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sabato 27 febbraio 2016

Quelle scarpe a zoccolo di mucca

 Ai primi decenni del XV secolo in Venezia si diffuse un tipo di calzatura destinato ad affermarsi per lungo tempo a livello europeo. Ed a suscitare non poche controversie ed osservazioni satiriche avverso tale audacia femmile. Si trattava di pianelle o pantofole montate su suole estremamente alte, confezionate in legno o sughero e non di rado ornate di pietre preziose o dipinte e rivestite in cuoio e tessuto.
Si trattava degli zoppeggi o sopei (altrove nominati calcagnini) ed in Francia detti chopines.
 

I detrattori di questo modello lo denominavano con evidente allusione antifemminea a zoccolo di mucca. 

Per alcuni sarebbe stato introdotto nella città lagunare, imitando una calzatura medio orientale, al fine di salvaguardare i piedi femminili dal contatto con i pavimenti caldi e scivolosi dei bagni turchi mentre a più condivisibile giudizio d'altri sarebbero penetrati dalla Spagna e comunque sarebbero stati realizzati allo scopo di salvaguardare le donne nel corso dei loro movimenti in città spesso infestate da impaludamenti o fenomeni alluvionali per la minima cura degli argini fluviali e con le pubbliche vie così poco curate da essere spesso invase da scarichi fognari.

 

 

Il fenomeno ebbe risonanza a Venezia per la convenienza di tali calzature contro l'imprevedibilità dell'acqua alta nelle calli ma in effetti raggiunse notevole diffusione panitaliana: e non a caso in due delle celebri rappresentazioni di Abiti antichi e moderni di Cesare Vecellio sono effigiate una donna moderna genovese ed una nobile genovese che, come ben si può notare, indossano un tipo di queste discusse calzature. Occorre dire che le donne, che non cavalcavano, per le vie dell'età intermedia, in gran parte trascurate, o si spostavano con le seggette o "portantine" oppure, se di condizione meno abbiente, ricorrevano a scarpe alte sempre che al pari delle antiche donne popolane non volessero o dovessero correre rischi non comuni, facili nel condurre, praticando luoghi davvero insalubri a gravi infezioni, tetano compreso.

La degenerazione della moda (maggiore era l'altezza delle suole, maggiore dovevano essere la ricchezza e il prestigio di chi le indossava e col passar del tempo e soprattutto nel XVII secolo tali calzature raggiunsero "altezze vertiginose", sino ai i 60 cm., sì che le donne dovevano sorreggersi su due accompagnatori) originò un luogo comune di trattazioni misogine fra parecchi scrittori di morale.


domenica 14 febbraio 2016

Dopo la desertificazione di IX e X secolo

Milano: colonne di San Lorenzo
Uno dei temi sommersi della storiografia ligure e pedemontana, talora intuito, ma in fondo non mai compiutamente svelto, se non procedendo a settori e compartimenti (come invero è difetto strutturale della ricerca nel Ponente italiano) è dato dal tema della DESERTIFICAZIONE, fisica e morale, di siffatte regioni dopo gli eventi drammatici di IX e X secolo.
 
La storiografia tradizionale ha sempre privilegiato l'analisi della crisi socio-economica di queste contrade e, senza sbagliare, l'ha connessa prioritariamente agli sfondamenti dei Saraceni cui, senza dubbio, era da addebitare un ruolo di primo piano nel degrado ambientale ed economico oltre che nella catastrofica interruzione dei rinati processi di comunicazione su antichi tragitti interregionali.
 
La Chiesa si trovò comunque nella necessità di affrontare un problema in qualche modo connesso al disordine morale e ideologico genericamente insorto e per certi aspetti consequenziale, per logia e cronologia, al disordine istituzionale ed ambientale attribuibile all'alluvione del Frassineto" come allora si soleva ribadire.
 
Le masse popolari [che peraltro erano state faticosamente consegnate e talora anche restituite, contro ritorni idolatrici al paganesimo già vigorosamente combattuti da Papa Gregorio Magno ed i Benedettini, oltre che certe "più attuali" devianze ereticali, all'ortodossia cattolica] erano rimaste sconcertate di fronte all'impotenza della Cristianità nei riguardi dell'espansionismo arabo.
 
Alle sconfitte militari, e quindi alle profanazioni religiose, era così seguita (tra X e XI secolo) una crescente delusione nei confronti di tutto l'apparato, temporale e spirituale, su cui l'intero complesso del medioevo feudale reggeva il suo stesso esistere.

Per primo (diventando quasi una fonte cui attingere perpetuamente ma comunque riprendendo un'intuizione del Luppi) in tempi recenti L. Oliveri ha redatto un contributo, che se non può essere esaustivo sull'argomento, risulta emblematico per le linee guida che suggerisce a tutti i ricercatori che si accostano a questo periodo storico ed ai suoi complessissimi problemi.

Semplicisticamente la sua dissertazione riguarda lo sviluppo in Piemonte (e consequenzialmente in Liguria) dei pravi homines: gli "uomini malvagi" (logicamente sotto l'interpretazione cattolico-cristiana) che, a fronte del momentaneo fallimento della cristianità e di rimpetto alle ampie terre effettivamente lasciate deserte dai Saraceni, avevano cercato salvezza, fisica e morale, in un complesso, variegato e spesso anche rozzo, di esperienze eterodosse, ereticali e in definitiva costantemente anticattoliche.
 
