Powered By Blogger

domenica 26 giugno 2016

Quando si credeva che le streghe volassero

Canon Episcopi - Fonte: Wikipedia
Nel Formicarius del Nider, composto nel quarto decennio del Quattrocento, era riportato un caso in cui una donna che sosteneva di recarsi in corpo ai convegni di Diana era stata smascherata in presenza di testimoni da un sacerdote, il quale aveva inteso in quel modo confermare in via sperimentale le affermazioni del Canon Episcopi.
Ma poi, come già sappiamo, nell’atteggiamento ufficiale della Chiesa ci fu una corsa verso il basso, complice la convergenza tra gli interessi di chi mirava a soggiogare la plebe con racconti terrifici sulle conseguenze delle trasgressioni e il popolo stesso, pronto a prestare orecchio ai racconti inverosimili.
Dalla posizione scettica degli autori più antichi si passò così ad affermazioni opposte nella letteratura demonologica ufficiale del secolo XVI, allineata alle tesi espresse nel manuale di Jakob Sprenger e Heinrich Kramer.
Ma anche nel Quattrocento diversi autori si dicevano convinti che le streghe si recassero corporalmente in luoghi lontani, come Alfonso Tostato (1400 ca 1455), Jean Vineti (vissuto circa fino al 1470) e il domenicano Girolamo Visconti (morto verso il 1478).
Quest’ultimo proponeva un ineffabile ragionamento per dimostrare la realtà del convegno diabolico: era chiaro che le cose stessero in quel modo, perché se uno sogna soltanto di volare e spassarsela col diavolo, mica lo si uccide per questo.

Invece le streghe sono consegnate al braccio secolare per essere punite con il giusto castigo: la giusta pena e il rogo, secondo la consuetudine comune ergo è dimostrato come il gioco cui esse si recano sia reale e non un semplice parto della fantasia.
Quanto al Canon Episcopi – proseguiva, arrampicandosi sugli specchi degli artifici retorici – sostiene che sia falso credere al volo delle compagne di Diana, non che esse non siano in grado di volare.
Poco più tardi Silvestro Prierias si arrabattava a dimostrare, da parte sua, come il Canon non vietasse di credere alla realtà del sabba e, in ogni caso, intendeva riferirsi ai fenomeni del suo tempo, in cui ancora non era sorta la setta malefica che imperversò in seguito.
Ad affermare ciò egli non era il solo: si trattava anzi di uno degli argomenti che ricorrevano con maggior frequenza.

Insomma: forse una volta le streghe non volavano sul serio, ma nel frattempo avevano imparato a farlo.

Della medesima opinione era pure Francisco Torreblanca: in fondo - egli sosteneva - erano le stesse interessate a riconoscerlo tam in eculeis is quam spontanea confessione e ad alcune era pure accaduto, per aver deciso di abbandonare la compagnia sul più bello, di essere raccolte per strada sul far del giorno, completamente nude, mentre cercavano di ritornare a casa a piedi.

Si andò così progressivamente codificando lo stereotipo del convegno diabolico, che veniva imposto, spesso attraverso il ricorso alla tortura, nelle confessioni delle streghe e, talvolta, come nel caso dei Benandanti, agli adepti di altre correnti esoteriche.

