi e agevoli, che rilassano il corpo senza perdita di tempo di cui occorre tenere in giusto conto: cioè la corsa, il getto del peso, il salto in alto e in lungo. Tra essi potrai scegliere quello per te più conveniente o adatto. Qualunque attività svolgerai, pensa al corpo e allo spirito; l'uno e altro si nutrono con poco sforzo. Nemmeno in vecchiaia si dovrà arrestare l'esercizio, un bene questo che con gli anni non potrà che migliorare. Non mi piace restare sempre immerso nei libri o stare troppo in palestra: bisogna dare un po' di riposo all'animo, in maniera che non abbia ad avvilirsi ma a ristorarsi e rinvigorirsi".

da Cultura-Barocca