A seconda delle postazioni ideologiche la valutazione di questi movimenti sono state diverse: già escludendo i testi di taglio eminentemente storico-religioso, alcuni storici come il Formentini hanno parlato di vere e proprie esperienze rivoluzionarie, altri quali il Settia si sono soffermati maggiormente sull'aspetto collettivo di lotta contro la Chiesa ufficiale, altri ancora - con qualche cedimento alla parzialità filoromana - hanno marcatamente parlato di "apostasia" o di "empietà" come Riberi e Ristorto o come l'Oliveri.
 
La documentazione su queste forme di associazionismo anticattolico nella Cispadana ed in Liguria sono davvero scarne: tuttavia qualche cenno alla diffusione e alla importanza crescente (e proccupante per la Chiesa ufficiale) ci proviene recentemente da quanto scrive A. Vauchez nel suo lavoro Movimenti religiosi fuori dell'ortodossia in Storia dell'Italia religiosa, Baria, 1993, vol. I, pp. 311 - 313.
 
Un utilissimo contributo, appartenente ancora a questa ultima collana citata, è quello di P. Golinelli laddove redige l'utilissimo saggio intitolato Strutture organizzative e vita religiosa (p. 186 in particolare).

Dall'analisi di questi lavori e dallo studio di una spedizione armata del 1034, contro i manichei di Monforte Langhe e dell'Appennino, capeggiata da Olderico Manfredi e del fratello Alrico, vescovo di Asti, si evincono alcune interessanti osservazioni. Gli sconfitti manichei che non vollero prestare alcuna abiura in Milano, dove furono tradotti, vennero condannati al rogo: in definitiva costoro (contro cui si sentì l'esigenza di un intervento tanto pesante nel contesto della ricristianizzazione di queste vaste terre) a fronte dell'istituzione, laica e religiosa, avevano la colpa principale di voler minare alle fondamenta la struttura feudale e teocratica nel nome di un palesato indebolimento dei concetti di proprietà e autorità.
 
Se come scrive il De Moro i pravi homines avevano in comune tale postazione ideologia con i manichei catari di Monforte (che esercitavano la comunione dei beni e rigettavano lo schematismo dogmatico della Chiesa ufficiale) una loro violenta persecuzione rientra nel plausibile come atteggiamento istituzionale per il reinserimento delle collettività nell'ecumene cristiana ortodossa.