In realtà ai religiosi stava a cuore soprattutto di non mettere in dubbio le affermazioni dell’autorità: ciò che da essa era sancito doveva di necessità essere vero, secondo la logica della cultura scolastica, che anteponeva la lezione dei maestri all’ evidenza sperimentale.
Se tale era l’opinione dei teologi, tanto meno ai fedeli era concessa la possibilità di orientare in maniera diversa il proprio giudizio: si supponeva perciò che l’empio rito avvenisse immancabilmente nei termini riferiti dai testi in formule che, poco per volta, diventarono sempre più uniformi.
Veniva così raggiunto, con i mezzi del tempo, l’obiettivo caratteristico di tutte le forme di manipolazione ideologica: quello di sostituire le semplici verità, che ognuno ha davanti agli occhi, con affermazioni assai più improbabili, presentate però come le uniche corrette.
Per quanto riguardava l’accusa di confezionare unguenti con i resti dei cadaveri, la faccenda non era del tutto inverosimile e non si può sostenere a priori che si trattasse sempre di calunnie.
E non tanto per il fatto che le leggende abbiano di regola un fondamento di verità, quanto piuttosto per la ragione speculare: perché se l’attesa e i bisogni nascosti della gente coltivavano particolari fantasie, era inevitabile che una certa quota di quello stesso gruppo, piccola ma non insignificante, si facesse carico di realizzarle, disponendosi a interpretare la parte, necessaria in ogni contesto sociale, del fuorilegge.
Non si può quindi escludere che le persone riconosciute come complici del diavolo, ritenendosi colpevoli delle morti loro attribuite, andassero sul serio, qualche volta, a dissotterrare nottetempo le spoglie dei cadaveri, allo scopo di comporre gli intrugli magici che esse, secondo una consolidata tradizione, non soltanto popolare ma ormai anche teologica, dovevano confezionare proprio in quel modo.

Ma nel mito del volo notturno, invece, emergeva l’elemento psicotico allo stato puro: tutto, là, si giocava nell’ambito della pura fantasia.

Eppure, della marea di persone condannate per questa ragione ben poche, probabilmente, erano convinte nel proprio intimo di essere innocenti.
La strega o lo stregone era una figura che veniva a occupare il posto creato, nello spettacolo della vita, da una esigenza collettiva.

Tutti i rituali demoniaci comportavano infatti l’attribuzione di significati accessori ad atti di per sè neutrali, che si ammantavano di contenuti immaginari, ritenuti però effettivi tanto da parte di chi compiva, quanto dal resto della società.
La figura della seguace di Satana serviva dunque a concretizzare l’immagine di una trasgressione che, senza dubbio, era ben radicata nell’inconscio collettivo.
Perché, nelle loro squallide condizioni di vita, i miseri sognavano spesso in segreto, per rancore o per volontà di cambiamento, di ascendere a una condizione di potenza che li mettesse al di sopra degli altri e al di là del controllo dell’autorità costituita.
Ma l’aspirazione, nella grande maggioranza dei casi, non riusciva a ottenere alcun seguito e finiva repressa nell’inconscio. Un risultato almeno era raggiunto: il male veniva visto altrove e l’attenzione era distolta dai maggiori problemi.
Ciò contribuiva ad assicurare l’ordine sociale a un prezzo, tutto sommato, piùche accettabile: bastava estrarre, ogni tanto, un frammento qualunque dal magma indistinto della plebe e, senza nulla cambiare, lasciarcelo ricadere in pasto, per un breve tripudio che costituiva un atto liberatorio avidamente atteso, quasi una versione consentita del sabba.
Ma, affinché ciò non ispirasse riserve nell’animo dei più sensibili era opportuno far credere che l’oggetto del sacrificio non possedesse più le normali caratteristiche umane che l’avrebbero reso uguale, in tutto e per tutto, ai sacrificanti.

In un simile contesto non c’era molto da sperare nei buoni uffici degli uomini di Chiesa.
Ci saranno stati anche tra loro alcuni convinti che si trattasse solo di leggende, ma quel che potevano fare era di riferire timidamente gli argomenti suggeriti dal buon senso, senza esprimere le proprie conclusioni in maniera esplicita; lasciare aperta solo un riserva mentale, una nicchia in cui mettere al sicuro se stessi, aspettando che i tempi fossero maturi per un ritorno, almeno parziale, della ragione.
Ma loro, le protagoniste del sabba, pensavano davvero di sfrecciare nel cielo con tutto il proprio peso, o ritenevano che fosse una parte incorporea a rappresentarle agli incontri col signore del male?
Stando alle confessioni allegate agli atti dei processi, entrambe le ipotesi appaiono legittime: alcune erano convinte di volare con il corpo, altre si accontentavano dell’idea di muoversi solo in spirito.

da Cultura-Barocca