martedì 9 febbraio 2016

Spigolature su Palazzo Ducale di Genova

Fonte: Fondazione Palazzo Ducale
I Capitani del popolo Oberto Spinola e Corrado Doria fanno edificare il Palazzo degli Abati sull'area urbana preesistente fra le chiese di S. Lorenzo e S. Matteo (1291). Nella nuova costruzione viene inglobato anche l'attiguo Palazzo con torre di Alberto Fieschi, acquistato dalla Repubblica di Genova nel 1294. 
Da questo nucleo si sviluppa il Palazzo, che viene detto "Ducale" dal 1339, quando diviene sede del primo Doge genovese, Simon Boccanegra.
Parte della costruzione medievale é oggi ancora visibile. Alla prima fase edilizia dell'edificio appartiene anche la "Torre del popolo", sopraelevata poi nel 1539, che domina tuttora sul centro storico genovese. Nel corso del XIV - XV secolo il Palazzo viene progressivamente ampliato con l'aggiunta di nuove costruzioni, fino a chiudere sui quattro lati la piazza antistante.
La struttura medievale scompare con i lavori del XVI secolo, quando viene conferita al Palazzo una nuova fisionomia, più adeguata all'importanza e al cerimoniale della nuova Repubblica oligarchica.
La TORRE GRIMALDINA era occupata - salvo la gabbia superiore - dalle CARCERI e dai pochi vani scelti per realizzarvi la CAMERA DI INVESTIGAZIONE E TORTURA INQUISITORIALE essenziale ai fini della CONFESSIONE, "momento cardine" del DIRITTO INTERMEDIO.
Nei CAMERONI A VOLTA i DETENUTI stavano in comune, spesso incatenati.
Lungo i ripiani della ripida scala c'erano anche alcune SEGRETE per la costrizione di alcuni particolari REI.
Le CARCERI DELLA TORRE GRIMALDINA, almeno fino ai primi decenni del XIX secolo, ospitavano DETENUTI PER RAGIONI POLITICHE o INDIVIDUI REI DI GRAVISSIMI CRIMINI.
Peraltro le più comode parti superiori della TORRE risultavano in pratica riservate ai privilegiati ESPONENTI DELLA NOBILTA' - in attesa che dalla famiglia venisse pagato allo Stato il loro RISCATTO - e che comunque anche nel caso estremo di una condanna, capitale o non, potevano fruire di una FORMA DI PUNIZIONE DIVERSIFICATA E MENO UMILIANTE, rispetto a quella applicata ai DETENUTI COMUNI DEI CETI INFERIORI
Tra i detenuti più "celebri" rinchiusi fra le mura della Torre Grimaldina si possono citare il nobile Domenico Della Chiesa (fu incarcerato senza processo per compiacere il fratello senatore), Giulio Cesare Antonio Vachero (cospiratore nel 1628 di una delle più gravi congiure, avvenute contro la Repubblica di Genova, ed appoggiata dai Savoia) ed  il patriota mazziniano Jacopo Ruffini (che in cella si suicidò per tema di tradire i confratelli).
Orlando Grosso (Genova 1882-1968) durante i lavori di restauro del 1935-1940 pose la costruzione della Torre in una fase cronologica intermedia della strutturazione del Palazzo del Comune: la Torre sarebbe stata costruita non prima del 1298 e non molto oltre il 1307 dopo il completamento del portico e del primo piano del Palazzo di Alberto Fieschi; ad essa sarebbe stato poi addossato l'edificio di ponente, ed infine un altro piano si sarebbe aggiunto al Palazzo Fieschi. 
Alcuni fatti e dati fanno pensare che la Torre non solo fosse anteriore all'edificio del 1291, ma addirittura che preesistesse allo stesso Palazzo Fieschi.
Principale assertore di quest'ultima tesi è il Poggi che si allinea alle teorie del Banchero e in certo qual modo a quelle del Giustiniani.
"La torre - egli dice - può essere una delle antiche torri di difesa della città dalla parte di Serravalle. E' stato obbiettato che la torre ha carattere di costruzione civile e non militare. Senonché l'osservazione è messa in dubbio dal fatto che la cinta del secolo XI e X fu una difesa apprestata in fretta dagli abitanti di San Lorenzo e dai milanesi di S. Ambrogio per chiudersi, per coprirsi le spalle dal colle di S. Andrea di Banchi. Le torri furono probabilmente apprestate in fretta dove erano le case, e la popolazione concorse nell'elevare le mura fra torre e torre. Ed ogni torre ebbe il suo proprietario."
Entrambi le teorie, in mancanza di documenti certi, hanno un loro fondamento, tuttavia l'origine viscontile prospettata dal Poggi appare più mitica che storica. Quel che comunque appare certo è il fatto che la Torre faceva sicuramente parte del Palazzo di Alberto Fieschi. Dal secolo XVI fino a gran parte del XVII la Torre subì modifiche interne considerevoli, in seguito alla sua trasformazione in carcere: ebbe i piani dimezzati e notevoli variazioni nelle aperture.
In particolare la cella - sottostante alla triplice fila di archetti - ebbe le primitive monofore trasformate in bifore per esigenze statiche dopo l'innalzamento cinquecentesco.
La muratura perimetrale è rimasta in sostanza quella originaria. Fin dal Medioevo la campana nella Torre del Palazzo del Comune, poi Palazzo Ducale, aveva molteplici funzioni.
Da essa partivano i segnali di convocazione delle magistrature, quelli relativi agli esiti delle guerre in corso ed anche quelli per il coprifuoco e gli allarmi in generale.
La campana veniva però anche usata nelle ricorrenze solenni, nei festeggiamenti o per dare il benvenuto alle personalità politiche e religiose che facevano visita ai Dogi ed al Senato.
La storia di queste campane parte con la nascita stessa di Palazzo Ducale; infatti nei pressi della rampa d'accesso a Palazzo Ducale sono stati ritrovati i resti di una fornace da campane databile al XIV secolo.
"E già per due anni avevano fatto fabbricare per mano di Guglielmo di Montalto la campana grossa del Comune la quale fecero riporre nella torre del palazzo nuovo".
Così l'annalista Giustiniani ci informa dell'esistenza di una campana nella torre già a partire dal 1291, anzi, la torre sarebbe stata edificata appositamente per questo scopo. La campana fusa da Giuliano di Montaldo durò "... per spazio di più di 230 anni", dice ancora il Giustiniani. "E poi al tempo della ricuperata libertà la campana si è rinnovata e non è di tanta bontà come la prima". L'anno della "ricuperata libertà" è il 1528, anno in cui la vecchia campana fu rifusa.

martedì 2 febbraio 2016

La novella Zenobia

 
 
Hesther Lucy Stanhope (1776-1839) è stata una nobile viaggiatrice (anche avventuriera), britannica, divenuta famosa per le movimentate vicende della sua vita in Medio Oriente, una terra straordinaria che solo da tempi recenti e soprattutto da fine '700 e primi '800 cominciò a rivelare ai suoi primi scientifici esploratori il suo fascino leggendario e lo splendore dei suoi reperti archeologici. 
 
Lady Esther Stanhope fu proclamata regina di Palmira, l'antica Tadmor, da alcune tribù di beduini; prima di divenire una sorta di profetessa tra le comunità druse in Libano. 
 
La "Revue des Deux Mondes", nel 1845, la descrisse come "regina di Tadmor, maga, profetessa, patriarca, capo arabo, morta nel 1839 sotto il tetto del suo palazzo sgangherato e in rovina a Djîhoun, in Libano". 
 
Esther Stanhope era figlia dello scienziato Charles Stanhope, III conte di Stanhope e di Hester Pitt, sorella del primo ministro britannico William Pitt il giovane. 
 
"Giovane, bella e ricca", secondo la descrizione di Lamartine in "Le Voyage en Orient", ella viaggiò in Europa a partire dal 1806 prima di visitare il Medio Oriente: quindi, Gerusalemme, Damasco, Aleppo, Homs (che è poi da identificare con l'antica Emesa in Siria, celebre per il culto solare del Dio El Gabal) e in particolare Baalbeck (Baalbek l'antica Eliopoli o "città del sole" di cui il Robinson  ha lasciato un'esaustiva descrizione in dettaglio, soffermandosi sulla descrizione del "Gran Tempio del Sole"); e soprattutto Palmira, dal nome originario di Tadmor, la grande città sita, con sua fortuna economica, al crocevia dei grandi commerci tra l'Impero di Roma, quello dei Parti e l'Estremo Oriente. 
 
Il celebre letterato francese Lamartine di lei scrisse: ... numerose tribù erranti di arabi che avevano facile accesso a queste rovine, si sono riuniti intorno alla sua tenda, in numero di quaranta o cinquanta mila, e incantati dalla sua bellezza, dalla sua grazia e magnificenza, la proclamarono regina di Palmira, ed ella in cambio sottoscrisse un documento secondo il quale ogni europeo, sotto la sua protezione, avrebbe potuto tranquillamente venire a visitare il deserto e le rovine di Baalbek e di Palmira, a condizione di impegnarsi a pagare un tributo di mille piastre". 
 
Come regina di Palmira fu considerata una novella Zenobia. 
 
Dopo molti viaggi e avventure, Lady Esther si stabilì nel paese dei drusi. Secondo Lamartine (Le Voyage en Orient, 1835), il Pasha di San Giovanni d'Acri, Abdala Pasha, le concesse il villaggio di Joun/Djîhoun, dove, sulle cime solitarie delle montagne del Libano, ella si fece costruire un palazzo con giardino. A seguito delle folli spese fatte, finì in rovina, ma acquisì presso i drusi fama di "profetessa". Lamartine descrive il suo dialogo con lei, durante il quale ella raccontò della sua fede, una miscela di cristianesimo e di tradizioni orientali: una sorta di sincretismo, argomento su cui in una sua lettera al Lamartine concordò anche un altro celebre visitatore della donna, Luigi Augusto di Thivac, Visconte di Marcellus, che le dedicò un intero capitolo delle sue "Rimembranze intorno all'Oriente". 
 
Lady Ester Stanhope morì - come sopra accennato - in miseria, nel suo palazzo diroccato, nel giugno del 1839.  Fu in seguito la fonte di ispirazione esplicita del personaggio di Althestane Orlof nel romanzo di Pierre Benoît La Châtelaine du Liban (1924).
 

sabato 23 gennaio 2016

La Via Francigena in Piemonte

Il tragitto della Francigena può essere utilmente analizzato, studiando gli insediamenti monastici, disseminati lungo il suo corso e nei quali i pellegrini trovavano riparo, cure e conforto.
Siffatti ricoveri monastici ascrivibili al Medioevo hanno attualmente perduta quasi del tutto l’originaria tipologia.

Alcuni sono stati purtroppo lasciati cadere in degrado; mentre altri, seguendo sorte migliore, essendo stati minati dal tempo e dall’uso, oltre che da calamità di varia natura, hanno usufruito di qualche recente restauro, che però in non rari casi ne ha alterato la primigenia architettura.
 
Tra i luoghi sacri sviluppatisi lungo il passaggio meridionale della Francigena, una volta scesi dal Moncenisio, i viandanti della fede incontravano per prima l’Abbazia di Novalesa.

Si tratta di un complesso di costruzioni, il cui nucleo centrale venne fondato nel 726 da Abbone, rector della Moriana e di Susa, e affidato alle cure dei Benedettini, sotto i quali divenne un importante centro di cultura. Seguendo la regola di San Benedetto, i monaci pregavano e lavoravano, mettendo a frutto le proprie capacità soprattutto in campo agronomico e quindi assistenziale.
Durante i tempi freddissimi della stagione invernale la caritatevole ospitalità, a favore di viandanti e pellegrini, era pressoché continua.
Per provvedere a tutto ciò il cenobio godeva di una specifica organizzazione intestina: in particolare due confratelli prestavano servizio nella cucina riservata, dotata di scorte proprie amministrate dal Cellerario, mentre altri due si occupavano delle camere da letto, dove gli ospiti dormivano su dei sacconi di foglie o di paglia.
Le persone più avanti nell'età e particolarmente quanti erano palesemente deboli, o per le avversità dell’improbo viaggio o per qualche malattia, erano più comodamente sistemati nell’infermeria, l’unico locale riscaldato del monastero.

I pellegrini che invece giungevano dalla variante del valico del Monginevro non raggiungevano la Novalesa (i due rami della via Francigena inferiore si riunivano soltanto a Susa), ma pervenivano senza soste a Susa e, poi, superata la località, sostavano in un altro celebre luogo di fede, la Sacra di San Michele.

La tappa seguente era Avigliana, dove i pellegrini si fermavano in devota preghiera dentro la chiesa di San Pietro, fondata dai Benedettini dell’Abbazia di Novalesa tra il X e l’XI secolo: questo edificio, di originario stile romanico, sarebbe poi stato modificato con l’intromissione di elementi architettonici di tradizione gotica.

Procedendo da Rivoli, i viandanti erano quindi in grado di accedere ad una delle chiese più significative del Medioevo piemontese, quella di Sant’Antonio di Ranverso, eretta da Umberto III detto il Beato ed affidata ai padri Antoniani di Vienne con l’incarico di gestirne l’annesso ospedale.
Il centro di accoglienza era uno dei più importanti del percorso: i padri Antoniani disponevano infatti di larghi mezzi ed esercitavano il loro ministero con profondo spirito di carità, tanto che molti pellegrini preferivano sostarvi senza neppure entrare in TORINO, e proseguire il viaggio direttamente per Asti ed Alessandria.

Ad Asti si stava nel contempo innalzando la cattedrale di S. Maria Assunta, dopo che era stata rasa al suolo una ormai insufficiente chiesa romanica, dirimpetto alla quale stava la chiesa di San Giovanni, edificata nell’VIII secolo, nella cui cripta accorrevano volentieri i pellegrini, visto che vi si custodivano reliquie ritenute eccezionali, tra cui, secondo la tradizione, un chiodo della “Santa Croce”.

Alessandria aveva già una sua cattedrale romanica attribuita al 1170: essa però nel pieno XIII secolo venne praticamente riedificata, ispirandosi al nuovo gusto architettonico dalle forme gotiche (la chiesa nuovamente venne demolita e quindi riedificata nel 1810).

Non molto a meridione di Alessandria stava poi il sito di Marengo, destinato ad imprevedibile fama per la straordinaria vittoria ottenutavi da Napoleone sugli Austriaci il 14-VI-1800.

Il percorso da questo punto procedeva ormai decisamente in direzione del Dominio genovese e quindi alla volta della grande città portuale ligure.

I pellegrini attraversavano ancora Stazzano, Gavi e Voltaggio prima della salita, che portava al passo della Bocchetta, da cui si scendeva al mare; a Gavi erano comunque usi sostare in meditata orazione nella chiesa romanica di San Giacomo, costruita in pietra arenaria fra l’XI ed il XII secolo ed a Voltaggio nel convento dei Cappuccini.

Anche la via Francigena superiore, che scendeva dal valico del Gran San Bernardo, offriva luoghi di preghiera e di raccoglimento; il primo centro che si incontrava, dopo aver superato il confine tra la regione aostana e quella piemontese, era IVREA, dove sorgeva il Duomo costruito nel IV secolo sulle rovine di un tempio romano. Proseguiva invece alla volta di Viverone, dove i pellegrini potevano sostare in orazione sulle tombe dei primi martiri cristiani.

Da Viverone la via superiore raggiungeva Cavaglià, dove i Romei (cioè i “pellegrini”, come anche si nominavano questi viandanti di fede, tesi a raggiungere i luoghi santi di Roma) si radunavano nel Santuario di Nostra Signora di Babilone, edificato sul relitto di una chiesa eretta nel V secolo da Teodolinda (la regina dei Longobardi che dopo la morte del re Autari sposò Agilulfo, duca di Torino, e tutelò contro l’arianesimo la fede cristiana pure in terra piemontese).

Altre tappe del viaggio erano poi Santhià, nella cui chiesa -poi parrocchiale- consacrata a Sant’Agata i pellegrini erano ricevuti da potenti canonici e Vercelli, la cui basilica di Sant’Andrea era illustre in tutta la Cristianità per le reliquie custoditeva e per la sua architettura innovativa, testimonianza importante di transizione tra romanico e gotico.

Da Vercelli la via Francigena volgeva quindi in direzione di Pavia o scendeva ad Alessandria, nuovamente fondendosi con il tratto della “via inferiore”, tesa a raggiungere Genova ed il mare ligustico.

da Cultura-Barocca


martedì 12 gennaio 2016

La compagne di Diana

 Scrive Antonio Zencovich: "Il nome della dea cacciatrice DIANA (nell'immagine l'incisione di ISIDE dea della LUNA identificata in DIANA dal De veteribus aegyptorum ritibus di Giovanni Battista Casalius edito a Roma, per A. Phaei, nel 1644) ricompare, in pieno Medioevo, al centro di un culto estatico (quello delle COMPAGNE DI DIANA) che contiene quasi tutte le componenti delle imprese successivamente attribuite alle streghe."
Ne parla il famoso Canon Episcopi, citato continuamente dagli scrittori di religione nell'epoca della caccia alle streghe: il testo, noto già verso l'inizio del X secolo a Reginone di Prum, veniva riesumato circa cent'anni dopo da Burcardo di Worms, il quale lo riportava in un passo dei suoi Decretorum Libri, attribuendolo, con un equivoco destinato a durare a lungo, al Concilio di Ancira del 314 d.C., mentre in realtà era stato scritto almeno mezzo millennio più tardi. Ne riportiamo uno stralcio: Pretendono e dichiarano di cavalcare nelle ore della notte piu profonda, esse con un'innumerevole folla di altre donne, insieme con la dea pagana Diana, a cavalcioni su certi animali e di percorrere col favore del silenzio notturno spazi immensi e di obbedire al comandi della dea come loro signora e di stare al suo servizio in ore ben determinate... Molte persone, indotte in errore, credono che queste cose siano vere e in tal modo si allontanano dalla vera fede e ricadono nell'errore pagano, stimando che possa esistere qualche altra divinità o potenza divina oltre l'Unico Iddio. E' invece il diavolo che assume ogni sorta di apparenze e figure umane e, ingannando per mezzo dei sogni le anime che tiene prigioniere, mostra loro cose ora allegre ora tristi, ora persone sconosciute: in tal modo induce in errore e, mentre impegna con le sue nenzogne soltanto lo spirito, fa sì che il superstizioso ahbia l'impressione che quel che vede non accada solo nella sua mente, bensì nella realta concreta.
E' difficile stabilire se vi fosse una continuità tra simili manifestazioni e il CULTO PRECRISTIANO DI DIANA; il fatto di ascriverle a quella dea costituiva senz'altro un tentativo di sistemazione dottrinale da parte dei teologi, più che di coloro i quali le praticavano.
Tuttavia non è improbabile che una DEVOZIONE NASCOSTA ALLE DIVINITA' PAGANE abbia potuto conservarsi a lungo dopo l'avvento della Cristianità, soprattutto dove le sue radici erano più profonde.
Essa dovette rimanere confinata, in generale, nell'ambito popolare, legandosi a un complesso di riti eterodossi al quali la Chiesa non si opponeva seriamente, non ritenendoli una vera e propria minnaccia al proprio primato.
Una reminiscenza in tal senso veniva descritta, nel secolo VI, da Cesario di Aries: a quei tempi, in Francia, durante la notte delle CALENDE DI GENNAIO, i contadini allestivano tavolate per propiziare la prosperita e in tali occasioni si mascheravano da animali, gaudentes et exsultantes, si taliter se in ferinas species transformaverint, ut homines non esse videantur.
Anche in una simile tradizione, antenata dell'uso di festeggiare il CAPODANNO con cene e libagioni, si proponevano dunque degli elementi che in un secondo tempo sarebbero stati qualificati come diabolici, per via di quel trasformarsi in bestie che, interpretato allora a livello ludico, avrebbe finito per essere preso assolutamente sul serio vari secoli dopo.
Intorno alla fine del primo millennio dell' era cristiana, dunque, il culto di una DOMINA NOTTURNA raggiunse una fisionomia ben precisa e una forma organizzata che, per i teologi, faceva sospettare l'esistenza di qualcosa di simile a una società segreta, definita COMPAGNIA DI DIANA.
La figura dell'antica dea però (se di essa si trattava) si era profondamente modificata: non più soltanto personificazione della Luna, nonché signora delle foreste e degli animali selvaggi - competenze, queste ultime, alquanto secondarie in una società stanziale di tipo agricolo - essa era diventata padrona del regno dei morti e dispensatrice di fertilità, secondo connotazioni più proprie alla CELTICA EPONA che alla Artemide-Diana della tradizione dei Greci e dei Romani.
Aveva inoltre assimilato alcune delle prerogative di Era (la Giunone italica) con il cui nome veniva talvolta chiamata.
Ancora al principio del Quattrocento i contadini del Palatinato credevano che una HERA portatrice di abbondanza andasse volando nottetempo, nel periodo di dodici giorni dedicato al morti compreso tra il Natale e l'Epifania.
E' evidente dunque come a Diana, o Era, si riallacciasse il mito popolare e nello stesso tempo alquanto particolare della BEFANA.
Ancora più esplicito il riferimento proposto da S. BERNARDINO DA SIENA che, nei sermoni pronunciati a Padova nel 1423, parlava delle vetule rencagnate che andavano in cursio cum Heroyda in nocte Epiphanie.
Heroida, o Erodiade, era un altro appellativo della dea, che ricorreva già in Burcardo di Worms.
Derivato forse dalla deformazione di Eradiana (Era + Diana), veniva però spiegato sulla base di una leggenda popolare, secondo la quale l'amante di Erode era stata costretta a vagare in eterno nell'aria, spinta da uno spirito maligno, dopo aver preteso la testa di S.Giovanni Battista. In ambito tedesco compariva a volte col nome di Fraw Selga, in omaggio alla quale si svolgevano, durante le quattro Tempora, cerimonie evocative dei defunti, con la partecipazione di donne che cadevano in deliquio. In altri casi, invece, a queste "processioni dei morti" presiedeva un'altra divinita, di nome Holda, identificata con Venere.
In tal modo quasi tutta la rappresentanza femminile dell' Olimpo confluiva nella figura di questa multiforme signora della notte, diventata ormai una "superdea" in cui rinasceva, sotto vari aspetti, la figura della DEA MADRE delle ANTICHE CIVILTA' MEDITERRANEE.
Essa [attraverso l'opera delle COMPAGNE DI DIANA] veniva a colmare la lacuna lasciata, nel terreno dei bisogni spirituali, dal Dio uno e trino cristiano, ereditato dalla religione degli Ebrei, popolo di guerrieri e pastori, nella cui società la donna aveva scarso peso.
In molte parti dell' Europa, invece, il ruolo femminile si era affermato in maniera autorevole fIn da tempi remoti, lasciando tracce indelebili nei sentimenti popolari. Nei posti in cui si trovava un terreno favorevole, le preesistenti istanze religiose finirono così per risorgere spontaneamente, col proporre un punto di riferimento antitetico a quella del DIO UOMO, in cui si affermavano ideali femminili che il Cristianesimo aveva sottovalutato in nome del proprio simbolo, portatore di opposte insegne.
Anche a prescindere dalla fisionomia con cui lo si raffigurava, infatti, era chiaro come l'immagine del Dio di forza e di luce propugnasse un modello accentratore e combattivo dalle evidenti connotazioni virili, mentre la dea rivale si esprimeva nel territorio deli' altra metaà dell'esperienza umana, per molti versi cara al maligno, signore di presenze oscure quali la notte, la morte, la selva, il silenzio e la solitudine.
Le motivazioni che inducevano le DEVOTE DI DIANA a presenziare ai riti estatici e a compiere imprese oniriche avevano però quasi sempre, almeno in origine, ben poco di demoniaco. Lo stimolo principale, perfettamente comprensibile nello stato di miseria diffusa a quei tempi, era l'aspirazione alla sicurezza e alla prosperità; talvolta non solo per se stesse, ma per l'intera comunità di appartenenza.
Non per nulla l'immagine popolare delle vecchiette veleggianti nell'aria era destinata a dare origine al mito gioioso della BEFANA.
Allo stesso modo le discese agli inferi e le battaglie per la fertilità di un secondo filone stregonesco... perseguivano finalità altruistiche, in quanto coloro che vi si dedicavano erano convinti di agire nell'interesse della propria gente. E anche se l'aiuto offerto non usciva dall'ambito dell'immaginario, il loro intervento non doveva mancare di una reale efficacia suggestiva nei confronti di chi avesse condiviso i fondamenti metafisici di simili mprese.
I religiosi, però, sospettavano qualche intrigo del diavolo e, in un'epoca abbastanza antica - quella della compilazione del Canon Episcopi -  cominciarono a mettere in guardia chi vi si dedicava o era tentato di farlo. Forse, più del diffondersi di un CULTO PAGANO, essi temevano il contenuto trasgressivo implicito in ogni manifestazione che si sottraesse al controllo delle istituzioni sociali, alimentando la pericolosa idea che il benessere, a livello individuale o di piccoli gruppi, non fosse da cercare lungo le vie indicate dalla morale comune, ma proprio in quelle sbarrate dagli imperativi e dai divieti.
Tuttavia, per alcuni secoli, la censura ecclesiastica non si sarebbe tradotta in una sistematica persecuzione. Condanne isolate - o più spesso linciaggi - certo non mancarono e anche in quei primi tempi doveva essere pacifico a tutti come esistesse una magia buona e una cattiva, non meno di stregoni amici e nemici.
Ma la DEA DELLA NOTTE E DELLA FORESTA restò a lungo, nell'immaginario collettivo, come la buona signora cui venivano attribuiti i nomi benaugurali di Satia, Abundia, Richella, o appellativi pseudocristiani, come la Madonna Horiente, materna figura che insegnava le virtù delle erbe, il modo di curare le malattie e di sciogliere i malefici.
Un improvviso cambio di tendenza si ebbe verso la fine del XIV secolo e un episodio legato al culto di MADONNA HORIENTE, riferito da Carlo Ginzburg, appare particolarmente indicativo dell'irrigidimento della Chiesa che, da allora, non disdegnò di avvalersi degli stessi argomenti irrazionali e suggestivi di cui si nutriva l'immaginazione degli umili.
Nel 1390 due donne lombarde, Sibillia e Pierina, furono processate per la partecipazione a quello che i religiosi chiamavano ancora IL GIOCO DI DIANA.
L'accusa originaria era di aver creduto di andare al convegno, limitando la loro colpa a un peccato di pensiero.
Ma sei anni più tardi, nel rivedere gli atti relativi a una delle due, un altro inquisitore ebbe a scrivere che la donna era stata materialmente alla festa del diavolo.
A questo punto cominciarono ad essere accreditati, da parte degli scrittori di Chiesa, tutti gli stereotipi che la fantasia popolare aveva accumulato, nel corso dei secoli, sul conto delle malefiche: quello di uccidere i bambini, di suscitare tempeste, di compromettere la fertilita dei campi e indurre malattie tanto agli uomini quanto agli animali.
E soprattutto ricomparve il mito della STRIX, il vampiro degli antichi Romani, ricordato da Plauto, Plinio e Ovidio, che volava nottetempo per succhiare il sangue degli infanti, da cui appunto deriva il nome di STREGA.
Conseguentemente venne accolta, da parte di molti religiosi, la leggenda che descriveva le indemoniate come capaci di mutarsi in bestie e volare nell'aria: quest'ultima eventualità, esclusa in precedenza non solo dal Canon Episcopi, ma da una linea di pensiero risalente a S. Agostino, avrebbe trovato la sua consacrazione nel MALLEUS MALEFICARUM e negli scritti di una nutrita schiera di teologi che, a partire da quel momento, presero a sostenere concordi come le intelligenze angeliche, buone e cattive, potessero, per propria naturale virtù, trasportare un corpo umano da un posto all'altro.
Tra i teorici che si occuparono dell'argomento prima del MALLEUS emerge il nome di Johannes Nieder, autore del Formicarius, scritto a Basilea tra il 1435 e il 1437, il cui quinto libro rappresentò, all'epoca, il principale riferimento per chi combatteva le superstizioni e la magia.
Benché fermamente convinto che il demonio potesse, con tali mezzi, conseguire effetti prodigiosi, egli non era tuttavia dell'avviso che le streghe volassero realmente.
Non così i predicatori i quali, nella prima metà del secolo XV, prepararono il terreno alle prese di posizione estremistiche di Sprenger e Kramer.
A livello di impatto sul pubblico la loro azione ebbe infatti una risonanza ben maggiore di quella dei teorici colti, non ancora in grado di avvalersi della risorsa decisiva rappresentata dal mezzo della stampa: arma di cui poterono invece disporre, pochi decenni dopo, Sprenger e Kramer, inquisitori tedeschi. 

martedì 29 dicembre 2015

Christine de Pizan, femminista ante litteram

Christine de Pizan offre una copia dei suoi lavori alla regina Isabella di Baviera, moglie del re Carlo VI (Fonte dell'immagine: Wikipedia)
Christine de Pizan, nata a Venezia nel 1364 (morta nel 1430 c., forse a Poissy) da genitori italiani, venne educata in Francia, dove il padre, originario di Pizzano [Bologna], da cui il nome, era medico e astrologo alla corte di Carlo V.

Rimasta vedova, Christine cercò nella letteratura una fonte di guadagno e di prestigio, componendo molte opere di circostanza in versi e prosa, narrazioni storiche e compilazioni morali, che le venivano commissionate. Denota autentica vena lirica allorchè canta la propria pena o partecipa al dramma del paese dilaniato dalla guerra dei cent'anni.

Tra le sue opere,  il Detto della Pulzella (1429), un poema su Jeanne d'Arc, il Detto della rosa (1401), in cui assume posizione contro l'antifemminismo di Jean de Meung, e la Città delle dame (Livre de la cité des dames, 1405), che Christine stese rapidamente nell'inverno tra il 1404 e il 1405, elaborando non senza ingegno alcune vere e proprie postazioni utopistiche.

Proprio in quest'ultima opera a riguardo di Semiramide lasciò scritto, andando pienamente controcorrente: Semiramide fu una donna di immenso valore e grande coraggio nelle imprese e nell'esercizio delle armi. Fu sposa del re Nino, che diede il nome alla città di Ninive, e diventò un grande conquistatore grazie all'aiuto di Semiramide, che cavalcava in armi al suo fianco. Egli conquistò la grande Babilonia, i vasti territori degli Assiri e molti altri paesi. Questa donna era ancora molto giovane quando Nino venne ucciso da una freccia, durante l'assalto a una città. Dopo aver celebrato solennemente il rito funebre la donna non abbandonò l'esercizio delle armi, anzi più di prima prese a governare e realizzò tali e tante opere notevoli, che nessun uomo poteva superarla in forza e in vigore. Era così temuta come guerriera, che non solo mantenne i territori già conquistati ma, alla testa di una grande armata, mosse guerra all'Etiopia, contro cui combatté con ardimento, conquistandola e unendola al suo impero. Da lì partì per l'India e attaccò in forze gli Indiani, ai quali nessuno aveva mai osato dichiarare guerra, li vinse e li soggiogò. In seguito arrivò a conquistare tutto l'Oriente, sottomettendolo alle sue leggi. Oltre a queste conquiste, Semiramide fece ricostruire e consolidare la città di Babilonia, fece costruire nuove fortificazioni e grandi e profondi fossati tutt'intorno. 

E, cercando di essere esaustiva in questo suo assunto innovativo, l'autrice appone una chiosa non esente da modernità, cercando di storicizzare le scelte di Semiramide in altri contesti cronologici altrimenti indifendibili: È ben vero che molti la biasimarono - e a buon diritto se avesse vissuto sotto le nostre leggi - per il fatto che prese come marito un figlio che lei aveva avuto da Nino, suo sposo. Ma i motivi che la spinsero a ciò furono principalmente due: prima di tutto non voleva che nel suo impero ci fosse un'altra dama incoronata oltre a lei, fatto inevitabile se suo figlio avesse sposato un'altra, e poi che nessun altro uomo era degno di averla in moglie, all'infuori di lui. Ma la si può giustificare per questa mancanza, che fu veramente grave, poiché non vi erano ancora leggi scritte: in questo modo la gente viveva secondo la legge di Natura, e ognuno si sentiva libero di agire come gli pareva, senza commettere peccato. È fuori dubbio che, se avesse pensato di agire male o che avrebbe potuto riceverne biasimo, non si sarebbe mai comportata così: essa aveva un animo nobile e un grande senso dell'onore.
La sinistra nomea - invero - della “sconcia e perfida” Semiramide [mitica regina degli Assiri, probabilmente da identificare con la regina babilonese Shammuràmat (o Sammu-ramat), moglie del re assiro Shamshiadad V (regnante dall'811 all'808 a.C.) e poi reggente per il figlio Adadnirari III: per la leggenda al contrario figlia della dea Derceto e del siriano Caistro, sposa di Onne, poi del re Nino (Adad Nirari o Adad Ninari)] rientra nelle corde di diversi autori. Da Giustino (martire cristiano del II secolo d.C.) a Sant'Agostino soprattutto ed ancora al suo discepolo Paolo Orosio.
La condanna è sempre inequivocabile: per alcuni Semiramide fece legittimare l'incesto col proprio figlio, per altri fu scacciata e uccisa dal figlio per sottrarle il potere, per altri ancora finì suicida.
Erodoto di Alicarnasso (V secolo a.C.) e il sacerdote babilonese Beroso (III secolo a.C.) sono forse i più attendibili e obiettivi: ne parlano come di una grande sovrana, che durante il suo regno conquistò la Media, l'Egitto e l'Etiopia, insieme a grandi opere di pace come l'edificazione delle mura e dei giardini pensili di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico.

da Cultura-Barocca